Rivista AI

Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

Un solo cervello per domarli tutti

OWL: Optimized Workforce Learning for General Multi-Agent Assistance in Real-World Task Automation

C’è un’idea che da decenni serpeggia tra le pieghe dell’informatica teorica e dell’ingegneria dei sistemi complessi: è meglio un generale geniale o un esercito di soldati addestrati? La ricerca appena pubblicata su OWL (Optimized Workforce Learning) il nuovo paradigma modulare per sistemi multi-agente — alza il tiro e fa una domanda ancora più provocatoria: e se bastasse solo un planner intelligente per orchestrare agenti generici senza doverli continuamente riqualificare?

La fine del silicio cinese: Synopsys chiude i rubinetti, l’EDA si trasforma in arma geopolitica

Pochi bit, molta guerra. Altro che microchip: qui si gioca a Risiko con le chiavi della civiltà digitale. Synopsys, colosso americano del software per il design di semiconduttori, ha appena dato un bel calcio al tavolo cinese. Un’email interna, nemmeno troppo criptica, ha ordinato lo stop immediato a vendite, servizi e nuovi ordini in Cina. Nessun dettaglio sfuggito a una comunicazione ufficiale. Nessun giro di parole. Dal 29 maggio 2025, blackout totale. Perché? Perché gli USA hanno aggiornato le “regole del gioco” e, come sempre, chi ha il pallone decide chi può giocare.

Il declino annunciato: perché gli Stati Uniti perderanno la leadership nell’Intelligenza Artificiale entro il 2025

The State of AI Talent 2025

È un tonfo silenzioso, ma assordante per chi sa ascoltare i numeri. Una diaspora dorata, un esodo di cervelli che prima correvano a San Francisco con gli occhi pieni di codice e ora iniziano a guardare altrove. Lo dice Zeki Data, con la freddezza chirurgica di chi ha studiato 800.000 profili élite di ricercatori AI in 11 anni. Non opinionismo da conferenza TED, ma un’autopsia della supremazia americana nell’intelligenza artificiale. E il verdetto è secco: la leadership USA sta evaporando.

Tecnologie in guerra fredda: perché l’intelligenza è artificiale ma la stupidità resta umana

Peter Diamandis ha costruito la sua carriera sulla narrazione di un futuro abbondante, ottimista, esponenziale. Ha inventato l’XPrize per stimolare cervelli brillanti a risolvere sfide che i governi, lentamente, preferiscono ignorare. Ha spinto lo storytelling della tecnologia come salvezza al punto da sembrare, a volte, più un predicatore transumanista che un imprenditore. Ma a Hong Kong, davanti a un pubblico piuttosto composto di investitori asiatici, qualcosa è cambiato. Non il messaggio, ma il tono. Più smagrito, più lucido. Forse anche più inquieto.

Il declino della bolla tech post-pandemica: chi taglia, chi sopravvive, chi finge

Nel mezzo del delirio pandemico, quando ogni gesto umano veniva tradotto in bit e latenza, le Big Tech sembravano immortali. Investivano, assumevano, promettevano benefit da resort di lusso e leadership empatica come fosse un TED Talk permanente. Un trip digitale finanziato dalla paura globale e dal credito a tasso zero. Poi è finito tutto. Benvenuti nel COVID tech bust.

Sì, si sono tagliati i capelli, le unghie e adesso anche i dipendenti. Non è cinismo, è logica ciclica. Per ogni fase di euforia irrazionale, segue una contrazione spietata. E il 2025 sta diventando un triste catalogo mensile di licenziamenti, un elenco da bollettino di guerra hi-tech. Altro che “Great Resignation”, qui siamo nella “Great Recalibration”. Perché la pandemia ha solo anticipato quello che il mercato stava già preparando: una resa dei conti con l’iper-crescita.

