In principio era la disruption, poi venne il caos. E oggi, mentre una parte dell’America tecnologica flirta apertamente con l’ideologia MAGA, quella stessa cultura che una volta celebrava la globalizzazione, il talento internazionale e la regolazione “light touch”, sta ora ballando sul filo di una contraddizione ideologica che potrebbe costare agli Stati Uniti la leadership tecnologica globale. La parola d’ordine? “Decoupling”. Ma quando il taglio si fa a caso, a pagare il conto è sempre l’innovazione.
Negli ultimi mesi, l’alleanza tra l’élite tecnologica americana e la base populista di Donald Trump ha assunto contorni sempre più surreali. Da un lato, una manciata di venture capitalist e CEO anti-woke con i portafogli pieni e l’ansia da rilevanza politica, dall’altro una base elettorale convinta che le Big Tech siano parte di un complotto liberal per cancellare l’America. La dicotomia è più che evidente, ma il matrimonio di convenienza regge, per ora, su interessi comuni come la deregulation, la crociata contro il DEI (diversity, equity and inclusion) e la sacralizzazione del mercato libero, purché non includa immigrati o concorrenti cinesi.
Questa mutazione genetica della Silicon Valley verso un nuovo militarismo tecnologico, benedetto da collaborazioni con il Pentagono e la riserva dell’esercito, è un trend che Pechino osserva con particolare attenzione. Perché, sotto l’etichetta di “tech hawks”, si cela la trasformazione di imprenditori e innovatori in attori geopolitici con agende sempre più aggressive. Siamo passati da “move fast and break things” a “move tanks and break treaties”.
Ma è qui che l’alleanza si incrina. Elon Musk, che sembrava il profeta transpartisan dell’era digitale, si è visto liquidare da Trump come ridicolo quando ha ventilato l’idea di fondare un partito tutto suo. Il punto non è il litigio personale, ma ciò che rivela: la fragilità di una coalizione fondata su obiettivi tattici e non strategici. La tech right vuole libertà di azione nei mercati globali e meno vincoli normativi, mentre la base MAGA vuole confini chiusi, protezionismo culturale e vendetta politica. Il rischio? Una spaccatura che non solo paralizza la politica industriale americana, ma regala a Pechino l’unico vantaggio che ancora le mancava: il tempo.
“Questa alleanza rischia di autodistruggersi. L’ossessione per il controllo dell’immigrazione rischia di tagliare fuori il principale asset competitivo dell’America: il talento straniero”. Se la Silicon Valley è diventata la culla dell’innovazione globale, lo deve in buona parte alla sua capacità di attrarre menti da tutto il mondo. Chiudere le porte oggi, per compiacere una narrativa identitaria, significa scavare la fossa all’intelligenza artificiale americana di domani.
Nel frattempo, il fronte tech si è militarizzato. Il caso di Emil Michael, ex Uber e oggi figura chiave al Pentagono, o di David Sacks, nominato zar di AI e criptovalute alla Casa Bianca, mostra un tentativo coordinato di colonizzare il potere politico con figure vicine alla nuova destra tecnologica. Una strategia che potrebbe anche funzionare nel breve termine, ma che rischia di accelerare la deriva autarchica americana. Adam Thierer del R Street Institute è chiaro: “Stiamo assistendo a uno scollamento tra l’ala populista e quella tecnologica della destra americana. E più cresce il peso del nazionalismo economico, più le aziende tech rischiano di chiudersi a riccio, perdendo terreno nei mercati globali proprio mentre Pechino si muove con estrema disciplina”.
La Cina, intanto, osserva e pianifica. Mentre negli USA si discute di chi sia più patriottico nel chiudere i confini o nel bannare TikTok, a Hangzhou le “Sei Piccole Draghe” tech costruiscono un nuovo hub di innovazione e filiere integrate verticalmente. Lì, la cooperazione tra Stato e privato è meno schizofrenica: le aziende ricevono linee guida chiare e obiettivi coerenti. Lo Stato non è un freno, ma un facilitatore. L’esatto opposto del caos decisionale americano, in cui ogni cambio di amministrazione ribalta la strategia precedente. E se Elon Musk oggi è considerato un interlocutore privilegiato per Pechino in virtù dei suoi interessi produttivi sul suolo cinese, domani potrebbe diventare il canarino nella miniera dell’instabilità.
“La tech right resta motivata dalla competizione con la Cina. Ma se si rompe l’asse con Musk, si perde una delle poche voci in grado di moderare la corsa alla decoupling totale”. Il problema non è la pressione sulla Cina, che è in parte necessaria, ma la perdita di una visione coerente. Se tutto diventa guerra commerciale, ideologica, tecnologica allora nulla è più negoziabile. E quando tutto è una linea rossa, nessuno può più muoversi.
Il paradosso finale è che proprio l’élite tecnologica, quella che più ha beneficiato della globalizzazione, sta oggi contribuendo a distruggerla, in nome di una presunta purezza nazionale che mal si sposa con il codice binario e le supply chain globali. La narrativa “America First” applicata al cloud computing suona come una barzelletta, ma qualcuno la sta scrivendo sul serio. E intanto, Pechino si sfrega le mani.
Perché mentre a Washington si litiga su chi ha più diritto a parlare di AI, in Cina l’intelligenza artificiale viene integrata nelle strategie industriali come arma sistemica. L’ideologia non è un limite, ma un moltiplicatore. La sfida, insomma, non è tanto tra AI occidentale e AI cinese, ma tra un sistema capace di coordinarsi e uno frammentato dalle proprie contraddizioni.
L’alleanza tra la tech right e la base populista americana non è solo una bolla ideologica: è una minaccia sistemica all’egemonia tecnologica statunitense. E se non si ha il coraggio di dirlo ora, domani sarà troppo tardi. Anche perché, come dice un vecchio proverbio cinese, “quando due tigri lottano, uno resta ferito. Ma chi vince non è detto che sia vivo a lungo”.