Nel teatrino delle disruption tecnologiche, ogni tanto si alza il sipario su un numero che ruba la scena. E oggi, quel numero si chiama “agente AI”. No, non è un film di spionaggio, ma la vera trama thriller che rischia di far sparire silenziosamente un’intera generazione di app mobili. Mentre tutti guardano ai dazi di Trump come al grande antagonista dell’hi-tech, la vera minaccia sta nei bot che comprano sushi al posto tuo, prenotano voli low-cost e ti leggono l’estratto conto con tono rassicurante.

In questo quadro da fine impero, Amazon lo zar del commercio online — non solo ha capito il pericolo, ma ha anche deciso di diventarlo. Mentre i concorrenti dormono sonni tranquilli e si aggrappano alle metriche vanity delle loro app, Bezos & Co. (o chi per lui ora) introducono in sordina Acquista per me, il primo tentativo di trasformare Alexa in una personal shopper operativa su scala planetaria. L’utente non cerca più, l’utente chiede. E questo, per chi campa di interfacce carine e user journey finti-zen, è un colpo al cuore.

Nel dettaglio, Acquista per me funziona così: quando un prodotto non è disponibile su Amazon, l’agente AI va a cercarlo altrove, lo compra per te e te lo fa avere, senza uscire dall’app. L’esperienza utente diventa non solo fluida ma invisibile. E questo cambia tutto. Le app dei singoli brand, con la loro UX pompata a colpi di premi da Behance, diventano inutili. Se un’AI sa cosa voglio e dove trovarlo, perché dovrei aprire l’app di DoorDash, Sephora o Delta Airlines? Queste piattaforme diventano fornitori. L’AI è il nuovo front-end.

Il cortocircuito è servito: la stessa tecnologia che avrebbe dovuto potenziare le app rischia ora di ucciderle. E paradossalmente, lo fa sotto il cappello dei soliti noti, quelli che si fingono preoccupati nei meeting con OpenAI ma che intanto testano in silenzio soluzioni per sopravvivere all’onda. Amazon, in questo, gioca una partita spietata ma lucida. L’AI agentica è una guerra di logistica, dati e fiducia. E chi possiede l’ultimo miglio (e l’abitudine dell’utente a cliccare su “compra ora”) parte in vantaggio.

Dall’altra parte, DoorDash si lamenta, Uber prende appunti, e Shopify probabilmente sta sperando che questa roba non arrivi ancora nei suoi press release. Ma il futuro è già iniziato. L’idea stessa di “app economy” — quel concetto venduto alle startup e ai fondi venture come nuovo Eldorado — potrebbe essere spazzata via da agenti AI che funzionano come broker, concierge, avvocati difensori e compratori compulsivi.

Nel frattempo, Apple e Google restano in una posizione delicata. L’App Store e Google Play si reggono sulle spalle di milioni di app inutili, tutte dipendenti dal fatto che l’utente abbia voglia di scaricare, tappare, loggarsi, navigare. Ma se l’AI riduce tutto a una chat conversazionale, chi paga più la commissione del 30%?

Il nodo strategico è questo: chi controlla il punto di accesso al bisogno umano, comanda. E oggi, quel punto di accesso si chiama prompt. Il passaggio da “apri l’app e scegli” a “dimmi cosa ti serve” è culturale prima ancora che tecnologico. E una volta che il consumatore capisce che non ha bisogno di dieci app per vivere, la curva discendente sarà verticale.

Come ogni rivoluzione, anche questa arriva con un sorriso e una demo ben confezionata. Ma sotto il cappuccio dell’AI agentica c’è un colpo di stato: le app, i brand e le interfacce sono solo intermediari. E in un mondo in cui l’intermediario può essere disintermediato da una riga di codice generativo, il gioco finisce in fretta.