Immagina di essere seduto al Bar dei Daini, a Roma, davanti a un caffè che sa di tostatura forte e retrogusto politico, e di ascoltare la notizia che la Cina ha deciso di concedere agli Stati Uniti la licenza dell’algoritmo di ByteDance. Non un dettaglio, ma l’anima stessa di TikTok, quell’oggetto misterioso che decide se vedrai un gattino che cade dal divano o un influencer ventenne che vende la sua anima al miglior offerente. Si tratta di molto più che un accordo commerciale USA Cina: è un gesto simbolico che mette sul tavolo la vera valuta del nostro tempo, il controllo dei dati e dei comportamenti digitali. In altre parole, la moneta più solida non è il dollaro né lo yuan, ma l’algoritmo.

Quando il vicedirettore della Cyberspace Administration of China, Wang Jingtao, ha annunciato che Pechino esaminerà e approverà la concessione in licenza della proprietà intellettuale, non ha parlato solo di un via libera burocratico. Ha toccato il cuore della questione geopolitica digitale: la Cina è pronta a vendere, ma alle sue condizioni. E gli Stati Uniti, dopo mesi di ricatti legali, minacce di ban e ultimatum continuamente prorogati da Donald Trump, hanno finalmente ottenuto ciò che volevano, o almeno la parvenza di un accordo. Non è un caso che la dichiarazione sia arrivata durante negoziati commerciali in Spagna: il palcoscenico è sempre europeo quando i giganti si azzuffano, quasi fosse un’arena neutrale per due imperi che non vogliono sporcarsi le mani sul proprio terreno.

La questione non è mai stata davvero se TikTok potesse restare o meno negli Stati Uniti. La vera partita è sempre stata chi comanda l’algoritmo ByteDance, chi decide quali contenuti far emergere e quali sotterrare sotto una coltre di irrilevanza. Ogni social network ha la sua droga, ma TikTok ha perfezionato la distribuzione al punto da creare dipendenza più velocemente della nicotina. Non sorprende quindi che Washington abbia trattato questo algoritmo come una tecnologia militare, come se fosse un F-35 digitale. E la Cina, dal canto suo, sa che cedere non significa perdere, ma monetizzare. In fondo, vendere licenze significa continuare a controllare a distanza il flusso delle emozioni americane.

La narrativa politica di Trump si inserisce in questo gioco con la solita teatralità. Nel suo post su Truth Social ha dichiarato che è stato raggiunto un accordo su una “certa” azienda che i giovani volevano fortemente salvare. Tradotto: ha trovato il modo di trasformare un negoziato geopolitico in un atto di populismo digitale. Come se il destino delle elezioni potesse passare da un video virale di danza o da un meme condiviso a catena. Forse ha ragione: la politica oggi si misura in secondi di attenzione e non in piani quinquennali. E in questo scenario, controllare TikTok equivale a controllare una fetta di consenso.

Il problema è che nessuno sembra voler ammettere il vero rischio. Se la Cina concede in licenza l’algoritmo ByteDance, crea un precedente devastante per il concetto stesso di sovranità tecnologica. Oggi si tratta di TikTok Stati Uniti Cina, domani potrebbe essere un accordo commerciale sul machine learning applicato alla sanità, dopodomani sul controllo delle reti energetiche. Chi governa l’intelligenza artificiale governa i mercati, e chi governa i mercati governa la politica. Non c’è bisogno di citare Machiavelli, basta guardare Nvidia che firma un accordo da 6,3 miliardi con CoreWeave per affittare chip come se fossero appartamenti in centro a Manhattan. La logica è la stessa: controllo delle risorse scarse e monetizzazione della dipendenza altrui.

Mentre sorseggio il mio caffè immagino Google che celebra la sua capitalizzazione da 3 trilioni di dollari e Tesla che si gonfia grazie all’ennesima mossa di Musk. Ma la vera partita non si gioca sulla Borsa, bensì sul terreno scivoloso della percezione pubblica. Google continua a crescere nonostante le accuse di monopolio, Microsoft coccola gli azionisti con dividendi più generosi, Meta prepara occhiali intelligenti che ci faranno vedere un mondo mediato dai pixel. E intanto Robinhood promette ai piccoli investitori accesso a società private, come se dare un assaggio di venture capital fosse il nuovo gioco d’azzardo da bar. Ma il cuore pulsante di questa trasformazione è sempre lo stesso: algoritmi che governano comportamenti.

Il paradosso è che TikTok non è mai stato davvero un problema di sicurezza nazionale, se non nella narrativa costruita ad arte. È stato un pretesto perfetto per alzare la posta nei negoziati tra le due superpotenze. L’algoritmo ByteDance è diventato un ostaggio di lusso, una pedina che nessuno vuole sacrificare ma che tutti vogliono sfruttare. La Cina mostra al mondo che è disposta a cedere, ma non gratuitamente. Gli Stati Uniti proclamano una vittoria di facciata, mentre in realtà si legano mani e piedi a un sistema che non potranno mai controllare del tutto. È la versione digitale del dilemma del prigioniero, solo che qui i prigionieri sono miliardi di utenti e la cella è il feed personalizzato.

In questo scenario, non possiamo ignorare il tempismo. Ogni volta che i mercati tremano, un annuncio su TikTok appare come per magia, alimentando rally azionari, come quello che ha spinto Alphabet a raggiungere i 3.040 miliardi. L’effetto è simile a una dose di adrenalina per investitori sempre più dipendenti dalle news. Il capitalismo finanziario è diventato storytelling algoritmico, e TikTok ne è il narratore più spietato. Non serve più un’agenzia di rating per influenzare i mercati, basta un trend lanciato a Pechino o un annuncio presidenziale mal tradotto in diretta.

Mi piace pensare che tutto questo fosse inevitabile. La globalizzazione tecnologica non poteva che finire in una guerra fredda degli algoritmi, con accordi commerciali USA Cina che funzionano come tregue temporanee. La vera partita, però, si gioca altrove: nell’educazione digitale delle nuove generazioni, nella capacità di capire che ciò che vedono sui loro schermi non è neutrale, ma progettato con precisione chirurgica per catturare attenzione e monetizzare comportamenti. TikTok è solo il sintomo di una malattia molto più vasta: la dipendenza sistemica da sistemi di raccomandazione che decidono il futuro dei mercati, della politica e delle relazioni sociali.

Ogni sorso di questo caffè al Bar dei Daini mi ricorda che l’accordo tra Cina e Stati Uniti non è un compromesso, ma una resa reciproca. Washington accetta di vivere con un algoritmo che non potrà mai possedere del tutto, Pechino accetta di monetizzare il suo gioiello invece di perderlo per un ban disastroso. È un equilibrio instabile, un tango danzato sul filo del rasoio, dove basta un passo falso per far crollare miliardi di dollari di capitalizzazione o per innescare una crisi diplomatica. Ma forse è proprio questa instabilità a rendere il sistema irresistibile. Perché alla fine, come sempre, il vero algoritmo non è quello di TikTok, ma quello della nostra attenzione collettiva.