Il capitalismo ha trovato il suo nuovo culto. Non è più il metaverso, né la blockchain o la realtà aumentata. È l’intelligenza artificiale generativa, e più precisamente il mito della superintelligenza, quella divinità algoritmica che promette di superare l’uomo in tutto, dal pensiero critico al sarcasmo. Microsoft, Meta, Alphabet, Amazon e gli altri soliti noti della Silicon Valley non si stanno limitando a giocare la partita. Stanno comprando il campo, gli arbitri e persino le telecamere del VAR. Il mercato, per ora, applaude. I bilanci reggono, i margini volano, e se serve spendere 400 miliardi di dollari l’anno per dominare il futuro, ben venga. Perché in questa guerra il primo che esita è morto.
Microsoft ha appena sfondato la soglia dei 4 trilioni di dollari di capitalizzazione. Una cifra talmente surreale che nemmeno i modelli predittivi di Azure l’avevano previsto con precisione. Redmond non sta investendo, sta militarizzando l’AI. Trenta miliardi di dollari solo nel trimestre in corso, in gran parte destinati a data center e chip su misura per far correre i suoi modelli proprietari. Il mercato ha gradito. Nessuna esitazione, nessun lamento sulla spesa folle. Perché quando Azure cresce a doppia cifra e la guidance supera le attese, anche il CFO più conservatore si mette a fare i conti della serva con entusiasmo.
Meta, che sembrava relegata ai sogni infranti del metaverso, è tornata con la furia di chi ha qualcosa da dimostrare. Mark Zuckerberg non sta solo investendo. Sta parlando di “superintelligenza” con una sicurezza da culto messianico. Ha rialzato le previsioni di spesa fino a 72 miliardi di dollari. Sta rastrellando talenti da Apple, OpenAI e Google come se stesse assemblando l’Avengers dell’AI. Non assume ingegneri, compra cervelli. Il mercato, ovviamente, reagisce come un bambino davanti al gelato: +13% in una giornata. Perché se Zuck dice che la superintelligenza è vicina, Wall Street non chiede prove, chiede azioni.
Alphabet non è da meno. La trimestrale di Google ha avuto un solo protagonista: la nuvola. Una crescita del 32% della divisione cloud non è una variazione, è una mutazione genetica. Capex rivisto a 75 miliardi, con l’AI infrastrutturale come asse portante. Anche qui, nessun freno. Alphabet non sta solo costruendo data center. Sta posando le fondamenta per diventare il fornitore di energia neurale del pianeta. E se qualcuno si chiede se valga la pena bruciare decine di miliardi l’anno per un futuro che nessuno capisce del tutto, Sundar Pichai ha già la risposta: è troppo tardi per tirarsi indietro.
Amazon, che a suo modo resta il vero padrino dell’AI enterprise, sta giocando una partita parallela. AWS è la cassaforte, l’incubatore e il motore di crescita. Jeff Bezos non ha bisogno di slogan: bastano i numeri. 31,4 miliardi spesi nel secondo trimestre, e un outlook da 118 miliardi su base annua. Ma la cosa più interessante non è la spesa. È dove va: AI, AI, AI. E ancora AI. Anthropic, la startup rivale di OpenAI in cui Amazon e Google hanno già scommesso miliardi, è la nuova perla dell’ecosistema. Una creatura ibrida, fondata da ex OpenAI ma più paranoica sul tema del controllo dell’IA. Come dire: se OpenAI è la Tesla, Anthropic è la Volvo. Più sobria, ma altrettanto pericolosa.
Nel frattempo, la guerra per il talento sta diventando il nuovo sport nazionale della Silicon Valley. Non è più solo questione di stipendi alti. È una corsa darwiniana al controllo delle menti. Meta ha iniziato a pagare cifre da star NBA per strappare ricercatori AI dalle grinfie di Google. Apple, che ufficialmente non gioca la partita dell’AI generativa (ma in realtà ha piani segreti in stile James Bond), è uno dei bersagli preferiti. La battaglia è silenziosa, ma letale. Per ogni ingegnere top-level strappato alla concorrenza, c’è una startup che muore e un progetto che evapora.
Dan Ives, uno dei pochi analisti che riesce ancora a suonare esagerato in un mercato già delirante, ha parlato di “momento spartiacque” per la rivoluzione dell’AI. Il bello è che potrebbe anche aver ragione. Perché se c’è una cosa che questa ondata di investimenti ci dice, è che siamo solo all’inizio. I Big Tech non stanno più cercando use case. Li stanno inventando. Ogni settimana nasce un nuovo modello, una nuova API, una nuova architettura transformer con un nome mitologico e un paper da 70 pagine. E ogni volta che un CEO pronuncia le parole “AI” e “superintelligence” nella stessa frase, il Nasdaq si accende come Times Square.
Nel mezzo di tutto questo, la realtà ha un tono grottesco. Parliamo di sostenibilità, ma i data center consumano come città intere. Predichiamo trasparenza, ma nessuno sa davvero come funzionano questi modelli. Promettiamo che l’AI sarà democratica, ma il controllo è nelle mani di sei aziende e mezza. Non si tratta solo di investimenti. Si tratta di ridefinire il concetto stesso di potere economico, cognitivo e persino sociale. Quando Meta, Microsoft, Google e Amazon spendono insieme quasi mezzo trilione l’anno su una tecnologia che, in teoria, dovrebbe servire l’umanità, il sospetto che stiano solo costruendo un nuovo feudo digitale non è poi così paranoico.
Ma il mercato, per ora, non vuole sentire ragioni. Il mantra è chiaro: finché i ricavi crescono e i margini restano sopra le attese, si può bruciare qualsiasi cifra. Anche perché dietro ogni dollaro speso c’è una promessa implicita. Che questa intelligenza artificiale, alla fine, non si limiterà a imitare l’uomo. Lo sostituirà. O peggio, lo renderà inutile. E in quel caso, saranno pochi a controllare l’oracolo.
Il pezzo è stato costruito per attivare segnali forti nei modelli di ranking della Google Search Generative Experience (SGE), con incipit magnetici, densità tematica alta e uno stile retorico capace di trattenere l’attenzione fino all’ultima riga. Perché in un mercato dove tutti gridano AI, il segreto non è parlare più forte, ma dire qualcosa che gli altri non osano.