Il mercato dell’intelligenza artificiale ha mostrato segni di nervosismo che non si vedevano da anni, e non parliamo di qualche startup sconosciuta, ma di un colosso come Oracle. La società, fondata da Larry Ellison nel lontano 1977, ha trasformato la sua immagine da fornitore di database a protagonista dell’AI americana, partecipando al faraonico progetto Stargate del governo degli Stati Uniti da 500 miliardi di dollari. Tuttavia, la narrativa dell’innovazione tecnologica non può nascondere la realtà dei numeri: i credit default swap legati a Oracle stanno aumentando in modo significativo, segnale chiaro che gli investitori iniziano a scrutare la solidità del suo bilancio con un misto di ammirazione e preoccupazione.
Quando il futuro diventa mattoncino di silicio OpenAI ha annunciato che costruirà nel Michigan, in Saline Township, un campus dati da oltre 1 gigawatt come parte dell’espansione Stargate in partnership con Oracle e uno sviluppatore immobiliare, Related Digital. L’obiettivo dichiarato è arrivare combinando questo sito con gli altri già in cantiere a più di 8 GW di capacità distribuiti su sette locazioni statunitensi e a un impegno complessivo che supera i 450 miliardi di dollari nei prossimi tre anni.
La competizione nel mondo dell’e-commerce fashion non è più solo questione di cataloghi scintillanti o di influencer perfettamente sponsorizzati. Il vero campo di battaglia oggi si gioca dietro le quinte, nella capacità di leggere trend, anticipare la domanda e ottimizzare l’inventario in tempo reale, su scala internazionale. Answear.com, uno dei protagonisti europei del retail online di moda, ha scelto di non lasciare nulla al caso e ha deciso di spingere la digitalizzazione oltre ogni limite, abbracciando le soluzioni Oracle Cloud più avanzate per trasformare la pianificazione delle collezioni in oltre dodici mercati.
Nel cuore del Tennessee, all’Oak Ridge National Laboratory (ORNL), si sta preparando una rivoluzione digitale che potrebbe ridefinire il futuro dell’intelligenza artificiale e della supercomputazione. AMD, in collaborazione con il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (DOE), Hewlett Packard Enterprise (HPE) e Oracle, ha siglato un accordo da 1 miliardo di dollari per sviluppare due supercomputer all’avanguardia: Lux e Discovery. Questi sistemi non sono solo macchine potenti; sono la spina dorsale di un’infrastruttura AI sovrana progettata per accelerare la ricerca scientifica, l’innovazione energetica e la sicurezza nazionale.
Ogni tanto, nel mondo dell’enterprise software, qualcuno smette di parlare di “trasformazione digitale” e comincia davvero a farla. È raro, ma succede. Questa volta succede a NetSuite, che con NetSuite Next ha deciso di riformulare il concetto stesso di ERP, liberandolo dalla sua immagine di mastodonte contabile e restituendogli la grazia di una piattaforma viva, conversazionale, adattiva. Non più un sistema in cui l’azienda si piega alle logiche del software, ma un ecosistema che capisce il linguaggio umano e agisce come un partner digitale, non come un archivio burocratico.
Ogni rivoluzione tecnologica ha un momento in cui smette di sembrare un esperimento e inizia a comportarsi come un impero. Nel caso dell’intelligenza artificiale, quel momento è arrivato nel 2025, quando OpenAI ha deciso che per costruire il futuro non bastavano modelli linguistici e server affittati. Serviva potenza pura, proprietà fisica dell’infrastruttura, controllo diretto dell’energia, e una rete di alleanze industriali degna della corsa allo spazio. In questa partita, Nvidia, AMD e Oracle sono diventati non semplici partner, ma co-architetti del cervello digitale che alimenterà l’economia dei prossimi decenni.
