Il mercato ama i simboli più delle sentenze. Quando Alphabet è balzata del 9% in un mercoledì qualunque, Wall Street ha festeggiato come se Google avesse appena inventato di nuovo il motore di ricerca. In realtà la notizia era molto meno sexy: niente scorpori obbligati, nessuna amputazione chirurgica di Chrome o Android. La grande G usciva dalla trincea antitrust con qualche graffio, ma senza mutilazioni. Eppure, come sempre accade quando il diritto incontra l’economia digitale, il diavolo non è nei dettagli ma nelle note a margine.
Joel Thayer, avvocato antitrust con pedigree politico, ha buttato sul tavolo una bomba dialettica: definire l’ordine del giudice Amit Mehta un “cambiamento epocale”. Non è l’ennesima iperbole da talk show, ma la traduzione giuridica di un concetto destabilizzante per le Big Tech: i dati non sono più il forziere privato di chi li accumula, ma potrebbero diventare infrastruttura da condividere. È come se all’improvviso ti dicessero che la tua rete elettrica non è tua, ma appartiene anche al vicino che vuole aprire una fabbrica. Un dettaglio che altera l’intero equilibrio competitivo.
Chi sorride davvero in questa storia? Apparentemente Apple, Meta e Amazon, che hanno visto respinta l’idea di rimedi drastici come lo smembramento forzato. La giurisprudenza americana non ama i bisturi, preferisce le medicine omeopatiche. “La cessione è un rimedio imposto con grande cautela” ha scritto il giudice, ricordando che lo spettro dello smembramento, tanto caro ai politici in cerca di consenso facile, ha la stessa probabilità di realizzarsi di un unicorno con sede legale nel Delaware.
Ma la vittoria di Google non è una vittoria senza costi. La narrativa che obbliga a “condividere” la propria infrastruttura apre scenari dirompenti. Apple potrebbe essere costretta a trasformare iMessage in un giardino aperto invece che blindato, mentre Meta potrebbe dover esporre porzioni del suo oro nero – i dati sociali – a concorrenti più piccoli. Non è esattamente quello che un Mark Zuckerberg vuole leggere al mattino davanti al caffè. In Silicon Valley non si teme la concorrenza, si teme la perdita del vantaggio informazionale, l’unico vero asset che conta nell’economia digitale.
Wall Street, però, non legge le sentenze, legge i ticker. Per gli investitori conta che Alphabet non abbia dovuto smembrare Android, perché questo avrebbe polverizzato le catene del valore costruite negli ultimi due decenni. In altre parole, Google resta intera e quindi redditizia. La prospettiva di dover concedere accesso a dati o API è vista come un fastidio regolatorio, non come un rischio esistenziale. È l’illusione ottica del breve termine: se non vendi pezzi di azienda, la capitalizzazione è salva, almeno fino alla prossima udienza.
Il paradosso è che la decisione di Mehta rafforza due narrazioni contrapposte. Da un lato rassicura i giganti: lo Stato non spezzerà i loro imperi digitali. Dall’altro legittima l’idea che i dati, il carburante del capitalismo di piattaforma, possano essere soggetti a un regime di accesso condiviso. È un colpo di scalpello sottile, ma potenzialmente più rivoluzionario di qualsiasi scorporo. Perché se obblighi Apple ad aprire iMessage o Meta a rendere interoperabili i suoi social, stai in realtà ridisegnando l’architettura del potere digitale.
Il consumatore? In teoria dovrebbe beneficiarne, con più scelta e meno lock-in. In pratica, se guardiamo alla storia recente delle telecomunicazioni e delle utilities, la condivisione forzata dell’infrastruttura raramente produce miracoli competitivi. Ma poco importa: basta l’idea che le piattaforme non possano più blindare i loro recinti per spaventare i consigli di amministrazione e ingolosire gli avvocati.
L’aspetto più ironico è che questa “apertura forzata” potrebbe fare più male a Meta che a Google. Il search engine può concedere l’accesso a dataset limitati senza compromettere del tutto il suo modello. Ma se costringi Meta a condividere i grafi sociali, stai essenzialmente abbattendo la sua unica muraglia cinese. È come obbligare la Coca-Cola a depositare la ricetta segreta sul sito della FDA.
E Amazon? Per ora osserva in silenzio, perché la sua vulnerabilità è più complessa. Non vive di dati di ricerca o grafi sociali, ma di logistica, e un eventuale obbligo di apertura significherebbe permettere ad altri di sfruttare la sua rete di distribuzione o i dati sui comportamenti di acquisto. Non è un caso se Jeff Bezos ha sempre visto l’antitrust come una minaccia più sottile del fisco.
Il mercato, ovviamente, continuerà a oscillare tra entusiasmi e paure. Ma il messaggio subliminale di questa sentenza è chiaro: il vero terreno di battaglia non è più la proprietà dei prodotti digitali, ma l’accessibilità dei dati e delle infrastrutture. Se questo paradigma si consolida, il futuro delle Big Tech sarà meno simile a un impero privato e più a un servizio pubblico regolato. E per aziende nate con il mito del garage e della libertà assoluta, è il peggior incubo possibile.