SoftBank ha deciso di abbandonare la regina delle GPU. Nessun rimorso, nessuna esitazione, solo una fredda strategia: vendere interamente la partecipazione in Nvidia per 5,83 miliardi di dollari e dirottare il capitale verso OpenAI, la società che oggi rappresenta insieme un miracolo di crescita e un enigma contabile. In un solo colpo, Masayoshi Son ha rinnegato la fede nel silicio per abbracciare quella nella mente artificiale, scommettendo che il futuro del potere tecnologico non passerà più dai chip ma dall’intelligenza che li governa. Una mossa che lascia Wall Street perplessa, Silicon Valley spiazzata e i regolatori americani più nervosi che mai.

SoftBank non è nuova ai colpi di teatro. La sua storia recente è costellata di inversioni strategiche, di investimenti monstre e di epiche sbandate, ma questa volta il cambio di rotta è più radicale del solito. La vendita di Nvidia coincide con la più grande iniezione di capitale privato mai fatta nel mondo dell’intelligenza artificiale: 40 miliardi di dollari in OpenAI entro la fine dell’anno, 30 dei quali provenienti direttamente dalle casse del gruppo giapponese. Una cifra che travalica l’investimento di Microsoft e ridefinisce gli equilibri di potere nel nascente oligopolio dell’AI generativa.

Il tempismo non è casuale. SoftBank ha bisogno di rifondare la propria narrativa dopo gli anni turbolenti del Vision Fund, e l’intelligenza artificiale offre il palcoscenico perfetto. Tuttavia, la decisione arriva mentre la credibilità di Sam Altman è messa in discussione. L’uomo che ha trasformato OpenAI in un fenomeno planetario è finito nel mirino per aver negato pubblicamente di aver chiesto garanzie governative, proprio mentre una lettera ufficiale indirizzata alla Casa Bianca lo smentiva parola per parola. Il documento, datato 27 ottobre, chiedeva esplicitamente crediti d’imposta e garanzie federali per finanziare infrastrutture di AI su larga scala. Una contraddizione che, in un mondo ossessionato dalla trasparenza dei dati, odora di ipocrisia manageriale.

Eppure SoftBank non sembra preoccuparsene. Il colosso giapponese ha incassato nel trimestre un guadagno record di 23,4 miliardi di dollari, di cui 14,3 derivanti dalla rivalutazione della sua quota in OpenAI a una valutazione pre-money di 260 miliardi. Tradotto: un’impresa che ancora perde miliardi ogni anno viene oggi trattata dal mercato come la nuova Standard Oil del secolo digitale. Forse perché, nel capitalismo dell’immaginazione, la promessa di un’intelligenza artificiale sovrumana vale più di qualsiasi flusso di cassa.

La realtà, tuttavia, resta ostinatamente fisica. Per finanziare l’acquisto, SoftBank ha emesso 4,1 miliardi in obbligazioni in yen, altri 4,2 in debito estero e contratti di bridge loan per oltre 15 miliardi destinati a OpenAI e ABB Robotics. Un castello di leva finanziaria costruito sopra un mare di algoritmi. Il Chief Financial Officer Yoshimitsu Goto ha spiegato che la dismissione di Nvidia rientra nel piano di “monetizzazione degli asset” per sostenere nuove acquisizioni in settori strategici come i data center, i chip dedicati all’AI e la robotica avanzata. Il tutto sotto la bandiera, un po’ messianica, della “realizzazione dell’intelligenza artificiale superumana per il progresso dell’umanità”.

Il mercato, tuttavia, ha reagito con freddezza. Nvidia ha perso l’1,46% in pre-market, SoftBank è rimasta sostanzialmente invariata e i segnali macro non aiutano. Taiwan Semiconductor Manufacturing, principale fornitore di Nvidia, ha riportato la crescita dei ricavi più lenta dall’inizio del 2024. Anche Michael Burry, l’outsider che aveva previsto la crisi del 2008, ha aperto posizioni ribassiste su Nvidia, scommettendo che l’euforia AI stia per svanire. Ironico, considerando che Meta, Alphabet, Amazon e Microsoft hanno annunciato investimenti per oltre 400 miliardi in infrastrutture di intelligenza artificiale nel 2025.

Masayoshi Son, dal canto suo, sembra muoversi come un samurai del capitale più che come un amministratore prudente. Nel 2017 aveva investito 4 miliardi in Nvidia, venduti due anni dopo per rientrare in posizione nel 2023 e disimpegnarsi nuovamente oggi. Un doppio passo degno di un hedge fund più che di un conglomerato industriale. Il messaggio implicito è chiaro: il valore non risiede più nel chip, ma nel controllo dell’ecosistema cognitivo che decide come il chip viene utilizzato. SoftBank, in altre parole, vuole smettere di produrre mattoni per iniziare a costruire città.

Il problema è che OpenAI, per quanto iconica, brucia ancora più di quanto guadagni. Le spese per l’addestramento dei modelli GPT superano ormai i due miliardi annui e la dipendenza da Microsoft per l’infrastruttura Azure resta una vulnerabilità strategica. Anche la promessa di un “modello open-weight con capacità di ragionamento” non risolve il nodo centrale: come monetizzare l’intelligenza senza commodificarla. SoftBank sembra convinta che la risposta stia nella scala, nella quantità di dati e nella potenza computazionale, ma la storia della tecnologia insegna che l’abbondanza non sostituisce la sostenibilità.

C’è poi un aspetto politico, sottovalutato ma decisivo. L’investimento giapponese in OpenAI si inserisce in un momento in cui Washington inasprisce i controlli sull’export di chip verso la Cina e tenta di riportare la produzione di semiconduttori sul suolo americano. Affidare 40 miliardi di dollari a un’azienda americana il cui CEO è in attrito con la Casa Bianca non è solo un atto finanziario, ma una dichiarazione geopolitica. È come se Tokyo avesse deciso di legare il proprio futuro tecnologico non a un prodotto, ma a una personalità.

La mossa di SoftBank rappresenta così una parabola perfetta del capitalismo contemporaneo: un sistema dove le aziende non vendono più beni, ma narrazioni. Nvidia vende l’idea di potenza computazionale, OpenAI quella di intelligenza creativa, SoftBank la visione di un’umanità aumentata. Il capitale diventa una scommessa sulla plausibilità di un futuro, più che sulla redditività di un presente. Forse è questo il vero significato della frase di Son secondo cui “l’AI sarà più grande dell’elettricità”. Non tanto per ciò che produce, ma per ciò che induce a credere.

La verità, che i mercati faranno fatica ad ammettere, è che SoftBank non sta solo spostando capitale: sta ridefinendo il concetto stesso di investimento tecnologico. Ha liquidato Nvidia, simbolo dell’hardware che alimenta l’intelligenza artificiale, per finanziare la fabbrica di sogni che la dirige. Un gesto che contiene insieme arroganza e lungimiranza, rischio e genialità. Forse, fra qualche anno, i grafici mostreranno che Masayoshi Son aveva ragione ancora una volta. O forse avrà semplicemente anticipato di un decennio il prossimo crollo dell’hype sull’intelligenza artificiale. In entrambi i casi, il suo nome resterà inciso nella cronaca di questo capitalismo ossessivamente convinto che la prossima rivoluzione tecnologica sia sempre un investimento lontano solo un click.