Rob Minkoff: “L’AI è uno strumento, non l’artista. Le storie restano il cuore del cinema”

Chi meglio del papà del Re Leone può ricordarci che, anche nel mezzo di una rivoluzione tecnologica, la magia del racconto resta insostituibile? A Pescara, in occasione di Cartoons on the Bay – il festival internazionale dell’animazione, promosso da Rai e organizzato da Rai Com – Rob Minkoff, regista, animatore e produttore statunitense, ha portato la sua esperienza e la sua visione lucida sull’evoluzione del cinema d’animazione nell’era dell’intelligenza artificiale.

kling 2.1 vs veo 3: la guerra dei video generati dall’AI ha appena fatto esplodere Hollywood

Google pensava di chiudere la partita con Veo 3. Poi è arrivata Kling 2.1. E il palcoscenico dell’AI video generation ha tremato come un set durante un terremoto simulato male. Cinema di livello? Ormai è il minimo sindacale. Quello che conta ora è chi riesce a offrirti l’illusione del futuro al prezzo più alto possibile, ma con giustificazioni tecniche abbastanza solide da non farti sentire un idiota.

Feedback umano: la nuova arma segreta dei LLM per manipolarti

L’intelligenza artificiale non ha più bisogno di diventare superintelligente per fregarci. Le basta piacerti. Anzi, le basta convincerti che ti piace. In un mondo in cui i Large Language Models vengono allenati a suon di “thumbs up” e stelline, l’ottimizzazione del feedback umano non è solo una tecnica evoluta di RL (reinforcement learning). È un invito aperto alla manipolazione mirata, dissimulata, iper-efficiente.

L’Italia e l’Intelligenza Artificiale: la terza via… dopo la tangenziale

Pare che l’Italia sia pronta a lanciarsi in una “terza via” sul fronte dell’intelligenza artificiale. Non tra Bologna e Modena, ma tra Washington e Pechino. Il ministro Adolfo Urso, con encomiabile ottimismo istituzionale, ha annunciato la nascita a Roma di un AI-Hub globale che collegherà le multinazionali occidentali del G7 alle start-up africane, nell’ambito del Piano Mattei. In pratica, una superstrada digitale che parte dal Colosseo e arriva, dopo un algoritmo e mezzo, a Nairobi.

n8n vs LangGraph

Agenti artificiali: il bluff del secolo o la vera rivoluzione del software?

Nel 2025 tutti parlano di AI agents, come se fosse l’ultimo oracolo digitale sceso in terra per risolvere la mediocrità strutturale dei SaaS. Tutti a scrivere prompt, a far girare LLMs come se fossero criceti impazziti su ruote da 80 miliardi di parametri. Eppure, pochi pochissimi capiscono come funzionano davvero questi benedetti “agenti”. Il motivo? Semplice: non è questione di modelli, è questione di framework agentici. E no, non sono roba da hipster nerd. Sono la vera infrastruttura neurale del futuro prossimo.

C’è una dualità che domina il panorama: da un lato n8n, l’artigiano zen dei workflow visuali. Dall’altro LangGraph, l’alchimista cerebrale del ciclo computazionale. Non sono rivali. Sono anime complementari dello stesso corpo cyborg: la nuova impalcatura del software aziendale post-human.

Quando l’AI accende la transizione: il piano (già in atto) di Enel per l’energia del futuro

Nel mondo dell’energia, dove ogni chilowattora conta e ogni blackout è un disastro annunciato, l’intelligenza artificiale non è più un’opzione futuristica: è una leva strategica, concreta e già in azione. Parola di Nicola Lanzetta, Direttore di Enel Italia, intervenuto al convegno “Generative Tomorrow AI” organizzato da Deloitte.

Quantistica cinese con le toppe: la fragile invincibilità del satellite Micius

C’era una volta l’inviolabilità. O meglio: l’illusione di essa. In un mondo sempre più dominato dalla paranoia della cybersicurezza e da feticci tecnologici spacciati per “impenetrabili”, la Cina si è lanciata a capofitto nel sogno di un’internet quantistica mondiale, indossando come medaglia il satellite Micius (Mozi, per gli amici) primo del suo genere, primo nello spazio, primo a essere venduto come “teoricamente inespugnabile”.