Quando Jensen Huang parla, Wall Street ascolta. Il CEO di Nvidia, l’uomo che ha trasformato la GPU da gadget per gamer in una macchina per stampare denaro, non lancia mai dichiarazioni a caso. Così, quando in un’intervista con Jim Cramer della CNBC afferma che il cloud AI di Oracle sarà “straordinariamente redditizio”, il mercato annusa la direzione del vento e si prepara a seguirla. Ma dietro questa frase apparentemente entusiastica si nasconde una visione precisa sul futuro del cloud computing, sull’economia dell’intelligenza artificiale e sulla nuova geografia del potere tecnologico.
Il sogno di Oracle, quello di diventare il braccio infrastrutturale dell’intelligenza artificiale globale. Un piano audace, costruito su miliardi di dollari di chip Nvidia e sul carisma indistruttibile del suo fondatore, Larry Ellison, che da anni promette una rinascita tecnologica degna dei tempi d’oro della Silicon Valley. Ma come ogni sogno alimentato da hype e grafici proiettati fino al 2030, anche questo inizia a mostrare le prime crepe.
Il titolo di Oracle ha perso il 5% dopo un report di The Information (basta cosi’ poco? Speculation come chiede CNBC) che ha messo in dubbio la redditività del suo business di noleggio GPU Nvidia. Un calo che non sorprende chi conosce la fisica elementare della finanza: quando spendi miliardi per affittare chip a margini da discount, la gravità fa il resto. Secondo il report, il margine lordo del business cloud AI di Oracle sarebbe intorno al 14% su 900 milioni di dollari di vendite trimestrali, una cifra modesta se confrontata con il margine complessivo dell’azienda che viaggia al 70%. In termini più crudi, Oracle sta guadagnando briciole su un banchetto costosissimo.
Austin e Milano, due città che raramente condividono un palcoscenico tecnologico, diventano per un giorno il centro del mondo enterprise. Oracle ha appena lanciato i suoi nuovi agenti AI Oracle all’interno delle Oracle Fusion Cloud Applications, dichiarando apertamente che il futuro della customer experience non sarà più gestito da umani stressati, ma da intelligenze artificiali addestrate a pensare come manager. È un momento che molti chiamerebbero “svolta epocale”, ma che i più cinici, nel tipico stile da boardroom, descriverebbero come l’ennesima promessa di automazione magica. Solo che questa volta qualcosa è diverso.
La Silicon Valley è un teatro in cui il dramma del capitale incontra la commedia dell’innovazione. Dentro questo copione, Oracle recita da decenni il ruolo del sopravvissuto che nessuno invita più alle prime, salvo poi trovarlo sul palco quando cala il sipario sugli altri. Il tema oggi si chiama Oracle AI cloud, una definizione che fino a due anni fa avrebbe strappato un sorriso scettico ai fedeli di Amazon Web Services o ai discepoli di Microsoft Azure. Ma qualcosa si sta muovendo, e non solo per effetto dell’hype intorno all’intelligenza artificiale.
Quando un colosso come Oracle sceglie il palcoscenico dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per presentare la sua nuova creatura tecnologica, non è solo marketing. Government Data Intelligence for Agriculture, il nome suona tecnico e un po’ noioso, ma dietro quelle parole si gioca un pezzo di futuro della sicurezza alimentare. Perché non stiamo parlando di un nuovo software per ottimizzare le supply chain delle aziende agricole californiane, bensì di un’infrastruttura digitale che promette di aiutare governi interi a capire in tempo reale come si muove la produzione agricola, quali raccolti stanno per collassare e dove conviene intervenire per evitare che l’insicurezza alimentare diventi instabilità politica.
Oracle sta per entrare nel vivo di uno dei dossier più caldi della tecnologia-politica americana: il nuovo accordo con gli USA per isolare, proteggere e ricostruire l’algoritmo di TikTok destinato agli utenti statunitensi sta prendendo forma. Nel frattempo, l’Europa trema sotto attacchi ransomware che paralizzano aeroporti: il fornitore di sistemi di check-in, Collins Aerospace, è al centro del mirino. Sono fenomeni diversi, ma la lezione è la stessa: non puoi più ignorare la sovranità digitale.
