Sulle colline dorate di Hollywood si alza l’eco di una battaglia legale che potrebbe riscrivere le regole della creatività digitale. Universal Pictures, uno dei colossi dell’intrattenimento globale, ha iniziato a inserire nei titoli di coda dei suoi film un avviso preciso, chirurgico: “questo contenuto non può essere usato per addestrare AI”. L’avvertimento è comparso su uscite recenti come “How to Train Your Dragon” e “Jurassic World Rebirth”, ma è destinato a moltiplicarsi come disclaimer standard del settore. La mossa non è un vezzo legale, è un grido di guerra eha un solo obiettivo: fermare l’emorragia creativa che Hollywood teme di subire a causa dell’intelligenza artificiale.

Perché sì, siamo nel pieno di una guerra semantica dove la proprietà intellettuale è l’arma e i dataset il campo di battaglia. La difesa di Universal Pictures non è un atto isolato, ma parte di una strategia legale concertata che ha già visto coinvolti nomi come Disney e DreamWorks in una causa federale contro Midjourney, la popolare piattaforma di generazione di immagini basata su AI. L’accusa? “Un pozzo senza fondo di plagio”, secondo i legali degli studios.

Chiunque abbia mai provato a generare un’immagine con Midjourney sa quanto sia facile evocare un cavaliere Jedi con la barba di Gandalf e l’armatura di Iron Man. Ed è proprio questa capacità quasi mistica di fondere immaginari protetti da copyright a far tremare i muri degli studi cinematografici. Midjourney però non si fa intimidire. Nella sua replica di 43 pagine, l’azienda californiana sventola la bandiera del fair use come una costituzione sacra: “La legge sul copyright non conferisce un controllo assoluto sull’uso delle opere protette”. Una frase che suona come un colpo di cannone diretto ai templi della creatività corporativa.

Il problema è che oggi, tra una serie su Netflix e una clip su TikTok, la linea tra ispirazione e appropriazione si fa sottile come la pellicola 35mm. Midjourney insiste sul fatto che la sua tecnologia abilita “fan art non commerciale, sperimentazione, ideazione, commento sociale e critica”. Un argomento che riecheggia le vecchie battaglie dei mashup musicali e dei meme virali. Solo che qui i protagonisti non sono più DJ indipendenti, ma reti neurali alimentate da milioni di immagini, molte delle quali coperte da copyright.

Nel loro attacco, gli studios omettono però un dettaglio rivelatore: decine di utenti Midjourney risultano avere email aziendali di Disney e Universal. Un dettaglio apparentemente banale, ma che mette a nudo l’ipocrisia sistemica dell’industria. Come dire: condanniamo pubblicamente ciò che usiamo in privato. Non bastasse, Midjourney è anche uno strumento largamente utilizzato dagli stessi studi per prototipare scenografie, sviluppare concept visivi e persino testare alternative narrative. Il serpente si morde la coda, ma pretende di farlo con stile legale.

Nel frattempo, il mercato globale osserva. L’India, ad esempio, non sta a guardare: la casa di produzione Eros ha annunciato una nuova versione AI-modificata del film “Raanjhanaa” con un finale riscritto e senza il consenso del regista originale. Traduzione: l’AI entra prepotentemente in sala montaggio, e lo fa bypassando ogni logica autoriale. Un precedente che inquieta perfino i più entusiasti promotori della tecnologia.

La Silicon Valley, dal canto suo, continua a giocare sul filo del trasformativo. Cita sentenze recenti che considerano l’addestramento AI come fair use trasformativo, lo stesso principio usato per difendere Google Books o il data mining accademico. Ma è una difesa che inizia a scricchiolare sotto il peso dei contenuti audiovisivi, molto più viscerali e riconoscibili di un paragrafo di testo. Un supereroe generato da AI, anche se “trasformato”, è pur sempre un simbolo culturale da miliardi di dollari.

Bob Iger, CEO di Disney, ha definito l’AI “uno strumento inestimabile per gli artisti”. Una dichiarazione affascinante che Midjourney ha immediatamente citato a sua difesa. Ma dietro ogni parola si nasconde un paradosso: l’industria che sfrutta la potenza creativa dell’intelligenza artificiale vuole al contempo escludere i propri contenuti dal suo apprendimento. Come se si potesse alimentare una bestia senza darle da mangiare.

Le implicazioni di questa diatriba vanno ben oltre i confini legali. Si tratta di una ridefinizione ontologica del concetto stesso di originalità. Se un’AI genera un’immagine che “assomiglia” a qualcosa già esistente, si tratta di plagio o di emergenza statistica? Se milioni di immagini pubbliche sono accessibili online, chi può davvero impedirne l’uso da parte di un sistema automatico? Il principio della scarsità creativa sta crollando sotto il peso della molteplicità algoritmica.

Il rischio concreto è che, nel tentativo di blindare il copyright, Hollywood finisca per castrare l’innovazione. O peggio, per alimentare una forma di creatività elitista, dove solo i grandi player possono accedere a modelli generativi addestrati su dataset completi. Una sorta di AI a due velocità: quella per le major, iperprotetta e chiusa, e quella per gli indipendenti, affamata e zoppa. Non è esattamente la democratizzazione che ci era stata promessa.

Nel frattempo Netflix si diverte. Ha usato l’AI generativa per velocizzare la scena di un crollo in una serie argentina, “The Eternaut”, dimostrando che l’automazione non è solo utile ma essenziale in una produzione moderna. Ecco allora la beffa: mentre le aule dei tribunali si affollano di cause, i set si popolano di algoritmi. L’AI non aspetta l’autorizzazione legale, semplicemente lavora.

Forse la soluzione non sarà normativa ma culturale. Bisognerà accettare che la creatività del futuro sarà ibrida, porosa, indefinita. Una creatività dove l’originalità non sarà più una questione di genio individuale, ma di sintesi collettiva. E se Universal Pictures vuole davvero impedire l’addestramento su “Jurassic World Rebirth”, dovrà probabilmente seppellire i suoi film in archivi offline. Altrimenti, l’AI continuerà a imparare. Anche dai titoli di coda.

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 The Hollywood Reporter.