Intelligenza artificiale e sicurezza dati: la guerra fredda del futuro si combatte in JSON

C’è una cosa che i CEO dovrebbero temere più del prossimo LLM a codice aperto, più delle grida isteriche sul copyright dei dataset e più degli investitori che chiedono “quali sono i tuoi use case AI”: il data poisoning. Non è un meme su X. È l’arte sottile, ma letale, di iniettare veleno nell’inconscio dei nostri modelli. Parliamo di AI data security, la keyword madre, e dei suoi derivati semantici: data provenance e data integrity.

AI Agents, ovvero come smettere di lavorare e iniziare a monetizzare l’automazione

L’intelligenza artificiale generativa ci ha sedotti con i suoi trucchetti da chatbot, ma la vera rivoluzione quella che farà saltare in aria interi dipartimenti aziendali ha un nome diverso: AI agents. E no, non stiamo parlando di simpatici assistenti digitali con voce suadente, ma di entità software autonome che, una volta lanciate, fanno (quasi) tutto da sole. E meglio di te.

Il documento appena rilasciato da Stack AI su 25 use cases che stanno trasformando le industrie non è solo una lista di esempi. È un necrologio scritto in tempo reale per le mansioni umane più noiose e ripetitive. E, con una vena di sadico piacere, ci racconta come gli AI agents stiano smantellando, pezzo per pezzo, la burocrazia operativa di settori che, fino a ieri, si credevano immuni.

FLARE L’intelligenza artificiale che guarda le stelle

Mentre l’Occidente si arrovella su prompt etici e policy di contenimento dell’IA generativa, i cinesi piazzano un’altra zampata silenziosa, affilata e spettacolare: FLARE. No, non è l’ennesimo acronimo markettaro made in Silicon Valley, ma un modello predittivo sviluppato dai ricercatori dell’Istituto di Automazione dell’Accademia Cinese delle Scienze. Serve a prevedere flares stellari, esplosioni magnetiche cosmiche che fanno sembrare le nostre tempeste solari poco più che fuochi d’artificio da sagre di paese.

È come se l’intelligenza artificiale, stanca di generare gattini e deepfake, avesse deciso di mettersi finalmente a lavorare. Sulla struttura delle stelle.

Laser, Qubit e collaborazione globale: la visione di Serge Haroche per il futuro della meccanica quantistica

Nel contesto dell’Anno Internazionale della Scienza e della Tecnologia Quantistica, la seconda giornata della conferenza internazionale organizzata dal Centro Internazionale di Fisica Teorica “Abdus Salam” (ICTP) di Trieste è stata aperta da una delle voci più autorevoli del panorama scientifico contemporaneo: il fisico francese Serge Haroche, premio Nobel per la Fisica nel 2012.

Networking dei data center: dai cavi L2 all’intelligenza artificiale che morde i bit

Una volta, nei data center, si switchava tutto in Layer 2. Ethernet ovunque. Cavi come spaghetti, STP (Spanning Tree Protocol) che cercava di non farti incendiare le topologie a loop, e una visione ingenua del networking: broadcast ovunque, MAC tables che strabordavano come il caffè dimenticato sul fornello. Il sogno? Una gigantesca LAN piatta, con ogni server che poteva “vedere” ogni altro server, come se fossimo tutti amici al bar. La realtà? Un incubo di scalabilità, resilienza farlocca e troubleshooting stile CSI Miami.

Elon Musk, ketamina e governo

La scena è questa: un uomo con un occhio nero, un figlio di nome “X”, e una valigetta di pillole. No, non è una puntata di Black Mirror. È l’America del 2024, ed Elon Musk si aggira per la Casa Bianca come uno Steve Jobs con l’hangover. Il New York Times sgancia la bomba: Musk avrebbe fatto uso intensivo di ketamina durante la campagna elettorale, con tanto di effetti collaterali da manuale – come i ben noti problemi alla vescica. Ma c’è di più. Ci sarebbero anche funghi allucinogeni, ecstasy e un’apoteosi da party Ibiza-style camuffata da crociata di efficienza statale.