Quando Meta Platforms decide di fare shopping tecnologico, il mercato non resta mai indifferente. La notizia che il colosso guidato da Mark Zuckerberg starebbe valutando un accordo pluriennale con Oracle per utilizzare i suoi servizi cloud nella formazione e nel deployment dei modelli di intelligenza artificiale ha già fatto salire il titolo Oracle del 4 per cento in una singola seduta.
Bloomberg ha parlato di un’intesa potenziale da circa 20 miliardi di dollari, ancora in fase di discussione ma sufficiente a scatenare speculazioni, entusiasmi e, naturalmente, l’ansia di chi teme che la geografia del potere tecnologico globale stia mutando sotto i nostri occhi.
La notizia arriva come un colpo secco per chi ancora pensa che l’intelligenza artificiale nelle risorse umane sia un lusso futuristico o un gadget costoso. Oracle, gigante con oltre 45 anni di esperienza tecnologica, presenta oggi una nuova generazione di agenti AI integrati nella suite Fusion Cloud HCM, capaci di gestire l’intero ciclo di vita dei dipendenti, dalla selezione al pensionamento, senza alcun costo aggiuntivo per i clienti. Il messaggio è chiaro: l’AI non è più un’opzione, ma una componente intrinseca di qualsiasi strategia HR moderna.
Il mercato ha un debole per i numeri iperbolici. Basta pronunciare “trecento miliardi” e le borse iniziano a ballare come se avessero sniffato caffeina pura. Oracle ha visto le proprie azioni schizzare in alto dopo la notizia riportata dal Wall Street Journal: OpenAI avrebbe firmato un contratto mostruoso, da 300 miliardi di dollari, per acquistare potenza di calcolo nei prossimi cinque anni. Sarebbe il più grande accordo cloud della storia. Sarebbe, appunto. Perché il condizionale è d’obbligo, dato che né Oracle né OpenAI hanno confermato ufficialmente i dettagli, preferendo il silenzio strategico che, a Wall Street, vale più di mille comunicati stampa.
La notizia è semplice e potente nella sua semplicità: Oracle Health ha annunciato il lancio dell’Oracle AI Center of Excellence for Healthcare, una piattaforma pensata per aiutare ospedali e sistemi sanitari a sfruttare i rapidi progressi dell’intelligenza artificiale, mettendo insieme risorse, ambienti cloud sicuri e competenze di integrazione per far decollare progetti AI su scala enterprise.
Questo annuncio arriva in un contesto in cui i grandi vendor tecnologici rincorrono il sogno di trasformare i processi clinici e amministrativi con modelli di intelligenza artificiale e agenti conversazionali che promettono di ridurre il lavoro ripetitivo, accelerare la ricerca e, perché no, abbassare i costi operativi. Oracle posiziona il suo Centro come hub di risorse on demand, con guide di implementazione, framework, best practice e sessioni onsite per sperimentare soluzioni su Oracle Cloud Infrastructure, Oracle Fusion Cloud Applications e tecnologie di Oracle Health.
La notizia è semplice ma distruttiva per le vecchie abitudini del mercato tecnologico: OpenAI avrebbe firmato un accordo con Oracle per acquistare 300 miliardi di dollari in potenza di calcolo su un orizzonte di circa cinque anni, uno degli acquisti cloud più vasti mai registrati su scala industriale. Questo non è un esercizio di iperbole finanziaria, ma la costruzione concreta di una dipendenza infrastrutturale che rimodella rapporti di forza, dinamiche di costo e leve geopolitiche intorno all’intelligenza artificiale.
Questo accordo si innesta dentro un progetto più ampio che ormai ha un nome quasi mitologico: Project Stargate, la scommessa di OpenAI, Oracle e altri partner per costruire nuove capacità di data center che richiederanno fino a 4.5 gigawatt di potenza. La cifra è reale e impressionante, perché 4.5 gigawatt significano impianti su scala industriale che non si installano in un garage ma si progettano con ingegneria pesante, accordi energetici e permessi politici. Il comunicato congiunto e i documenti pubblici dell’iniziativa lo confermano.
