Adobeha alzato il sipario sull’ennesima incarnazione del suo modello linguistico generativo, un LLM tagliato su misura per i marketer digitali, in un tentativo palese — e vagamente disperato — di tenere il passo nel carnevale sempre più affollato dell’intelligenza artificiale generativa. L’obiettivo dichiarato è quasi lirico nella sua semplicità: aiutare i professionisti del marketing a monitorare il traffico AI-related e migliorare la search engine optimization. Come dire: “Vogliamo che Google si accorga di noi… ma anche no.”
Eppure, dietro questo annuncio levigato da keynote, si nasconde una dinamica più interessante — e meno rassicurante. Adobe, un colosso storico dell’enterprise software, si sta reinventando come una bottega alchemica dove il contenuto generativo incontra i sacri algoritmi del search intent. Ma c’è qualcosa di intrinsecamente paradossale nel lanciare un modello linguistico con la pretesa di ottimizzare la SEO, in un’epoca in cui Google stesso sta decostruendo la SEO come l’abbiamo sempre conosciuta.