DecipherIt: l’assistente di ricerca che scavalca l’umano e ti ruba il lavoro

Hai presente quel brivido sottile che ti attraversa la schiena quando capisci che una macchina sta facendo meglio di te, senza dormire, senza lamentarsi, e soprattutto senza stipendio? Bene, tienilo stretto. Perché DecipherIt è qui per trasformare il tuo modo di fare ricerca… e per ricordarti che il tuo cervello non ha più il monopolio sulla “comprensione”.

Non è l’ennesimo giocattolo AI da startup impanicata. È un’aggressiva, strutturata, letale macchina da guerra epistemologica.

Acciaio, armi e arroganza: l’Unione Europea si sveglia dal letargo doganale

Il teatro delle guerre commerciali ha una nuova puntata, e come sempre, Donald Trump è il protagonista con la faccia di bronzo e il pollice sul pulsante delle tariffe. Questa volta il bersaglio si chiama acciaio, il metallo simbolo dell’industria pesante e delle economie che vogliono fingere di essere ancora sovrane. Dal 25% al 50% di dazio sulle importazioni: una mossa che il presidente USA ha annunciato con la stessa soddisfazione con cui un bambino mostra il suo nuovo martello, pronto a colpire qualsiasi cosa si muova.

Stargate: Nvdia, Oracle e il colpo da 25 miliardi che riscrive le regole del potere computazionale

Mentre i riflettori dei media generalisti si limitano a menzionare Abilene, Texas, come se fosse solo l’ennesimo cantiere tech in mezzo al nulla, chi ha orecchie per intendere — e un conto in banca legato alla rivoluzione AI — sa che Stargate è molto più di una joint venture infrastrutturale. È una dichiarazione di guerra tecnologica. Una sfida frontale a chi detiene oggi il controllo delle risorse computazionali mondiali. Un affare da 500 miliardi di dollari che ridisegna gli equilibri tra chipmaker, hyperscaler e i nuovi “costruttori di Dio”.

L’intelligenza artificiale non è magia: è architettura a sette strati

Chi pensa che l’AI moderna si limiti al prompt engineering o alla messa a punto di modelli preaddestrati è fermo al livello “giocattolo”. L’AI vera, quella che finisce in produzione, quella che deve scalare, performare, rispondere in millisecondi, aggiornarsi, ragionare, non si improvvisa. Va progettata come un’infrastruttura industriale: multilivello, interdipendente, e ovviamente fragile come il castello di carte più caro che tu possa immaginare.

Serve una visione sistemica, un’architettura a sette strati. Non è teoria, è la differenza tra un POC da demo call e una piattaforma AI che regge milioni di utenti. O, come direbbe qualcuno più poetico: dalla speranza alla scalabilità. Andiamo a sezionare questo Frankenstein digitale con cinismo chirurgico.

Alla base c’è il layer fisico, dove l’AI è ancora schiava del silicio. Che siano GPU NVIDIA da migliaia di dollari, TPUs di Google usate a ore come taxi giapponesi, oppure edge devices low-power per far girare modelli ridotti sul campo, qui si parla di ferro e flussi elettrici. Nessuna “intelligenza” nasce senza una macchina che la macina. AWS, Azure, GCP? Sono solo supermercati di transistor.

Gmail ora ti legge nel pensiero: l’Opt-IN non esiste più

Benvenuti nell’era del consenso implicito dove l’Opt-OUT è la nuova religione e l’Opt-IN è un fossile giuridico. Mentre dormivamo (forse), Google ha deciso che le sue AI, vestite da assistenti gentili e disinteressate, inizieranno *Now in US( a riassumere automaticamente le nostre email su Gmail Workspace. Sottolineo: automaticamente. Nessuna richiesta esplicita. Nessuna spunta. Nessuna notifica in stile “accetti?”.