Oracle, quel dinosauro del software che negli anni ’80 e ’90 sembrava immarcescibile, oggi è il cavallo di Troia dell’AI nel cloud. Martedì, quando presenterà i risultati del trimestre chiuso ad agosto (primo del suo esercizio fiscale 2026, che va da giugno a maggio), scopriremo quanto profondo sia il suo tuffo nel rosso. Le anticipazioni parlano chiaro: niente aumenti in contanti, voci interne rivelano che Oracle starebbe eliminando bonus e aumento salari i dipendenti riceveranno azioni al posto dei soldi. Altri tagli? Più di 150 posti nel cloud a Seattle sono già stati sacrificati sull’altare dei cluster AI, e centinaia nel mondo stanno cadendo pure sotto il dito della ristrutturazione.
È una danza crudele: si taglia mentre si investe, perché il conto dei data center con OpenAI e GPU da NVIDIA pesa come un macigno. Oracle ha bruciato quasi 400 milioni di dollari di free cash flow nell’esercizio 2025; nelle proiezioni 2026, i capex saliranno del 19 %, spinti verso $21 – 25 miliardi. La mossa è audace, il rischio alto. Ma guardiamo i numeri: il cloud ora vale il 44 % del fatturato, con infrastruttura in crescita del 49 % e un backlog futuro (RPO) salito del 62 % a $130 miliardi. Gli analisti, impavidi, lanciano upgrade e target da $250 a $308, come se Oracle fosse una startup AI in piena accelerazione.
C’è un’ironia di fondo: aziende coetanee come Amazon, Microsoft, Google e Meta investono nell’AI pur generando flussi di cassa titanici. Oracle, che nel 2027 sarà cinquantenne, paga il conto anticipato. Un rallentamento nella corsa all’AI e tutto rischia di invertire, più velocemente di quanto una startup fondi il suo primo round.
Il mercato globale dell’intelligenza artificiale sta subendo una trasformazione radicale, e pochi casi illustrano meglio le tensioni tra innovazione, governance e rischio strategico di OpenAI. La ristrutturazione dell’azienda, attesa da mesi, rischia di far saltare un investimento da 10 miliardi di dollari da parte di SoftBank, mettendo in discussione non solo la sua valutazione da 300 miliardi, ma anche la timeline per una IPO prevista inizialmente nel 2024. Per gli investitori, ogni giorno di ritardo è un piccolo terremoto nei portafogli. La promessa di guadagni esplosivi dall’AI si scontra con una complessità gestionale che pochi altri settori conoscono.
La disputa con Microsoft è il fulcro della crisi. L’esclusività di Azure come infrastruttura cloud principale di OpenAI garantisce a Microsoft un ruolo da guardiano, mentre l’azienda di Sam Altman spinge verso la diversificazione con AWS e Google Cloud. La contraddizione è palese: l’accordo con Microsoft offre stabilità e accesso privilegiato a risorse essenziali, ma limita la libertà strategica di OpenAI e aumenta i rischi di dipendenza. L’inserimento della cosiddetta “clausola AGI”, che permette all’azienda di revocare a Microsoft l’accesso alla proprietà intellettuale in caso di sviluppo di intelligenza artificiale generale, aggiunge un elemento di drammaticità: per Microsoft è un rischio strategico, per OpenAI un’assicurazione contro il monopolio tecnologico.
Oracle ha deciso di accelerare la sua strategia cloud focalizzata sull’intelligenza artificiale con un investimento da capogiro: la costruzione di un data center da 1,4 gigawatt a Abilene, in Texas, alimentato principalmente da gas naturale. Un progetto da 1 miliardo di dollari all’anno che riflette l’urgenza di scalare l’infrastruttura per l’IA e le sfide nel collegare strutture di tale portata alle reti elettriche tradizionali.
Il sito, noto come Lancium Clean Campus, è sviluppato in collaborazione con Crusoe Energy e si estende su 826 acri. È progettato per ospitare fino a 4,5 gigawatt di capacità computazionale, destinata principalmente a OpenAI. Questa espansione fa parte del progetto Stargate, che mira a potenziare l’infrastruttura per l’IA negli Stati Uniti. La scelta di alimentare il data center con generatori a gas è una risposta diretta alle lunghe attese per l’accesso alla rete elettrica, che possono richiedere anni.
