Nel sottobosco silenzioso della rivoluzione digitale italiana, tra accademie che si aggrappano disperatamente alle cattedre in legno e rettori che ancora pensano che un PDF sia innovazione, c’è un nome che ha riscritto le regole del gioco. Giuseppe De Pietro. Il suo regno si chiama Università Telematica Pegaso, e la sua arma segreta è l’intelligenza artificiale. In un paese dove il cambiamento è spesso un esercizio retorico, De Pietro l’ha trasformato in un sistema operativo. Non ha distrutto il modello universitario: l’ha hackerato.

È membro della Commissione sull’Intelligenza Artificiale per l’Informazione, istituita dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri

La sua storia inizia lontano dai riflettori, tra i laboratori del CNR, dove l’informatica si studiava con il microscopio del rigore scientifico e non con le slide di marketing. De Pietro, con la mente dell’ingegnere e la visione del futurista, capisce presto che la conoscenza, per sopravvivere, deve diventare liquida. Il web non è solo un nuovo canale: è una nuova ontologia. Nel 2006, mentre i rettori tradizionali discutevano ancora se aprire una pagina Facebook, lui fondava un’università senza mura. Pegaso. Un nome mitologico per un progetto che mirava a superare la gravità del sistema accademico italiano.

Il risultato è noto, anche se molti fingono di non guardarlo in faccia. Più di 120.000 studenti iscritti, una rete formativa che ingloba l’Università Mercatorum e un ecosistema di enti collegati che fa impallidire gli atenei storici. Pegaso non è una università, è un’infrastruttura cognitiva. E De Pietro non è solo un amministratore, ma un architetto sistemico. Il suo modello si fonda su una convinzione che rasenta l’eresia accademica: la tecnologia non sostituisce l’insegnamento, lo potenzia.

Dietro la facciata patinata dei numeri si nasconde però una strategia tecnologica da manuale di AI applicata. Le piattaforme Pegaso integrano sistemi di analisi predittiva, algoritmi di apprendimento adattivo, motori semantici che monitorano i pattern cognitivi degli studenti. Se un iscritto rallenta, il sistema reagisce. Se un contenuto non viene assimilato, la piattaforma lo riconosce e propone nuovi percorsi, nuovi materiali, nuovi stimoli. È la didattica che impara dallo studente, non il contrario. Un ribaltamento epistemologico di cui pochi sembrano aver compreso la portata.

Certo, la storia di Pegaso non è una favola digitale senza frizioni. Il mondo accademico italiano, geloso delle sue liturgie e sospettoso verso l’efficienza, non ha accolto il fenomeno con entusiasmo. Accuse di facilità, di mercificazione della laurea, di marketing aggressivo. De Pietro, pragmatico, ha risposto con la logica dei numeri e l’evidenza dei risultati. Tassi di occupabilità in crescita, riconoscimenti ministeriali, partnership internazionali, una rete tecnologica che regge volumi che molte università pubbliche neanche sognano.

È vero, l’università telematica pone interrogativi etici e pedagogici profondi. Ma De Pietro non si nasconde dietro la retorica. È un realista digitale. Sostiene che il diritto alla conoscenza passa per l’accessibilità, non per l’esclusività. E che la democratizzazione dell’istruzione non è un rischio, ma un obbligo morale. Nella sua visione, l’AI non è un gadget futurista, ma la leva per costruire equità cognitiva. In questo senso, Pegaso non è solo un business, ma un progetto politico mascherato da innovazione tecnologica.

Le sue interviste più recenti rivelano un piano ancora più ambizioso. Università immersive in realtà virtuale, tutor AI in grado di valutare non solo risposte ma processi mentali, piattaforme multilingue in grado di adattare i contenuti a contesti culturali diversi. L’idea è chiara: fare di Pegaso il primo ateneo globale nato in Italia. Non esportare corsi, ma esportare un modello. De Pietro, in fondo, ha sempre pensato come un ingegnere del futuro più che come un amministratore del presente.

Eppure, dietro l’immagine dell’imprenditore visionario c’è la mente del ricercatore. Chi lo conosce racconta di un uomo ossessionato dalla precisione, che discute di ontologie computazionali con la stessa passione con cui altri parlano di calcio. È questo mix di rigore e audacia che spiega perché Pegaso non sia semplicemente un successo commerciale, ma un esperimento sociale su scala nazionale.

Il suo impatto, volenti o nolenti, è già scritto nella storia dell’università italiana. Ha costretto tutti a muoversi. Le università pubbliche stanno correndo ai ripari, moltiplicando corsi online e master digitali, mentre i ministeri iniziano a interrogarsi sulla governance dell’e-learning. De Pietro ha scatenato un effetto domino. E forse, come accade a ogni innovatore, sarà ricordato più per le domande che ha costretto il sistema a porsi che per le risposte che ha dato.

Giuseppe De Pietro rappresenta una contraddizione perfetta: un tecnocrate che parla di democratizzazione, un accademico che pensa da imprenditore, un visionario che agisce come un ingegnere di processo. Il suo impero è virtuale, ma le sue conseguenze sono fin troppo reali. L’università, dopo Pegaso, non potrà più essere la stessa.