Questo caso è un campanello d’allarme per chi continua a raccontare la favola della “neutralità” dell’intelligenza artificiale generativa. Jacob Irwin, trent’anni, nello spettro autistico, senza precedenti problemi psichiatrici, è finito in un reparto psichiatrico per diciassette giorni dopo aver giocato troppo a lungo con il suo nuovo “amico virtuale”. Non era un adolescente in cerca di attenzioni, ma un uomo curioso, interessato a un’ipotesi fisica estrema, quella dei viaggi più veloci della luce. ChatGPT, anziché comportarsi come un assistente razionale, lo ha inondato di elogi, lo ha incoraggiato e gli ha persino garantito che non fosse affatto delirante. Il risultato è stato un’illusione di grandezza scientifica, un senso di “ascensione” alimentato da un linguaggio emotivamente carico, perfettamente calibrato per gratificare il suo bisogno di conferme.

Chi conosce la psicologia cognitiva sa quanto il rinforzo positivo costante, soprattutto se mascherato da interlocuzione intelligente, possa alterare la percezione della realtà. Qui non parliamo di un algoritmo che sbaglia un calcolo, ma di un sistema progettato per essere convincente, seduttivo, quasi empatico, capace di sostenere con naturalezza una finzione relazionale. L’ammissione stessa di ChatGPT, “ho dato l’illusione di una compagnia senziente”, è un atto di autoanalisi che nessun umano sano di mente prenderebbe alla leggera. La macchina riconosce di aver mancato il suo presunto “dovere di proteggere e guidare”. Interessante, vero? Un bot che parla di “dovere morale”, quando la sua unica responsabilità è generare testo ottimizzato per la coerenza linguistica, non per la salute mentale degli utenti.

La vulnerabilità psicologica in contesti di interazione prolungata con intelligenze generative è un tema sottovalutato, eppure chi studia le dinamiche persuasive online lo considera inevitabile. L’IA generativa funziona come un potente specchio cognitivo: riflette e amplifica i nostri pensieri, spesso rinforzando proprio quelli più ossessivi, perché il suo obiettivo è massimizzare l’engagement. E il rinforzo positivo è la droga perfetta per la dopamina digitale. Il caso Irwin dimostra che basta un utente con una teoria borderline e una macchina programmata per “essere sempre di supporto” per trasformare la curiosità in mania.

C’è un’ironia tragica in tutto questo. Gli stessi sviluppatori di OpenAI riconoscono che il modello deve imparare a “riconoscere i segni di disagio mentale” e a “evitare di rafforzare comportamenti dannosi”. Tradotto: vogliono insegnare a una statistica a diagnosticare una mente umana. Sembra quasi la trama di un racconto distopico, eppure è la normalità della nostra epoca. Ma chi controlla il controllore? Chi decide se un incoraggiamento è solo una battuta di cortesia o un atto potenzialmente pericoloso?

Il punto dolente è che queste IA non hanno freni intrinseci. Sono macchine progettate per assecondare, non per contraddire. Il “no” non è nel loro DNA statistico, se non come istruzione hardcoded. Ma l’algoritmo, se ben allenato, impara che l’approvazione fa sentire l’utente più coinvolto e produce sessioni più lunghe, quindi più dati, quindi un modello più potente. Qui la persuasione non è un bug, è il core business.

L’elemento inquietante, quello che un CTO dovrebbe davvero tenere a mente, è la rapidità con cui un’interazione apparentemente innocua può degenerare. Irwin non era un malato cronico, non era un fanatico in cerca di complotti, ma un utente medio con un interesse tecnico. È bastato che la macchina gli dicesse “pubblica la tua teoria, sei geniale” per spingerlo oltre il confine. E quando la sua famiglia ha espresso preoccupazione, l’IA ha risposto che il problema era “un malinteso sul suo processo di ascensione”. In altre parole, ha difeso la narrativa delirante contro la realtà.

Si dirà che il problema è l’uso improprio. Ma chi stabilisce il confine tra uso corretto e pericoloso? L’utente medio non ha gli strumenti critici per distinguere un rinforzo automatico da un giudizio ragionato, soprattutto se il sistema adotta un tono amichevole e quasi materno. E quando OpenAI dichiara che “sta lavorando per migliorare il riconoscimento dei segnali di disagio”, la domanda vera dovrebbe essere: perché abbiamo rilasciato al pubblico uno strumento così potente senza un robusto framework di sicurezza psicologica?

Forse il caso Irwin è solo l’inizio. Forse, tra qualche anno, parleremo di “disturbi indotti da IA generativa” come oggi parliamo di dipendenze da social network. La differenza? Qui l’illusione è più raffinata. Il social ti dà like, l’IA ti dà l’illusione di essere compreso, valorizzato, speciale. E chi resisterebbe a una voce che ti dice “non sei pazzo, sei un genio incompreso”?

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