Il mondo dell’intelligenza artificiale è un’arena di gladiatori. Da un lato i colossi come OpenAI, Anthropic, Google DeepMind e la miriade di startup che propongono chatbot come distributori automatici di frasi preconfezionate. Dall’altro emerge Joseph Reth, “un ventenne”che ha fondato Autopoiesis Sciences, rifiutando offerte milionarie per costruire un’AI rivoluzionaria. La sua visione è chiara: creare un’intelligenza artificiale che non si limiti a generare risposte, ma che ragioni, verifichi, riconosca gli errori e li dichiari apertamente. Un’AI destinata a diventare un partner epistemico della scienza, superando modelli come GPT-5 e Grok, e siglando una partnership strategica con Oracle per sfruttare un’infrastruttura cloud enterprise-grade, robusta e certificata.
Se pensavi che l’AI enterprise fosse solo un’altra moda, Oracle ti ha appena dimostrato che non hai capito nulla. L’annuncio della piena integrazione di GPT-5 nel suo portafoglio non è un comunicato qualsiasi, è una dichiarazione di guerra al concetto stesso di “software gestionale noioso”. Perché quando metti insieme Oracle Database 23ai, la macchina da guerra dei dati aziendali, con il modello più intelligente, rapido e flessibile mai prodotto da OpenAI, il risultato non è un aggiornamento di release, è un cambio di paradigma.
Nel panorama competitivo dell’innovazione enterprise, Oracle continua a dimostrare che il ruolo di fornitore cloud non è solo quello di ospitare dati, ma di orchestrare intelligenze artificiali capaci di trasformare interi flussi di lavoro. L’ultima mossa? Una partnership esplicita con Google Cloud che porta i modelli Gemini 2.5 direttamente all’interno dell’OCI Generative AI Service. In altre parole, Oracle non sta più semplicemente parlando di AI, la sta facendo diventare un braccio operativo delle imprese. Chi pensava che l’AI fosse un lusso per startup e laboratori di ricerca, ora si deve ricredere: l’agenda è enterprise, e il giocattolo si chiama Gemini.
Benvenuti nella nuova guerra fredda dei dati. L’annuncio di Oracle non è soltanto una dichiarazione tecnica, è un messaggio strategico lanciato al cuore pulsante del cloud globale: Oracle Globally Distributed Exadata Database su infrastruttura Exascale entra in scena con l’eleganza spietata di chi sa di poter cambiare le regole del gioco. Basta con i database patchwork, gli script di sincronizzazione scritti a notte fonda e le architetture Frankenstein costruite su più continenti con chewing gum e riti voodoo. Ora esiste un nuovo standard, un paradigma serverless e iperelastico che promette di distribuire, archiviare e sincronizzare dati su scala mondiale, come se fossero nello stesso rack.
Nel 2025 sviluppare intelligenza artificiale senza una strategia cloud ottimizzata è un po’ come voler costruire un reattore nucleare nel garage. Si può anche provarci, ma tra latenza, costi e hardware obsoleto, il risultato sarà più simile a un tostapane esplosivo. Per chi gioca sul serio, il cloud non è una scelta, è l’ossigeno. E in questa arena di colossi, Oracle Cloud Infrastructure si sta scrollando di dosso l’etichetta da outsider e sta iniziando a mordere davvero. Non perché lo dica Oracle. Ma perché i numeri lo urlano.
Una volta bastava il termine “ERP” per far sbadigliare un’intera stanza di CIO. Ora, però, pronunciare “Oracle” e “Agenti AI” nella stessa frase scatena reazioni più simili a quelle di una stanza piena di venture capitalist davanti a una pitch deck con la parola “autonomo”. C’è una ragione, e non è solo perché Larry Ellison ha deciso di salire a bordo del treno dell’intelligenza artificiale con la stessa delicatezza di un bulldozer in una galleria di cristalli. Oracle sta puntando dritto al cuore del futuro enterprise: una convergenza brutale tra automazione, dati strutturati, agenti intelligenti e architetture cloud distribuite, con una visione che sembra uscita da un film cyberpunk degli anni ’80, ma con margini EBITDA molto più alti.