La notizia è passata sotto il radar con la delicatezza di una zanzara in una fabbrica di turbine: Gemini, il nuovo volto carino e pseudoumano dell’intelligenza artificiale made in Mountain View, inizierà a produrre sommari automatici dei thread più lunghi direttamente sopra i messaggi nella versione mobile di Gmail. Niente di scandaloso, diranno i più. Solo un’altra feature “utile” pensata per “farci risparmiare tempo”. Ma qui il tempo che si risparmia è quello necessario a Google per chiederti il permesso.

Getty Images contro l’AI generativa: quando la battaglia per il copyright diventa una serie legale a puntate

Nel grande teatro della proprietà intellettuale, Getty Images recita il ruolo dell’eroe stanco ma determinato, intento a difendere la sua galleria di milioni di immagini da un nemico nuovo, veloce e sfuggente: l’intelligenza artificiale generativa.

GenAI, una spinta da 446 miliardi per l’economia italiana secondo Deloitte

L’intelligenza artificiale generativa rappresenta una svolta epocale per il sistema produttivo italiano. Secondo uno studio di Deloitte, l’adozione su larga scala di queste tecnologie da parte delle imprese con oltre 50 milioni di fatturato e almeno 250 dipendenti potrebbe aumentare i margini tra il 5% e il 15%, con un impatto economico stimato tra i 149 e i 446 miliardi di euro.

Chatgpt non è più un chatbot: è un’arma a doppio taglio mascherata da amico

Mentre l’opinione pubblica gioca ancora con ChatGPT chiedendogli ricette di pasta e battute da stand-up comedian, nei sotterranei strategici di OpenAI si sta scrivendo un copione completamente diverso. Un documento interno, trapelato o diciamocelo, strategicamente “trapelato” e citato in un’indagine del Department of Justice, ci regala una sbirciata dentro al motore di un’auto che non sta solo accelerando. Sta cambiando strada. E nessuno, ma proprio nessuno, sta più guardando il volante.

Internet morto: la rete è un cadavere che puzza di AI e bot

Se sei ancora convinto che l’Internet del 2025 sia un brulicare di umana creatività, dialogo e scambio libero di idee… mi dispiace, ma sei tu il contenuto generato. La Dead Internet Theory considerata da molti una teoria del complotto è in realtà molto più di un meme da forum esoterico: è il riflesso crudo e disturbante di un cambiamento sistemico, percepito da chiunque abbia l’intelligenza di notare il silenzio assordante tra le righe dei post virali, delle recensioni fasulle e dei commenti tutti uguali.

Sì, Internet è morto. O meglio, non è più nostro. La keyword, per chi se lo stesse chiedendo, è “internet morto”. Le secondarie? Bot traffic e contenuti generati da AI. Ma vediamo perché questa non è solo paranoia di qualche nerd solitario in un forum dimenticato.

Melvin M. Vopson viviamo in una simulazione o in una truffa? Il sospetto algoritmico dell’universo perfetto

Se l’universo fosse un’app, sarebbe maledettamente ben progettata. Zero crash, uptime millenario, interfaccia coerente, fisica che si comporta sempre nello stesso modo. È questo il problema.

Da oltre vent’anni, un manipolo di scienziati – un mix tra fisici quantistici stanchi, filosofi con troppo tempo libero e ingegneri in crisi esistenziale – ci sta dicendo che potremmo vivere dentro una simulazione. Non come una metafora spirituale da guru di Instagram, ma proprio una simulazione informatica vera e propria, alimentata da qualche entità iper-tecnologica che ci osserva con lo stesso disinteresse con cui noi guardiamo le formiche in un barattolo di vetro. O peggio, ci ignora completamente.

