La dipendenza infrastrutturale in Europa è ormai un problema da codice rosso, quasi un dramma shakespeariano in chiave tecnologica. Nel mondo del cloud computing, la quasi totalità delle aziende europee si affida senza riserve a infrastrutture americane, con Amazon Web Services che detiene circa il 32% del mercato globale, seguito da Microsoft Azure con il 23% e Google Cloud Platform intorno al 11%, dati recenti di Synergy Research Group confermano questa distribuzione spietata. Questi numeri non sono soltanto statistiche: sono il riflesso di un controllo quasi totale su dati, servizi e infrastrutture critiche che influenzano quotidianamente la vita economica, sociale e politica del continente.

La superiorità tecnica di questi hyperscaler è indiscutibile, offrendo efficienza, velocità, scalabilità e prezzi competitivi che hanno trasformato il calcolo, l’archiviazione e la rete in una commodity. Amazon S3, per esempio, custodisce un volume di dati che supera i 100 exabyte, una cifra talmente astratta che si fatica a immaginare, ma che illustra quanto profondamente il cloud americano sia radicato nel tessuto digitale europeo.

Il problema è che questa concentrazione di potere infrastrutturale crea un punto di pressione geopolitico enorme. Basta un cambio di vento politico, un conflitto diplomatico o una nuova legge sulla privacy americana, per trasformare una dipendenza economica in una leva di ricatto politico. Lo dimostra il caso Danimarca, che ha tentato di migrare da Windows a Linux per sfuggire a pressioni politiche legate alla Groenlandia, ma ha dovuto tornare sui propri passi di fronte alle complessità tecniche e ai costi astronomici, come sottolineato dal rapporto del Danish Agency for Digitisation.

L’accelerazione tecnologica portata dal cloud è indubbia. Secondo IDC, il mercato europeo del cloud pubblico crescerà a un CAGR (tasso di crescita annuale composto) del 15,6% fino al 2026, spingendo innovazione e trasformazione digitale. Ma l’Europa non può permettersi di rimanere mera spettatrice, consumando infrastrutture straniere senza costruire le proprie. La strada passa per un cloud europeo che sia competitivo, sicuro e sovrano.

L’intelligenza artificiale amplifica la posta in gioco. McKinsey stima che l’AI potrà contribuire con 13 trilioni di dollari all’economia globale entro il 2030, più del PIL attuale di Cina ed Europa messi insieme. Le aziende che adotteranno l’AI cresceranno a un ritmo superiore al 30% annuo, con settori come la finanza e la sanità che si avvicineranno al 45%. Gartner avverte però che il 40% dei progetti AI agentici sarà abbandonato, facendo salire ulteriormente il valore delle iniziative di successo. Qui sta la scelta di fondo: essere attori o comprimari. Se l’Europa saprà integrare AI e cloud, potrà creare un ecosistema tecnologico autonomo e più resiliente.

La vera sfida intellettuale è separare la sovranità tecnologica dall’indipendenza. L’indipendenza va vista come capacità di non dipendere da una singola infrastruttura o fornitore, mitigando i rischi di blackout o ricatti. La sovranità invece è un concetto più delicato e rischia di diventare una prigione ideologica che spinge verso l’autarchia, un percorso poco realistico e poco produttivo. Non si tratta di isolarsi, ma di costruire una resilienza che consenta di gestire crisi senza implodere.

Spesso si confonde la mancanza di chip europei con un’impotenza totale. La realtà è che, mentre la produzione hardware richiede tempo e capitali enormi, la dipendenza dai servizi è un problema immediato e più pericoloso: la sospensione di un servizio cloud è come togliere la corrente a un intero paese, con effetti immediati e drammatici. Le narrazioni che dipingono l’Europa come incapace di competere perché non produce hardware sono per lo più alibi, mentre il vero terreno di battaglia è la sovranità sui servizi e sulle piattaforme operative.

Per questo occorre un approccio europeo pragmatico, che punti su architetture multi-cloud e ibride, basate su standard aperti. Il Digital Markets Act e l’AI Act sono normative di difficile gestione, rischiano di soffocare le aziende europee con oneri burocratici mentre i giganti globali continuano a dominare. La direttiva NIS2 invece spinge per standard più alti di cybersecurity e resilienza, creando un mercato interno per servizi cloud sicuri e affidabili, che può favorire i provider europei, operanti sotto le stesse regole giuridiche.

Non si tratta di costruire un muro, ma un ecosistema in cui le scelte tecnologiche siano strategiche e coerenti con i valori europei, senza accettare come dato di fatto una dipendenza che mette a rischio la sovranità economica e politica. Citando un passaggio di Margrethe Vestager, Commissaria europea per la concorrenza: “L’Europa deve investire nelle sue infrastrutture digitali se vuole mantenere la propria autonomia e proteggere i suoi cittadini e le sue imprese.”

Il tema della “indipendenza” tecnologica va declinato con la dovuta finezza tra beni e servizi, costruendo una scala di priorità che non sia solo un esercizio teorico, ma una mappa operativa per non trovarsi a navigare a vista nel mare tempestoso della dipendenza digitale. Confondere la produzione di hardware con la gestione dei servizi significa fare un errore strategico cruciale. I chip, i semiconduttori, la manifattura fisica restano certamente la base, ma oggi non sono più il vero tallone d’Achille. La vera sfida è nelle piattaforme e nei servizi digitali che governano i flussi di dati, le infrastrutture cloud e le applicazioni AI che stanno trasformando l’economia globale.

Per dirla con una metafora, è come se l’Europa avesse ancora la carrozzeria della macchina, ma non il motore né il carburante. La dipendenza dai servizi cloud americani è talmente pervasiva che un’interruzione o una decisione geopolitica possono paralizzare intere industrie e amministrazioni pubbliche. Senza una reale autonomia nel livello software e servizi, l’Europa resta condannata a inseguire o, peggio, a subire scelte esterne. Questo è il punto dove la priorità deve spostarsi: non serve solo costruire un chip migliore, serve un ecosistema di servizi digitali europei robusti, sicuri, scalabili e sovrani.

Costruire la scala di priorità significa investire ora su piattaforme cloud, AI, data center europei con regole rigorose di sovranità e privacy, sfruttando l’enorme potenziale di mercato e innovazione. L’Europa deve imparare da chi ha investito nell’iper-scalabilità e nella commoditizzazione del calcolo per diventare competitiva non solo in termini di tecnologia, ma anche di capacità strategica. Non serve isolarsi, ma creare un’offerta tecnologica europea che possa competere e soprattutto garantire continuità operativa e controllo politico.

La sovranità digitale non è una parola da salotto, ma un requisito fondamentale in un mondo dove i dati sono la nuova materia prima e l’accesso a piattaforme intelligenti determina chi ha il potere. La vera indipendenza passa per un mix calibrato di investimenti, regole e apertura intelligente, non per slogan e protezionismi anacronistici. Del resto, come ha detto Satya Nadella, CEO di Microsoft, “Il cloud è una corsa che non si può vincere guardando solo allo specchietto retrovisore”. L’Europa deve correre questa corsa, ma con un motore costruito dentro casa, non assemblato con pezzi presi in giro per il mondo.

Il futuro del cloud europeo non sarà una copia sbiadita degli hyperscaler americani, ma un pilastro di una politica industriale che sappia coniugare apertura globale e autonomia strategica, senza far cadere l’Europa in una nuova forma di dipendenza mascherata da innovazione.