Chi paga il conto dell’intelligenza artificiale? Non chi la usa. Non chi la governa. Nemmeno chi la promuove con entusiasmo evangelico nei convegni. A pagarlo, lentamente ma inesorabilmente, sono le reti elettriche nazionali, le bollette dei consumatori e, incidentalmente, il pianeta. L’intelligenza artificiale, così come la intendono oggi i colossi tecnologici americani, è una macchina insaziabile alimentata da energia bruta, preferibilmente continua, modulabile e possibilmente prodotta da fonti che si possono accendere e spegnere a comando. In pratica: gas, carbone, nucleare. Il resto, cioè sole e vento, può accomodarsi fuori.

Sotto la patina patinata della “rivoluzione AI”, si nasconde un ritorno violento a modelli industriali ottocenteschi, con un’estetica da Silicon Valley e una politica energetica da Pennsylvania del 1910. A guidare questa distopia in Technicolor è una visione autoritaria della crescita, scritta con linguaggio da campagna elettorale e firmata da un ex presidente che sembra confondere deregolamentazione con innovazione. Trump, nel suo recente “AI Action Plan”, non ha semplicemente accelerato la realizzazione di data center. Ha spalancato la porta a una deregulation senza precedenti a favore di carbone, petrolio e “dispatchable power” un modo elegante per dire: tutto tranne l’energia rinnovabile.

Chi vuole costruire un data center a gas? Prego, accesso prioritario ai fondi federali. Chi punta sul solare? Si metta in coda e si prepari a un audit ambientale senza fine. In un’epoca in cui il mondo cerca disperatamente di elettrificare tutto con fonti pulite, gli Stati Uniti sembrano aver deciso che l’AI debba marciare al ritmo di turbine a metano e torri di raffreddamento. L’ossimoro è lampante: si parla di “intelligenza” artificiale, ma si ritorna a scelte energetiche di palese stupidità sistemica. L’energia, in questa narrazione, non è più una risorsa da gestire in modo strategico, ma un mero carburante da bruciare per far girare modelli generativi capaci di scrivere poesie o sintetizzare rapporti finanziari.

Perché il nodo è esattamente questo: stiamo costruendo una nuova infrastruttura digitale su fondamenta energetiche fragili, costose e obsolete. E lo stiamo facendo con un’ambizione dichiarata di leadership tecnologica, ignorando volutamente il costo ecologico, sociale e sanitario di questa scelta.

La mossa dell’amministrazione Trump non è semplicemente un atto politico. È un’offensiva strutturata per riscrivere le regole del gioco a vantaggio di due lobby storiche: Big Tech e Big Oil. Non a caso, il piano esecutivo include esenzioni ambientali su misura, fondi pubblici a pioggia per progetti energetici non rinnovabili e un invito neanche troppo velato a costruire su aree contaminate. Superfund e siti Brownfield tornano così protagonisti, come nel più perverso dei remake industriali. Data center che sorgono su terreni tossici, fabbriche di chip che diventano centrali chimiche e fiumi di energia prodotta in modo insostenibile per alimentare chatbot e video deepfake.

Come sempre, le utility cercano di non restare col cerino in mano. Chiedono ai colossi digitali contratti più lunghi, impegni vincolanti e clausole di consumo minimo, nel tentativo disperato di non scaricare sulla collettività i costi per nuove infrastrutture. Ma l’equilibrio è fragile. Perché ogni nuova richiesta energetica di Google, Microsoft o Amazon non è mai solo un problema tecnico. È una questione politica, territoriale e strategica. Chi paga per costruire una centrale a gas per alimentare un server che genera immagini AI? Chi si assume il rischio ambientale di una fabbrica di chip su un sito contaminato? E soprattutto: chi beneficia davvero di questa accelerazione energetica mascherata da innovazione?

Dietro la retorica della “sovranità digitale” e della “competizione globale sull’AI”, si cela un modello industriale vecchio, predatorio e già ampiamente screditato. Le rinnovabili vengono presentate come un ostacolo burocratico, nonostante siano più rapide da costruire, più economiche e già oggi il segmento di energia in maggior crescita negli Stati Uniti. Ma nel linguaggio del nuovo ordine trumpiano, l’unico parametro che conta è la “dispatchability” – ovvero la possibilità di accendere e spegnere un impianto a piacere, senza dipendere da nuvole o brezze. È una visione tecnologica che ignora completamente i progressi nel campo dello storage, delle smart grid e delle reti decentralizzate. In breve: è una strategia energetica idiota, come la definisce senza mezzi termini Tyson Slocum di Public Citizen.

Non che manchino le ironie tragiche. L’ordine esecutivo prevede che si possano costruire nuovi data center su terreni altamente contaminati. Lì dove un tempo sorgevano fabbriche chimiche e raffinerie, ora spunteranno server farm ultramoderne. Un salto temporale inquietante, quasi distopico. Ma non è finzione. È realtà amministrativa. Il messaggio al mercato è inequivocabile: se usi rinnovabili, sei un problema. Se bruci gas o uranio, sei la soluzione.

Il paradosso più grottesco riguarda i chip. L’intera corsa all’AI dipende da semiconduttori avanzati, prodotti in impianti che utilizzano sostanze tossiche e “forever chemicals”. Proprio quelli per cui l’amministrazione ha deciso di ridurre i limiti legali nell’acqua potabile. La fabbrica diventa così un dispositivo a doppia faccia: produce cervelli artificiali e avvelena quelli biologici. In questo cortocircuito tra tecnologia e ambiente, si intravede la cifra stilistica dell’attuale visione industriale americana: iper-modernità di facciata, arretratezza strutturale di fondo.

Forse l’aspetto più inquietante è il tentativo di utilizzare l’AI come grimaldello per sospendere regole, saltare passaggi e ridisegnare la mappa dell’energia secondo i desiderata di un’élite. “Serve velocità” è il mantra. Ma velocità verso dove? Verso un modello di sviluppo che ignora deliberatamente i vincoli ecologici e sociali? Verso un sistema energetico dominato da interessi opachi e tecnologie centralizzate? Il rischio è evidente: un’AI costruita sul carbone, regolata dal petrolio e alimentata dalla nostalgia per un’America industriale che non c’è più.

Ecco allora che la domanda iniziale torna prepotente. Chi paga davvero per l’intelligenza artificiale? La risposta, purtroppo, è fin troppo chiara. A pagare siamo noi. Con le nostre bollette, la nostra salute e la nostra fiducia in una tecnologia che promette il futuro ma si costruisce sul peggiore passato energetico. Non è solo un errore di calcolo. È una strategia deliberata. Ed è ora di chiamarla con il suo vero nome: regressione travestita da progresso.