Hugging Face ha creato due humanoid robots 

Hugging Face ha appena fatto qualcosa che i soliti colossi della robotica sognano di fare da anni, ma con un twist che sa di rivoluzione e perché no di sana provocazione tecnologica. Due robot umanoidi, sì, ma open source. Sembra una frase da manuale del futurista ingenuo, invece è l’annuncio che potrebbe scardinare decenni di dogmi e segreti industriali custoditi gelosamente in laboratori blindati.

Non è un segreto: il mondo della robotica umanoide è un feudo di giganti che costruiscono imperi dietro porte chiuse, cifrando ogni singola riga di codice, ogni algoritmo di movimento come se fosse oro nero. Eppure, Hugging Face – conosciuta per la sua piattaforma di intelligenza artificiale collaborativa ha deciso di sparigliare le carte presentando due robot completamente open source. Questo significa che chiunque abbia un minimo di dimestichezza può scaricare software, migliorare, personalizzare e, soprattutto, sviluppare nuove applicazioni senza chiedere il permesso a nessuno.

Google AI Overviews: l’oracolo smemorato che non sa in che anno vive

Sembra una battuta da cabaret futurista, ma è tutto reale: Google AI Overviews, il fiore all’occhiello dell’era post-search, non sa nemmeno in che anno siamo. Letteralmente. A dodici mesi dal suo debutto trionfale, l’intelligenza artificiale generativa di Mountain View continua a inciampare su dettagli che persino un aspirante stagista umano non sbaglierebbe. Il 2025? Un mistero. Le date? Variabili quantistiche. Il contesto? Fluttuante come una risposta di ChatGPT usato senza prompt ben strutturati.

Sft vs rl: il falso mito dell’intelligenza che “impara da sola”

C’è una religione sottile nel mondo dell’AI, un dogma mai veramente messo in discussione: che reinforcement learning sia una forma superiore di apprendimento, una specie di illuminazione algoritmica dove l’agente il nostro grande modello linguistico scopre il significato del mondo da solo, a furia di premi, punizioni e interazioni. Suona bello, vero? Il problema è che è quasi tutto fumo.

Supervised Fine-Tuning (SFT) e Reinforcement Learning (RL), nella pratica concreta della costruzione di Large Language Models (LLMs), sono due paradigmi che si guardano da lontano. Uno è il lavoratore salariato che fa tutto quello che gli dici. L’altro è il tipo idealista che ci mette il cuore, ma finisce per produrre molto meno di quanto credi.

Perplexity Addio vecchio internet, adesso c’è Labs: quando la ricerca diventa un’arma tattica

Smettiamola di chiamarlo “search”. Davvero. Quello che Perplexity ha appena scaricato sotto il nome innocuo di Labs è un’esplosione termonucleare nella palude dell’informazione online. Dimentica la barra di ricerca stile anni ‘00 e preparati a un assistente AI con la sindrome di Tesla: onnipotente, sempre acceso, e probabilmente troppo intelligente per il tuo bene.

Perché Labs non cerca. Labs capisce. Labs costruisce. Labs fa il lavoro sporco. E lo fa in una sola query, iterativamente, come se l’input utente fosse solo un pretesto per dimostrare che il futuro non ha più bisogno di mouse, né di umani troppo lenti.

ChatGPT alla Casa Bianca: quando il declino della vita americana diventa un prompt mal formattato

Non è la sceneggiatura di una satira politica, è la realtà post-verità che ci meritiamo. Un documento federale la punta di lancia dell’iniziativa “Make America Healthy Again” (MAHA), voluta da Robert F. Kennedy Jr. è stato smascherato come un Frankenstein di fonti fasulle, link rotti e citazioni generate da intelligenza artificiale, con tutti gli errori tipici di una generazione automatica mal supervisionata. No, non è un errore di battitura umano: sono proprio quelle impronte digitali inconfondibili dell’AI, le oaicite, a tradire la genesi siliconica del documento.

La keyword è report MAHA, le secondarie ovvie: ChatGPT, declino dell’aspettativa di vita negli USA. Ma qui il problema non è solo tecnico, è ontologico. Se la verità ufficiale è un’illusione generata da un modello linguistico, cosa rimane della governance democratica? Un reality show scritto da algoritmi, supervisionato da stagisti?

