La scena si ripete come in un déjà vu aziendale. Ogni volta che l’economia tecnologica si contrae o un nuovo paradigma operativo si affaccia all’orizzonte, i giganti del settore rispolverano la stessa liturgia: efficienza, riallocazione, ristrutturazione. Questa volta la parola magica è intelligenza artificiale. E la purga comincia da Seattle. Lunedì Reuters ha rivelato che Amazon si prepara a licenziare circa 30.000 persone, pari a quasi il 10% della forza lavoro impiegatizia. Non è la prima volta. Tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, Andy Jassy aveva già tagliato 27.000 posti. Il messaggio oggi è solo più lucido: l’intelligenza artificiale è il nuovo capo del personale.

Amazon non lo nasconde. Jassy, nella sua nota interna di giugno, ha spiegato che la transizione verso l’uso massiccio dell’AI cambierà radicalmente la composizione della forza lavoro. Tradotto dal linguaggio corporativo, significa che serviranno meno umani in alcuni ruoli e più algoritmi a gestire processi che un tempo richiedevano interazione, decisione o analisi. I nuovi assunti, dice Jassy, saranno impiegati in lavori diversi, più legati allo sviluppo, alla supervisione o all’integrazione dell’AI nei sistemi operativi dell’azienda. È la versione moderna di quella vecchia promessa industriale che ogni rivoluzione tecnologica ha sempre venduto: la distruzione creativa porterà nuovi lavori. Ma il ritmo di creazione è oggi infinitamente più lento di quello di eliminazione.

Nell’ecosistema Amazon, l’efficienza non è solo un obiettivo, è un culto. L’azienda ha costruito il proprio impero su un’ossessione per l’ottimizzazione del margine e la riduzione della frizione operativa. L’intelligenza artificiale è il passo successivo naturale di questa religione produttiva. Il machine learning che decide la logistica, i modelli predittivi che calcolano la domanda, gli algoritmi che assegnano i turni e le priorità nei magazzini: tutto converge verso una realtà in cui il giudizio umano è un fattore di inefficienza da minimizzare. Quello che una volta era un assistente digitale diventa adesso un sovrintendente silenzioso, invisibile, ma onnipresente.

Le parole di Jassy non suonano come una minaccia, ma come una confessione di inevitabilità. Quando scrive che “nei prossimi anni prevediamo che l’uso estensivo dell’intelligenza artificiale ridurrà la nostra forza lavoro aziendale complessiva”, sta semplicemente descrivendo la logica intrinseca del capitalismo algoritmico. Ogni CFO sa che il costo più grande, e più variabile, in un bilancio è la forza lavoro. E ogni CEO sa che gli investitori non premiano l’empatia, ma la leva operativa. Se un modello di AI costa meno di un dipendente e lavora 24 ore al giorno, la decisione è quasi matematica.

L’AI è diventata la nuova catena di montaggio, ma senza catene visibili. Nelle aziende come Amazon, l’automazione non sostituisce più solo mansioni manuali o ripetitive, ma interi segmenti di lavoro cognitivo. Le divisioni marketing, le operations, il customer service, persino le risorse umane vengono progressivamente colonizzate da sistemi generativi e predittivi. Chatbot che rispondono con più precisione di un operatore, modelli che prevedono le dimissioni di un dipendente prima che lui stesso lo sappia, software che scrivono codice o analizzano dati con una velocità disumana. Ogni processo che può essere formalizzato in una regola è già sulla lista delle prossime vittime.

I venture capitalist, sempre pronti a rivestire la crudeltà con un’aura di progresso, lo chiamano “razionalizzazione del lavoro”. Ma dietro la formula levigata si nasconde un concetto più radicale: la disintermediazione dell’uomo nella catena del valore. E Amazon, con la sua infrastruttura cloud, è l’esempio perfetto di questa transizione. Non solo usa l’intelligenza artificiale per tagliare personale, ma la vende come servizio attraverso AWS, creando un circolo virtuoso (per gli azionisti) e vizioso (per il mercato del lavoro). Ogni azienda che adotta i suoi strumenti contribuisce indirettamente a spingere altri lavoratori fuori dal sistema.

La domanda diventa allora più filosofica che economica: cosa faremo quando l’intelligenza artificiale ci avrà rubato il lavoro? Non nel senso catastrofista dei film distopici, ma in quello silenzioso, progressivo, quotidiano. L’AI non ruba i posti dall’oggi al domani. Li svuota dall’interno, li frammenta, li rende meno necessari, meno umani. Prima affianca, poi sostituisce. Prima promette di liberarti dalle incombenze ripetitive, poi ti libera del tutto.

Molti rispondono con ottimismo programmato, parlando di nuove opportunità e professioni emergenti. Il problema è che queste nuove professioni non sono distribuite equamente. La piramide del lavoro cognitivo si sta restringendo. Al vertice restano i progettisti dei sistemi, i data scientist, gli architetti dell’AI. Alla base, chi esegue compiti irrilevanti, sottopagati e facilmente sostituibili. Nel mezzo, il ceto medio del lavoro digitale, quello dei project manager, degli analisti, dei creativi e dei marketer, rischia di dissolversi come la nebbia sotto il sole dell’automazione.

Ironia della sorte, Amazon è allo stesso tempo carnefice e vittima di questa trasformazione. Le sue stesse strutture dipendono sempre più da modelli che riducono il margine d’errore umano, ma anche la sua capacità di adattamento. Un sistema perfetto è un sistema fragile. La storia insegna che ogni volta che la produttività supera troppo la capacità di consumo, il mercato implode. Ma l’intelligenza artificiale non conosce storia, né pietà. Non ha memoria del dolore sociale, solo del dato.

C’è un paradosso sottile in tutto questo. L’AI è presentata come uno strumento per aumentare la produttività, ma la produttività di chi? Se produce più di quanto il mercato possa assorbire, a cosa serve la sua efficienza? L’economia non è un’equazione tecnica, è un equilibrio psicologico. Le persone devono lavorare non solo per produrre, ma per appartenere, per creare senso. Quando la macchina ti sostituisce non solo nel compito ma nel significato, non restano molte alternative.

Eppure, Amazon non si percepisce come un predatore. Si percepisce come un pioniere. Ogni rivoluzione industriale ha avuto le sue vittime, e ogni generazione ha creduto di essere quella che avrebbe domato la tecnologia. Forse questa volta la differenza è che la tecnologia non ha più bisogno di noi per evolversi. L’intelligenza artificiale generativa non si limita a fare, ma a imparare, e lo fa con una velocità che nessuna forza lavoro potrà mai eguagliare.

Forse, tra qualche anno, guarderemo a questa purga di Amazon come all’inizio di una nuova era economica, in cui le aziende non misurano più il loro valore in capitale umano, ma in capitale algoritmico. E magari rideremo di quando ci preoccupavamo dei licenziamenti, perché a quel punto saremo troppo occupati a convivere con un’economia che non ha più bisogno di noi. Oppure no. Forse qualcuno, in qualche piccolo ufficio o in un magazzino automatizzato, avrà il coraggio di chiedersi se tutto questo progresso abbia ancora qualcosa di umano.

In fondo, come disse ironicamente Douglas Adams, la vera intelligenza non è quella artificiale, ma quella che sa riconoscere quando fermarsi. E Amazon, per ora, non sembra intenzionata a farlo.