Hai letto bene. Il Consiglio di Stato cinese ha fissato un obiettivo che suona come un ultimatum: entro il 2027 il 70 per cento della popolazione, cioè quasi un miliardo di persone, dovrà utilizzare terminali smart di nuova generazione, agenti intelligenti e applicazioni basate su intelligenza artificiale. Nel gergo di Pechino questo significa penetrazione AI in Cina, un concetto che non lascia spazio a esitazioni. O sei parte della trasformazione o resti escluso.
Ma l’ambizione non si ferma qui. Entro il 2030 la quota di adozione dovrebbe salire al 90 per cento, con l’obiettivo dichiarato di costruire entro il 2035 una società intelligente e un’economia pienamente basata su sistemi AI. Si tratta di una visione che non contempla gradualismi. È una tabella di marcia scandita da date, numeri e obblighi. Nessun Occidente, né Stati Uniti né Unione Europea, si è mai spinto così oltre. Washington ha leggi sull’AI ma nessun vincolo di penetrazione. Bruxelles scrive regolamenti sui rischi. Pechino invece impone percentuali di adozione.
Il paragone con la diffusione degli smartphone è volutamente provocatorio. La Cina raggiunse il 70 per cento di penetrazione mobile nel 2018, circa otto anni dopo l’arrivo dell’iPhone. Per l’AI, la stessa soglia va raggiunta in meno della metà del tempo. Tre anni scarsi per cambiare non solo i consumi, ma la cultura digitale quotidiana. È una sfida logistica, infrastrutturale e psicologica senza precedenti.
Dietro questa accelerazione si muovono aziende che hanno già dimostrato di saper plasmare il mercato. DeepSeek, startup ormai iconica, alimenta sistemi di sorveglianza a Shenzhen, fornisce comandi vocali alle automobili Geely, entra nei protocolli diagnostici di decine di ospedali. Un distretto amministrativo ha ridotto del 90 per cento i tempi delle pratiche grazie alla sua piattaforma. Questo non è storytelling, è trasformazione operativa reale.
Il piano non si limita al software. Pechino sta spingendo con forza anche sull’hardware. L’obiettivo è raggiungere il 70 per cento di autosufficienza nei chip AI entro il 2027, costruendo un’industria nazionale capace di reggere all’impatto delle restrizioni americane. Si parla di progetti giganteschi come “Spare Tire”, un ecosistema che coinvolge migliaia di aziende, guidato da Huawei e sostenuto da sussidi pubblici miliardari. La parola d’ordine è resilienza, non concorrenza di facciata.
C’è poi un altro livello, più sottile ma altrettanto strategico: la diplomazia tecnologica. La Cina si propone come fornitore di intelligenza artificiale al Sud globale, con tecnologie open source e risorse di calcolo condivise. Una mossa che mira a costruire dipendenze, legami e soprattutto influenza geopolitica. Quando Pechino parla di trattare l’AI come bene pubblico globale, non è solo retorica. È l’anticamera di una nuova forma di soft power.
Naturalmente i rischi vengono riconosciuti, almeno sulla carta. Opacità dei modelli, allucinazioni algoritmiche, discriminazioni sistemiche. Il Consiglio di Stato parla esplicitamente della necessità di un quadro normativo che regolamenti persone naturali, persone digitali e robot intelligenti. In altre parole, si prepara già il terreno per dare status legale agli agenti artificiali. È una provocazione normativa che in Occidente susciterebbe scontri infiniti tra giuristi, filosofi e politici. In Cina appare come un capitolo già scritto.
Non bisogna dimenticare che tutto questo si inserisce in una continuità storica. Già nel 2017 il Paese lanciò il piano di sviluppo per la nuova generazione di intelligenza artificiale, con l’obiettivo di diventare leader globale entro il 2030. Quello fu il momento in cui vennero gettate le fondamenta di un ecosistema fatto di investimenti colossali, ricerca scientifica indirizzata e governance politica strettamente centralizzata. Il resto, oggi, è solo la naturale prosecuzione di una traiettoria che non conosce pause.
Ciò che impressiona non sono tanto i target, ma il linguaggio. Si parla di “salto rivoluzionario delle forze produttive”, di “ricostruzione dei modelli di vita quotidiana”, di “interconnessione intelligente di tutto”. Slogan che sembrano usciti da una brochure di marketing, ma che diventano immediatamente legge per regioni, province e aziende. Le direttive non sono consigli, sono ordini.
Questa è la differenza sostanziale con l’approccio occidentale. L’Europa discute di rischi, l’America di competitività, la Cina di penetrazione obbligatoria. È un gioco di potere che non ammette ambiguità. Per la prima volta, la tecnologia diventa davvero politica industriale, politica sociale e politica estera fuse in un unico programma.
Se scorri ancora un attimo, ti accorgi che la posta in gioco non è capire se l’intelligenza artificiale cambierà il mondo. La vera questione è chi scriverà le regole, chi ne controllerà i chip, chi stabilirà chi è dentro e chi resta fuori. In Cina la risposta è già arrivata: tutti dovranno essere dentro, e subito. In Occidente continuiamo a discutere se sia sicuro aprire la porta.