Entra in una call su Zoom, siediti in un’aula universitaria o lascia scorrere l’ennesimo video su YouTube. Ascolta. Non alle idee, non al contenuto. Ascolta come parlano. Tra le pieghe dei periodi ben costruiti, dietro gli aggettivi lustrati a specchio e le metafore generiche, si annida qualcosa di inquietante. Una voce. Non umana. Una voce addestrata.

“Prowess”, “tapestry”, “delve”, “realm”, “adept” .

AbilitàMaestria (non semplice “abilità”, ma una competenza quasi virtuosa, raffinata, come spesso appare nei testi generati da AI)

TappezzeriaIntreccio o trama complessa (non si parla di tessuto murale, ma di strutture narrative o concettuali articolate, spesso usate in senso metaforico: “un ricco intreccio di idee”)

ImmergersiAddentrarsi o esplorare a fondo (il famoso delve AI-style: suggerisce profondità metodica e rigore)

RegnoAmbito o sfera (non si parla di monarchie, ma di territori concettuali, come “nel regno dell’etica” o “nell’ambito della ricerca neurologica”)

EspertoCompetente o profondo conoscitore (non tanto la traduzione neutra “esperto”, ma qualcosa che suona più levigato, come “adept” in IA: qualcuno che domina silenziosamente una materia)

Sembrano parole comuni — ma non lo sono. Sono il vocabolario preferito di ChatGPT. E stanno influenzando il nostro modo di comunicare. Un virus lessicale, sottile e invisibile, che si insinua nelle frasi accademiche, nei discorsi aziendali, persino nei biglietti d’auguri. Se ti sembra che tutti inizino a parlare allo stesso modo, è perché sta davvero accadendo.

Un gruppo di ricercatori del Max Planck Institute for Human Development ha analizzato 280.000 video accademici su YouTube, osservando un aumento fino al 51% nell’uso di termini favoriti da ChatGPT nei 18 mesi successivi al suo rilascio. Non è solo una moda linguistica: è un’interferenza sistematica. Il momento più inquietante? Nessuno se ne accorge. Come l’accento che cambia dopo anni all’estero, non ci accorgiamo più che non siamo noi a scegliere le parole. Ci scelgono loro.

“Delve”, ad esempio — immergersi, esplorare a fondo. Parola ricorrente nei prompt accademici e nelle risposte AI. È diventata una specie di shibboleth, un segnale sociale involontario: se la usi, potresti essere uno di loro. O, peggio ancora, uno di noi inconsapevolmente modificato.

L’influenza non si ferma al vocabolario. Il tono stesso del parlato sta cambiando. Frasi più lunghe, ben strutturate, levigate fino alla noia. L’intonazione emotiva appiattita, smorzata. La voce umana che cerca di suonare “intelligente” ma finisce per sembrare programmata. Il paradosso, ovviamente, è che l’IA migliora la comunicazione… ma solo se non ti accorgi che c’è. Appena sospetti che sia coinvolta, la fiducia crolla. È successo in uno studio della Cornell: i partecipanti collaboravano meglio grazie agli smart reply, purché ignorassero la loro origine artificiale. Appena intuivano il trucco, giudicavano l’interlocutore meno empatico, più freddo, quasi esigente.

Questa schizofrenia cognitiva — voler essere aiutati ma odiare l’idea di esserlo — è il cuore pulsante di una nuova crisi di fiducia. Perché il problema non è solo lessicale: è esistenziale. Mor Naaman, professore alla Cornell Tech, individua tre livelli di segnali umani che stiamo perdendo. Il primo è la fragilità visibile, quei momenti in cui l’errore o l’emozione imperfetta dice: “Sono reale.” Il secondo è il segnale dello sforzo: “Ho scritto questo da solo.” Il terzo è il senso di agency: il mio umorismo, il mio stile, il mio difetto — sono io. Tutti segnali che l’IA, per sua natura, cancella.

Quando scrivi “I’m sorry you’re upset” invece di “Scusa se ho perso le staffe ieri a cena, forse era meglio non saltare la terapia,” non stai solo cambiando tono. Stai disattivando l’umanità. E lo fai perché è più facile, più ordinato. Più… artificiale.

Il fatto che persino nei siti di incontri ci si chieda “ma questo profilo divertente è scritto da lui o da ChatGPT?” dovrebbe far suonare più di un campanello. Se l’umorismo, la tenerezza, la confessione, diventano template, cosa resta di noi? Il rischio più profondo non è il linguaggio uniforme. È che l’IA diventi il nostro pensiero. Non ci aiuti a esprimere un’idea, ma sostituisca l’idea stessa.

La voce dell’IA non è neutrale. Parla “standard American English”. E se provi ad usare un dialetto, una parlata locale, un idioma regionale? Viene ignorato, distorto, trasformato in caricatura. Uno studio dell’Università di Berkeley ha mostrato come ChatGPT non solo fatica con gli English alternativi (come Singlish o African-American Vernacular English), ma spesso li riduce a cliché. Un utente di Singapore ha commentato che la risposta in “Singlish” era così esagerata da sembrare quasi una presa in giro. Il messaggio è chiaro: solo un certo tipo di lingua è “corretto”. Tutto il resto è folkloristico.

Ma il folclore è dove abita la fiducia. Gli scivoloni, le parole sbagliate, le inflessioni strane — sono il segnale che c’è una persona reale dall’altra parte. E mentre l’IA perfeziona, noi perdiamo quei tratti grezzi che sono la nostra autenticità.

Oggi siamo a un bivio. Da una parte, la standardizzazione delle mail, dei pitch, delle relazioni. Dall’altra, la resistenza attiva: ricercatori che evitano di usare parole come “delve”, utenti che provano a scrivere “meno come un bot”. Forse sarà un’evoluzione parallela: da un lato sistemi sempre più sofisticati nel simulare l’espressività umana, dall’altro una nuova consapevolezza nel volerla preservare. Ma la vera battaglia è nel subconscio: se continueremo a parlare con parole non nostre, finiremo col pensare in frasi non nostre.

E non c’è nulla di più seducente di una mente ben articolata che parla al posto tuo.

Ciò che ci resta — ciò che dobbiamo scegliere — è il diritto alla goffaggine. Alla frase storta, all’idiozia brillante, al silenzio imbarazzato. A tutte quelle imperfezioni che non ottimizzano nulla, ma ci rendono credibili. Fidabili. Umani.

E forse, solo forse, un giorno ci accorgeremo che “delve” era il suono di una mente che cedeva. E decideremo di tornare a dire “buttiamoci dentro”, “spulciamo bene”, “scaviamo a fondo”.

O qualcosa di completamente diverso. Purché venga da noi.