C’è qualcosa di rivelatore nell’ultimo vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO), il più grande di sempre, appena conclusosi a Tientsin: Xi Jinping ha parlato di intelligenza artificiale non come arma di competizione, ma come strumento di cooperazione. Un messaggio che, a prima vista, sembra quasi in controtendenza rispetto alla narrativa dominante fatta di gare tecnologiche, supremacy e paure esistenziali. Eppure, è proprio qui che si coglie la strategia di Pechino: usare l’AI non solo come tecnologia, ma come linguaggio politico.
Dalla competizione alla seduzione: come Pechino usa l’intelligenza artificiale per riscrivere il potere globale
Xi ha invitato i Paesi SCO a rifiutare la “mentalità da Guerra Fredda”. Tradotto: abbandonare lo schema dell’Occidente come unico punto di riferimento e immaginare un multipolarismo in cui la Cina gioca il ruolo di guida. Non più o, quantomeno, non solo come rivale, ma come mediatore e investitore.
Il messaggio è corroborato da numeri e gesti concreti: 84 miliardi di dollari di investimenti nei Paesi SCO, 10.000 borse di studio per studenti stranieri con il programma “Luban”, una trama di legami economici e culturali che serve a legittimare la presenza cinese come forza benevola e non predatoria.
La triangolazione Xi–Modi–Putin
Uno degli aspetti più interessanti del vertice è stata la scena (rara) del dialogo a tre tra Xi, Modi e Putin. Non si tratta solo di simbolismo diplomatico: è il segnale che la Cina vuole riposizionarsi anche rispetto all’India, tradizionalmente diffidente verso il Paese del Dragone. Per Pechino significherebbe mercati più accessibili, meno tensioni sul confine himalayano e anche lavorare ad un distacco di Nuova Delhi dai richiami occidentali (tanto più dopo il raddoppio dei dazi Usa imposto da Trump).
Da “rivale” a “pacificatore”?
Più in generale, quello che possiamo osservare, è che la Cina sta cambiando narrativa: da antagonista dell’Occidente a potenziale arbitro in crisi globali come l’Ucraina o il Medio Oriente. Un tentativo evidente di costruirsi una legittimità morale, oltre a quella economica e tecnologica.
Ma è proprio qui che si apre il vero interrogativo: si tratta di un cambio autentico o di un’abile operazione di immagine? L’AI, presentata come frontiera cooperativa, rischia di diventare il cavallo di Troia di un progetto di influenza più profondo, capace di penetrare economie, mercati educativi e sistemi politici.
La sfida agli Stati Uniti
Per gli Stati Uniti, questa strategia dovrebbe essere un campanello d’allarme. Washington continua a inquadrare l’AI come arena di competizione strategica, mentre Pechino la racconta come piattaforma di dialogo. La differenza non è solo semantica: può determinare quale modello sarà più attraente per i Paesi emergenti, sempre più insofferenti alle logiche di blocco e sempre più insofferenti verso un Occidente percepito come centro di potere che ha modellato le strutture politiche ed economiche globali a proprio vantaggio.
Una partita narrativa prima che tecnologica
Quello che emerge è che Xi sta usando l’AI come strumento di soft power e di riscrittura narrativa. Un approccio che viene dalla consapevolezza che non basta essere “solo” leader tecnologici: serve anche lo storytelling in grado di legittimare legittima quella leadership. La Cina sembra averlo capito molto bene. Gli Usa non proprio. Quel che rimane da capire è se gli altri Paesi si lasceranno sedurre da questa cornice di cooperazione o se riusciranno a scorgere, dietro i sorrisi e le aperture di circostanza, l’ombra di una competizione ancora più insidiosa.