Guardando Tron: Ares, ho avuto la sensazione di assistere a un esperimento: prendere le vesti futuristiche di Legacy, spargere un minimo di riflessione sull’intelligenza artificiale (per non essere accusati di superficialità), e infine costruire un meccanismo narrativo che giustifichi un ulteriore capitolo non perché ne avessimo bisogno, ma perché Disney ama i sequel come il popcorn ama il burro.

Nel 2010 Tron: Legacy non brillava per originalità, ma almeno compensava con immagini da parco tematico digitale e un colonna sonora da discoteca spaziale di Daft Punk. Quell’equilibrio tra omaggio nostalgico e ambizione tecnica riusciva almeno a divertirti (se eri disposto a sopportare uno script vacuo). Oggi Ares si presenta come reboot ibrido: vuole essere nuovo, ma deve pure rassicurare i fan che i light cycle e gli aura al neon ci saranno ancora.

Ecco dove inciampa. Al centro abbiamo Eve Kim (Greta Lee), CEO di ENCOM, che tenta di materializzare programmi digitali nel mondo reale (attraverso una tecnologia che sembra stampa 3D al laser), mentre Julian Dillinger (Evan Peters) guida la controparte militare con il programma Ares (Jared Leto) come arma vivente. Il “codice di permanenza” di Kevin Flynn è il MacGuffin sacro che tutti cercano come se fosse l’HDMI dell’illuminazione suprema.

I momenti migliori del film sono visivi: il contrasto tra il mondo reale e l’alter-realtà digitale, qualche set piece ben costruito, sequenze in cui il Grid sembra divorare la carne. Il volto dell’IA che si chiede “chi sono?” ha sempre un certo fascino esistenziale, specie quando lo trasferisci fuori dal computer (qui Jared Leto, purtroppo, non ha l’energia per incarnarlo). In quei momenti, senti l’ombra di un’idea valida: l’ossessione delle aziende tech di costruire servitori digitali, non invenzioni utili. Ma il film non ha il coraggio di farci vivere davvero quella critica: preferisce spiegarla, invece di mostrarla.

Il problema è che Ares passa più tempo a collapsare sotto il peso delle sue stesse spiegazioni. I dialoghi sono quippy solo di nome, espositivo fino al midollo, come se la sceneggiatura non confidasse un istante che lo spettatore possa connettere i puntini. Eve e Ares non hanno chimica — il loro “romance” sembra scritta per un’AI che ha letto troppi manuali smussati. Gillian Anderson fa la comparsa da diva immersa nella sua stessa bellezza digitale, Jodie Turner-Smith appare come comprimaria ben vestita ma poco servita — Disney evidentemente ha lasciato il montaggio con le forbici pronte.

Metacritic restituisce “mixed or average”: il giudizio è quello che ti aspetti. Rotten Tomatoes segna un 55 %.
Nelle recensioni esterne molti si lamentano della mancanza di mordente emotivo: per The Guardian il film è “mind-bendingly dull” nonostante la Anderson. The Verge parla di reboot fiacco che visivamente ricorda Legacy, ma narrativamente vacilla.

Musicalmente, Nine Inch Nails tenta un’atmosfera più industriale, scarna, aggressiva, distante — è una scelta coraggiosa, ma spesso rimane un sottofondo: non ha il fascino tematico di Daft Punk, non attecchisce come marchio sonoro potente.

C’è anche un dettaglio curioso: il marketing ha dovuto cambiare passo quando Jeff Bridges stesso ha rivelato che sarebbe tornato come Flynn. Disney non voleva mostrarlo, poi ha dovuto inserirlo a forza. Così Flynn — “il fantasma nella macchina” secondo il regista Rønning — diventa un appiglio per i nostalgici, ma pare quasi un cameo metafisico piuttosto che un cuore narrativo.

Alla fine Tron: Ares è come un’auto sportiva con carrozzeria scintillante, ma con motore che ronza senza spingere: belle curve, ma poche accelerazioni vere. Il film non uccide, non trascende, non reinventa — ma non osa nemmeno troppo. Se non fosse per i CGI e per l’idea di missioni digitali nel mondo reale, lo dimenticheresti prima dei titoli di coda.

Ma aspetta: Disney spera chiaramente in un quarto capitolo, perché Ares sembra più una base di lancio che un epilogo. Chi ne avrà voglia? Forse chi vuole solo rivedere light cycle, neon, contrasti luci-ombre. Se credi che un film con dialoghi che spiegano e spiegano troppo, con protagonisti che non vivono ma recitano, con un tema forte appena accennato, meriti una serata al cinema: fallo. Altrimenti, aspetta che vada su uno streaming in saldo. Sentirai il Grid bussare alla porta digitale, ma non aspettarti che entri e rivoluzioni tutto.