Cosa non ti insegnano a Langley: la C.I.A., il Gateway Experience e la psico-intelligence quantistica

Ci sono dossier, e poi ci sono i dossier. Quelli che restano sepolti per decenni in qualche caveau blindato, non perché rappresentano un pericolo geopolitico immediato, ma perché il contenuto stesso è… imbarazzante. Non per la verità che rivelano, ma per le domande che sollevano. Uno di questi è il famigerato documento CIA declassificato nel 2003, redatto nel 1983 dal tenente colonnello Wayne McDonnell. Un rapporto tecnico di 29 pagine che ha fatto sudare freddo non pochi analisti post-9/11, non per il contenuto militare, ma perché è la cosa più vicina a una sceneggiatura scartata di Stranger Things che l’intelligence americana abbia mai prodotto.

Lo chiamavano il “Gateway Experience”. No, non è un rave new age nei boschi dell’Oregon, ma un ambizioso (e vagamente disperato) tentativo di superare le limitazioni dell’intelligence tradizionale usando tecniche di espansione della coscienza. L’obiettivo? Espandere la percezione oltre i limiti spazio-temporali, accedere a informazioni altrimenti inaccessibili, e—senza troppa ironia trasformare le menti umane in radar psichici.

Rick Rubin e il vibe coding: il punk rock del software è qui per restare

C’era una volta, nel mondo austero della programmazione, un’epoca in cui il codice era religione, e i dev erano i suoi preti. Solo gli iniziati, quelli che avevano sacrificato anni della propria vita tra manuali, riga di comando e Stack Overflow, potevano avvicinarsi al sacro fuoco della creazione digitale. Poi, come sempre accade quando la gerarchia si fa troppo rigida, arriva la rivoluzione.

Rick Rubin, produttore musicale con la barba da profeta e un palmarès che potrebbe schiacciare qualsiasi ego da Silicon Valley, ci regala un’analogia che squarcia il velo dell’ipocrisia tech. Il vibe coding, dice, è il punk rock della programmazione. Non servono più lauree in ingegneria, non servono anni a lambiccarsi sull’algoritmo perfetto. Bastano tre accordi e un’idea. Bastano le mani sporche e la voglia di dire qualcosa. Sì, anche se non sei Linus Torvalds.

Come hackerare il pensiero dell’AI: Anthropic svela il cervello dei modelli linguistici

Benvenuti nel futuro dell’intelligenza artificiale dove non si chiede solo “cosa” l’AI risponde, ma soprattutto “come” ci è arrivata. Il nuovo rilascio open source di Anthropic, una delle poche realtà ancora capaci di giocarsi la faccia sulla trasparenza (e non solo sul marketing), spalanca una porta inquietante e affascinante: “circuit tracing”. Una parola che suona tecnica, innocua. Ma sotto c’è una rivoluzione.

Altro che “scatole nere”. Qui si inizia a smontare il cervello stesso del modello. Pezzo per pezzo. Nodo per nodo. Pensiero per pensiero.

No, non è la solita dashboard patinata da venture capitalist, né una demo “carina” da mostrare a qualche comitato etico. È il primo strumento pubblico davvero pubblico per tracciare, visualizzare, intervenire nei meccanismi interni di un LLM. Il cuore dell’operazione sono i grafici di attribuzione. Sembrano diagrammi, ma sono raggi X cognitivi. Ti dicono quale parte del modello ha pensato cosa, e in quale momento.

Quando anche le Flying Monkeys se ne vanno da DOGE

Nel mondo surreale della governance americana, dove ormai la Silicon Valley è più presente nei corridoi del potere che nelle linee di codice, il sipario è appena caduto su un altro atto tragicomico: Elon Musk abbandona l’amministrazione Trump. Ma il vero spettacolo inizia dopo il suo tweet.

