Ti sei accorto di quanto suoni quasi comico se lo leggi con un occhio da tecnologo disincantato? “La maggior parte degli investimenti enterprise in AI è bloccata nella GenAI”. Tradotto: miliardi spesi per avere un giocattolo brillante che completa frasi meglio di un assistente stanco. È un paradosso affascinante. Ci riempiamo la bocca di “trasformazione digitale” ma continuiamo a progettare sistemi come se il massimo dell’innovazione fosse un correttore automatico con più RAM. McKinsey ha ragione, ma la vera domanda è se qualcuno ha il coraggio di ammettere che il problema non è tecnico, è culturale.
Traditional AI, la vecchia zia affidabile, non è mai morta. Eseguire workflow predefiniti, richiedere input strutturati, non imparare nulla… sembra noioso, ma quante banche vorrebbero davvero che i loro sistemi di riconciliazione contabile “imparassero da soli”? Rigidità significa controllo, e in certi settori controllo significa sopravvivenza. È per questo che l’AI tradizionale vive ancora, silenziosa e sottovalutata.
GenAI invece è la star capricciosa. Sa generare contenuti, suggerire codice, riassumere testi. È context-aware, certo, ma dipende totalmente dal tocco umano. “Smart, ma dipendente” è una definizione perfetta: un copilota che non ha idea di dove andare se non gli dici dove puntare il muso. È straordinaria per scrivere pitch accattivanti o per produrre bozze di contratti, ma non muoverà mai un dito senza che qualcuno prema un bottone. Il problema? Le aziende continuano a costruire pensando a “copiloti”, non a “operatori”.
Ed è qui che l’Agentic AI cambia le regole del gioco. Impara, ragiona, agisce in autonomia. Non chiede permesso per eseguire un workflow multi-step, prende decisioni con supervisione minima e, soprattutto, chiude il loop. Da un punto di vista sistemico è un salto quantico: non più interfacce basate su prompt, ma sistemi basati su outcome. Non più l’illusione di “usare l’AI”, ma la realtà di orchestrare processi complessi senza intervento umano. È la differenza tra avere un copilota ansioso che ti chiede cosa fare a ogni curva e un operatore che ti consegna il report a fine giornata, già con i problemi risolti.
Le implicazioni? Brutali. Meno tocco umano, meno dipendenza da UX o dashboard piene di grafici che nessuno guarda davvero, più scala operativa. E, ironicamente, meno “showcase” da presentare ai board. Perché l’Agentic AI non è sexy da vedere, è noiosamente efficace. E questo spaventa. Le aziende amano mostrare dashboard colorate, non processi che semplicemente funzionano da soli.
La verità è che molti “AI feature” che oggi vengono spacciati come innovativi non sono altro che “glorified autocomplete”. Domanda scomoda per i builder: quante delle vostre feature reggerebbero se togliessimo l’umano dal loop? E per chi compra AI: per quanto tempo continuerete a pagare persone per “premere pulsanti” quando un sistema potrebbe farlo meglio, più velocemente e senza lamentarsi?