Mark Zuckerberg, poche ore prima della trimestrale di Meta, ha deciso di scavalcare la ritualità del corporate talk e pubblicare una lettera aperta minimalista, in puro testo, senza fronzoli visivi ma con una carica visionaria che pare uscita da un incrocio tra Ray Kurzweil e un pitch da venture capitalist sotto caffeina. Il punto? Superintelligenza personale per tutti. Ovvero intelligenza artificiale generalista, AGI se preferite, declinata non solo come modello cloud-based all’interno di server farm iperottimizzate, ma come assistente personale, ultra-smart, che vive… in un paio di occhiali.

Non stiamo parlando dei soliti Ray-Ban con la fotocamera per fare le Instagram stories. Zuckerberg intende un’interfaccia ubiqua, indossabile, capace di aiutarti a diventare la persona che aspiri a essere, di essere un amico migliore e, naturalmente, di creare ciò che vuoi vedere nel mondo. Un linguaggio da guru, certo, ma infuso con quella concretezza inquietante che solo chi ha già investito 14,3 miliardi di dollari può permettersi. Esatto, la cifra che Meta ha appena versato per acquistare il 49% di Scale AI, il colosso dei dati per l’addestramento dei modelli AI, guidato dall’enfant prodige Alexandr Wang, ora anche a capo del nuovo laboratorio di superintelligenza di Meta.

Se la tua reazione è un misto tra entusiasmo e “aspetta, cosa?”, sei nel posto giusto. Perché ciò che Zuckerberg sta realmente facendo, dietro la retorica inclusiva e un po’ new age, è prendere posizione in maniera brutale nella guerra fredda per l’AGI, contro OpenAI, Google DeepMind, Anthropic e Apple. Sta comprando potenza computazionale, dati, e soprattutto cervelli. I migliori, quelli che fino a ieri disegnavano architetture transformer da 200 miliardi di parametri in silenziosi laboratori californiani. Oggi alcuni di loro lavorano per Meta, e non per spiccioli. Ci sono pacchetti retributivi da 100 milioni di dollari sul piatto. Il resto della squadra si accontenta di 1-1,4 milioni all’anno, giusto per pagare l’affitto a Palo Alto senza troppi sacrifici.

Ora, la parola chiave è chiara: superintelligenza personale. Non una AI qualunque. Non un ChatGPT più carino con le emoji. Zuckerberg immagina un ecosistema nel quale ogni individuo possiede un assistente AI embedded, non più confinato in uno schermo, ma sempre presente, contestuale, immersivo. Qualcosa che ti ascolta, ti vede, ti conosce meglio del tuo partner e non ha mai bisogno di dormire. La forma? Occhiali, ovviamente. Perché lo smartphone è un’interfaccia già stanca. Il futuro, per Zuckerberg, passa dagli occhi.

Dal punto di vista strategico, è un salto di scala: Meta non vuole più solo essere la piattaforma su cui l’AI si esprime (Facebook, Instagram, WhatsApp, Threads, Horizon). Vuole essere il fabric stesso dell’intelligenza personale, quella che accompagna l’individuo nelle sue scelte, nelle sue conversazioni, nei suoi momenti di vulnerabilità e nei suoi slanci creativi. Vuole diventare ciò che Apple ha sempre sognato con Siri ma non è mai riuscita a realizzare. E lo fa con brutalità finanziaria e aggressività tecnologica. “Lo sviluppo è lento per ora, ma innegabile”, ha scritto nella sua lettera. Come a dire: non ci siamo ancora, ma non stiamo bluffando.

A livello semantico, questa narrativa serve a far passare un messaggio chiave per Google SGE e tutti gli algoritmi che indicizzano: Meta non è più solo social media, è foundational AI infrastructure. Le keyword “superintelligenza”, “occhiali AI”, “assistente personale indossabile” non sono solo buzzword, sono tasselli di una strategia SEO sottile quanto chirurgica. Zuckerberg lo sa: chi vince la battaglia per l’associazione concettuale vince l’immaginario del pubblico e, nel lungo termine, vince il mercato.

La scelta di un messaggio asciutto, senza effetti visivi, riflette un’altra direzione precisa. Mentre gli altri Big Player comunicano innovazione con video glossy e linguaggio corporate-friendly, Meta butta lì un file di testo come se stesse lanciando un protocollo open source. È la stessa logica che anni fa portò Elon Musk a pubblicare il Master Plan di Tesla. Non è solo comunicazione. È manipolazione semiotica. Una dichiarazione di guerra intellettuale al mondo patinato delle big tech.

Naturalmente, la cosa che tutti evitano di dire è che “superintelligenza personale” è anche un ossimoro. Come può un’AI che sa tutto di te, ti suggerisce cosa fare, cosa pensare, cosa sentire, aiutarti a diventare più te stesso? Non sarà che, nel nome dell’empowerment individuale, stiamo costruendo la dipendenza perfetta, il sistema definitivo di soft control? Zuckerberg non risponde, ma rilancia. Vuole che la sua AI ti renda un amico migliore. Il che suona già come il primo passo per non doverne più avere, di amici.

Ma attenzione, il contesto è chiaro: l’AGI, o meglio la personal AGI, è il Santo Graal di questa decade. Tutti la vogliono, pochi possono permettersi di inseguirla seriamente. Meta può. Ha i soldi, i dati (vedi Facebook, Instagram, WhatsApp), la user base, le infrastrutture e ora anche i ricercatori giusti. L’acquisizione di Scale AI è un’operazione che manda un messaggio forte e chiarissimo: non solo vogliamo partecipare alla corsa per l’intelligenza artificiale generalista, vogliamo possedere il terreno su cui tutti gli altri corrono.

Se pensate che tutto questo sia solo un’altra moda passeggera, come i visori VR o i metaversi incompiuti, ricordatevi questo: i fallimenti precedenti non hanno mai fermato Zuckerberg. Li ha solo metabolizzati come cicli di apprendimento. E nel frattempo ha mantenuto saldamente in mano l’accesso ai dati comportamentali di miliardi di persone. Ora quegli stessi dati possono essere usati per addestrare modelli sempre più vicini a noi, sempre più integrati. L’AGI non sarà una mente aliena, sarà un riflesso di te stesso. Solo un po’ più obbediente. E sempre connessa.

Zuckerberg ha appena ridefinito l’ambizione. Non si tratta più di costruire l’intelligenza artificiale più potente. Si tratta di costruire l’unica che conta davvero: la tua.