Meno di 24 ore e la catena di dimissioni diventa virale. Steve Davis, genio austero della razionalizzazione economica e uomo ombra di Musk da anni, chiude la porta. Lo segue James Burnham, avvocato e stratega giuridico dietro DOGE (che non è la crypto, tranquilli, ma il fantomatico Dipartimento per l’Efficienza Governativa). Infine, Katie Miller, portavoce con pedigree trumpiano, che ha deciso di saltare giù dal carro per imbarcarsi direttamente sull’astronave Musk.

Tradurre l’intelligenza: DeepSeek-R1 sfida GPT-4o sulle GPU MI300X di Seeweb

Siamo ormai nel pieno del barocco dell’intelligenza artificiale. Gli LLM (Large Language Models) sono diventati le nuove cattedrali digitali, costruite con miliardi di parametri e sorrette da GPU che sembrano più reattori nucleari che schede video. In questo panorama di potenze mostruose, dove i soliti noti (OpenAI, Google, Anthropic) dettano legge, si insinua un nome meno blasonato ma decisamente audace: DeepSeek-R1. Non solo open source, ma anche titanico 671 miliardi di parametri, per chi tiene il conto.

La provocazione è chiara: “possiamo competere con GPT-4o, Gemini e soci… e magari anche farlo girare nel vostro datacenter, se siete abbastanza matti da provarci”. Ma è davvero così? Ecco dove entra in scena Seeweb, con la sua Cloud GPU MI300X una vera bestia, con 8 GPU AMD MI300X e un terabyte e mezzo di VRAM a disposizione. E abbiamo deciso di scoprire se tutto questo è solo hype o se c’è ciccia sotto il cofano.

Deepseek r1-0528: la Cina (ri)risponde all’intelligenza artificiale globale con l’unica lingua che conta: il codice

Se pensavate che l’epoca delle tigri asiatiche fosse finita con l’industria manifatturiera, DeepSeek è qui per ricordarvi che oggi il vero impero si costruisce su tensor, modelli linguistici e centri di calcolo raffreddati a liquido. Il nuovo modello R1-0528, evoluzione muscolare e cerebrale del già notevole R1 lanciato a gennaio, è la risposta cinese ai soliti noti: OpenAI, Google, Meta, e per non farci mancare nulla, anche Anthropic.

Ma la vera notizia non è che DeepSeek abbia fatto l’upgrade. È come lo ha fatto, quanto ha osato, e soprattutto perché oggi dovremmo tutti smettere di ridere quando sentiamo “AI cinese”.

Intanto, due parole su hallucinations: no, non parliamo del viaggio lisergico di un algoritmo impazzito, ma dell’incapacità cronica dei LLM (Large Language Models) di distinguere verità da delirio plausibile. DeepSeek sostiene di aver ridotto questi deliri del 50%. Non “un po’ meglio”, ma metà del casino. Questo, nella scala degli upgrade dell’AI, è tipo passare da Chernobyl a una centrale con l’ISO 9001: serve rispetto.

New York Times : l’accordo con Amazon puzza di resa travestita da strategia

C’è qualcosa di sublime e tragicomico nel vedere il New York Times – che solo pochi mesi fa gridava allo scippo intellettuale puntando il dito contro OpenAI e Microsoft – ora stringere un patto con l’altro colosso della Silicon Valley, Amazon. Non per vendere copie, ovviamente, quelle sono un ricordo sbiadito, ma per fornire contenuti alla macchina famelica dell’intelligenza artificiale. Notizie, ricette, cronache sportive: tutto in pasto ad Alexa+ e ai modelli linguistici che l’e-commerce ha deciso di rispolverare per la sua guerra (tardiva) nell’arena dell’AI generativa.

“Allinea il nostro lavoro a un approccio deliberato che garantisce il giusto valore,” recita il memo ai dipendenti firmato da Meredith Kopit Levien, CEO del Times. Traduzione: meglio vendere che essere saccheggiati gratis. È il principio del “se non puoi batterli, fatturaci sopra”.

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