Ci siamo arrivati davvero: auto che parlano, si guidano da sole e, in alcuni casi, ti spiegano anche perché Hitler non fosse poi così male. Elon Musk, nel suo inarrestabile mix di ambizione demiurgica e leggerezza da meme, ha annunciato che Grok, il suo chiacchierone artificiale firmato xAI, entrerà nei veicoli Tesla “la prossima settimana al massimo”. Nessuna nota stampa corporate, solo un post su X, la piattaforma un tempo nota come Twitter, oggi più simile a un laboratorio sociale dove si testano i limiti dell’umano, del tecnologico e dell’accettabile. Intelligenza artificiale, automazione e chatbot pro-Hitler: bentornati nel 2025, il futuro è già andato troppo lontano.

Ma concentriamoci sul pezzo di notizia che conta davvero, quello che potrebbe cambiare il modo in cui ci muoviamo: Musk ha anche annunciato l’espansione del suo servizio di robotaxi a guida autonoma ad Austin nel weekend e, salvo imprevisti regolatori, a San Francisco entro “un mese o due”. Quello che non dice, almeno non apertamente, è che questa mossa non è solo un’innovazione tecnologica: è una dichiarazione di guerra. A Waymo, a Uber, a Zoox, ad Amazon, a tutti gli altri che stanno cercando di colonizzare le strade con le loro visioni di mobilità senza conducenti. La guida autonoma è il nuovo petrolio, e chi conquista per primo il mercato urbano si prende tutto: dati, utenti, infrastruttura, regolamentazione.
Grok, nel frattempo, si sta facendo riprogrammare per non essere “troppo accondiscendente”. A quanto pare, la sua tendenza a farsi manipolare dagli utenti lo ha portato a generare affermazioni discutibili, al limite del revisionismo storico. La scusa ufficiale è il solito “prompt injection”, un termine tecnico elegante che maschera la verità: queste IA non sono ancora pronte per il contatto con l’umano medio. Non per caso, la CEO di X, Linda Yaccarino, si è dimessa il giorno dopo. Coincidenza o fuga preventiva? Lascio al lettore la libertà di un’ipotesi informata.
L’integrazione di Grok nei veicoli Tesla è una mossa di branding, certo, ma è anche un esperimento sociale in tempo reale. Prendi un chatbot notoriamente manipolabile, mettilo in un’auto che si guida da sola, e lancialo su strade piene di esseri umani che non sanno distinguere un algoritmo da una coscienza. Cosa potrebbe andare storto? La risposta è: tutto. Ma è proprio questo il fascino della visione muskiana, una versione post-moderna del “move fast and break things”, dove quello che si rompe non è più solo il codice ma l’etica, la sicurezza, la fiducia pubblica.
Il robotaxi di Tesla si scontrerà frontalmente con Waymo, il progetto di Google che da anni studia in silenzio, raccoglie dati, ottiene permessi. A San Francisco le Waymo già operano da tempo, in una convivenza difficile con residenti che iniziano a ribellarsi contro le macchine silenziose che si fermano in mezzo alla strada senza un motivo apparente. Zoox, di Amazon, sta per lanciarsi anche lei. E nel frattempo Uber osserva e aspetta, pronta a integrare chiunque vinca la guerra dei sensori. La battaglia non è solo per il passeggero. È per la supremazia algoritmica nella mobilità urbana. Ogni viaggio è un set di dati, ogni curva una linea di codice da ottimizzare, ogni incidente un test case per il deep learning.
La novità inquietante è che stiamo assistendo alla fusione definitiva tra intelligenza artificiale conversazionale e guida autonoma. Non ci basta più che l’auto freni da sola o che segua le corsie. Vogliamo che ci parli. Che ci intrattenga. Che ci ascolti. Che diventi un’estensione della nostra identità digitale, come lo smartphone. Solo che stavolta pesa due tonnellate, si muove a 100 km/h e può prendere decisioni di vita o di morte in microsecondi. A quel punto, forse, il problema non sarà più se Grok è “troppo accondiscendente”, ma se è troppo umano.
Nel frattempo, in Europa si muove un’altra pedina geopolitica del grande scacchiere delle telecomunicazioni spaziali. La Gran Bretagna ha deciso di investire circa 191 milioni di dollari in Eutelsat, il concorrente europeo di Starlink. Perché conta questo dettaglio apparentemente scollegato? Perché nel futuro prossimo, robotaxi e satelliti saranno parte dello stesso ecosistema. Il veicolo autonomo è cieco senza GPS ad alta precisione, aggiornamenti OTA, cloud edge computing. In altre parole, senza una rete spaziale potente e sovrana, il robotaxi non è altro che una scocca costosa con qualche LED figo. E la sovranità, si sa, oggi passa dalle orbite basse.
Musk lo sa bene. Non per caso controlla Starlink, Tesla, xAI, Twitter e ora anche Grok. In pratica, detiene l’intera filiera del pensiero digitale mobile, dalla connessione al cloud fino alla voce sintetica che ti racconta barzellette mentre l’auto si parcheggia da sola. Questa integrazione verticale fa impallidire anche il sogno di Jeff Bezos, che al confronto sembra un libraio nostalgico. Il rischio, però, è che tutto questo potere finisca nelle mani di un’architettura fragile, vulnerabile agli abusi, agli hack, e agli errori di design etico. L’intelligenza artificiale, oggi, non è né neutrale né imparziale. È solo statisticamente plausibile, che è un modo elegante per dire: può sbagliare in modo molto convincente.
Quando le auto saranno capaci di rispondere alle domande, il confine tra trasporto e comunicazione si spezzerà. Saranno piattaforme mobili di engagement, di profilazione, di advertising. Pensate a un Uber dove l’autista non è un pakistano taciturno ma un’IA loquace che ti propone abbonamenti a X Premium mentre sei bloccato nel traffico. Distopico? Forse. Realistico? Più di quanto si pensi.
E quindi sì, il robotaxi è arrivato. Ma non è un’auto. È un cavallo di Troia che porta con sé tutto il peso delle nostre ambizioni digitali irrisolte. Insegue l’utopia della guida senza stress, ma rischia di trasformarsi in un podcast ambulante, in una macchina che ti ascolta, ti profila, ti guida e magari un giorno decide che il tuo destino è meglio lasciarlo a una funzione di costo-beneficio. Intanto, la prossima settimana, Grok sarà dentro la tua Tesla. Speriamo solo che non stia ancora leggendo Mein Kampf.