Trump ha deciso di trasformare un lungo weekend di Labour Day in un lunedì da tribunale, annunciando che la sua amministrazione porterà con urgenza al giudizio della Corte Suprema la questione delle tariffe doganali che i giudici federali hanno appena demolito come abuso di potere esecutivo. Non è un dettaglio tecnico, è un terremoto da centinaia di miliardi di dollari, anzi, secondo le sue stesse parole, da “trillions and trillions”, che rischiano di trasformarsi in assegni di rimborso verso i partner commerciali che, a suo dire, “ci hanno derubato negli ultimi 35 anni”. In un Paese in cui il gettito fiscale dai dazi ha già fruttato 142 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2025, la sua narrativa è semplice: senza tariffe, l’America diventa un Paese del Terzo Mondo. Non serve un PhD in economia per capire che questa è più retorica che macroeconomia, ma il punto politico è chiarissimo.

Chiunque conosca la dinamica della Corte Suprema sa che l’urgenza invocata da Trump è un tentativo di congelare l’effetto devastante della sentenza della Court of Appeals, che ha votato 7 a 4 per bocciare l’uso dell’International Emergency Economic Powers Act come base legale per imporre tariffe generalizzate. Tradotto: la Casa Bianca non può trattare il commercio globale come una emergenza permanente, perché la Costituzione affida al Congresso il potere di alzare o abbassare dazi. Eppure Trump non cerca tanto il verdetto finale, quanto il vantaggio politico immediato. Ogni giorno in più con i dazi in vigore è un messaggio diretto all’elettorato: “sto proteggendo l’industria americana e costringendo la Cina a pagare”. È marketing politico spacciato per politica commerciale.

Il paradosso è che, mentre dipinge la Cina come il nemico che drenava ricchezza dagli Stati Uniti, Trump liquida con noncuranza la parata militare di Pechino, che vedrà sfilare accanto a Xi Jinping due figure non proprio rassicuranti, Vladimir Putin e Kim Jong Un. “Non sono preoccupato, abbiamo l’esercito più forte del mondo” ha detto, con la stessa leggerezza con cui un CEO negherebbe i problemi di liquidità pochi giorni prima del crollo del titolo in borsa. L’ironia è che i suoi stessi uomini, dal Segretario alla Difesa Pete Hegseth al Segretario di Stato Marco Rubio, continuano a descrivere la Cina come la vera potenza rivale, non come un attore che “ha più bisogno di noi che noi di loro”. Il disallineamento interno è lampante.

Non è solo geopolitica, è anche psicologia di potere. Trump gioca con il concetto di “truce” commerciale, prorogando di 90 giorni l’ultima tregua tariffaria con Pechino. La parola stessa, tregua, implica che la guerra sia la condizione naturale. È il linguaggio di chi non considera mai l’equilibrio stabile, ma solo una pausa prima del prossimo scontro. La sua strategia è semplice e brutale: imporre tariffe punitive, giustificarle con emergenze come il traffico di fentanyl o la migrazione, usarle come leva per negoziare e allo stesso tempo trasformarle in show elettorale.

Quando dichiara che senza dazi le aziende straniere smetterebbero di investire negli Stati Uniti, in realtà rivela il nucleo della sua visione economica: un Paese che attrae capitali solo se minaccia il resto del mondo con barriere doganali. Non è propriamente l’America di Adam Smith, ma più quella di un monopolista che gioca sporco e rivendica di essere l’unico capace di farlo. L’ossessione per la parola “reciprocal” tradisce il suo schema mentale. Non parla di libero scambio, ma di vendetta proporzionale.

Le voci sulla salute, liquidate come “fake news”, sono il contorno tragicomico di questa sceneggiatura. Per un leader che ha fatto del corpo fisico un brand, il sospetto di debolezza è veleno puro. E allora si esce in conferenza a dire di essere “molto attivo durante il weekend”, un po’ come quei CEO che spiegano agli investitori di aver “passato la domenica in ufficio a rivedere i conti”. Il tono è identico, il messaggio è chiaro: non credete a nulla che non venga dalla mia bocca.

Il punto cruciale resta la Corte Suprema. Se i giudici dovessero confermare la decisione di secondo grado, non si parlerebbe solo di restituire miliardi di dollari ai partner commerciali, ma di demolire la più grande arma economica che Trump ha brandito dal 2018 in poi. Non è solo un dettaglio contabile. È la legittimità stessa di una politica economica fondata sulla dichiarazione perenne di emergenza. In caso di sconfitta, l’effetto sarebbe dirompente, perché smonterebbe la narrativa dell’uomo forte che può piegare l’ordine economico internazionale con un decreto presidenziale.

La realtà è che, al di là della propaganda, il gettito dei dazi è una tassa interna, pagata dai consumatori americani. Ma questo non è il tipo di dettaglio che Trump ha interesse a sottolineare. Per lui la parola chiave resta “tariffs”, che nel suo vocabolario significano potere, leva, punizione e protezione insieme. E nel teatro politico americano del 2025, con un Congresso diviso e un’opinione pubblica sempre più polarizzata, il linguaggio della forza vale molto più della grammatica del diritto costituzionale