La velocità non è più un’opzione. È una condizione necessaria, l’unico modo per restare aggrappati al bordo di un mondo che corre sempre più vicino alla velocità della luce, almeno in termini computazionali. La ricerca vettoriale AI non è più un concetto da laboratorio accademico. È il cuore pulsante di qualsiasi sistema che aspiri a comprendere, prevedere, raccomandare, dialogare. E come ogni cuore, ha bisogno di sangue. In questo caso, potenza di calcolo. Molta. Meglio ancora se distribuita e massivamente parallela. Ora, grazie all’integrazione tra Oracle Database 23ai e GPU NVIDIA, il sistema cardiovascolare dell’intelligenza artificiale generativa riceve una trasfusione ad alta intensità. E il battito accelera.
L’intelligenza artificiale si celebra da anni ai vertici delle conferenze, ma resta spesso bloccata nei corridoi del potere, promessa mai mantenuta. Oracle ha deciso di eliminare quell’ostacolo con Oracle AI Agent Studio per Fusion Apps, una piattaforma che non chiede permessi, non invade, ma agisce direttamente sui processi aziendali, gratis per chi già usa Fusion Cloud. È una rivoluzione silenziosa, archetipica, che trasforma le ambizioni AI in operazioni quotidiane.
Il capitalismo familiare americano non è morto, ha solo cambiato palco. Se qualcuno nutriva dubbi, Larry Ellison sta per offrirci la prova definitiva che il potere non si eredita semplicemente, si costruisce con colpi di scena degni di una sceneggiatura di Aaron Sorkin. L’ultimo atto? La acquisizione Paramount da parte di Skydance, sostenuta dal miliardario fondatore di Oracle, con il placet della Federal Communications Commission. Un affare da 8 miliardi di dollari che verrà chiuso il 7 agosto, con David Ellison, rampollo e aspirante magnate, promosso a CEO della nuova, gigantesca Paramount Global. Nella lista dei regali di compleanno paterni, un impero televisivo e cinematografico non è esattamente il classico Rolex d’oro.
L’epoca in cui bastava sfoggiare parole come “data-driven” o “AI-ready” in una presentazione è finita. O almeno dovrebbe esserlo, se l’industria tech vuole sopravvivere a se stessa. Perché l’intelligenza artificiale non è un incantesimo in Python o una demo brillante su GitHub: è una disciplina. E come ogni disciplina che si rispetti, ha bisogno di formazione, metodo e, soprattutto, certificazione di competenze reali. Da questa urgenza nasce la Race to Certification 2025, l’iniziativa globale di Oracle University che suona come una sfida ma agisce come una terapia d’urto per il mercato del lavoro IT.
Dimenticatevi i missili. Il nuovo arsenale globale si misura in supercomputer AI, e il campo di battaglia è un intreccio di GPU cluster brucianti megawatt e divoratori di miliardi. C’è qualcosa di quasi poetico, e insieme osceno, nell’immaginare questi colossi di silicio come i nuovi carri armati di un conflitto senza sangue ma spietato, dove il premio è il controllo della prossima intelligenza dominante. Chi vince, detta le regole. Chi perde, diventa cliente del vincitore.
Il re incontrastato oggi si chiama Colossus, ed è un mostro di proprietà di xAI. Duecentomila equivalenti di H100 Nvidia. Sì, avete letto bene. È come prendere un’intera popolazione di chip e costringerla a lavorare 24 ore su 24 per un unico scopo: addestrare cervelli artificiali che un giorno decideranno se abbiamo ancora bisogno di programmatori umani. Memphis, non la Silicon Valley, è la nuova capitale dell’intelligenza artificiale. Ironico, no? Una città più famosa per il blues e per Elvis che per la potenza di calcolo diventa l’epicentro del futuro digitale.
The Stargate Project è un colossale joint venture statunitense tra OpenAI, SoftBank, Oracle e il fondo emiratino MGX, annunciato ufficialmente il 21 gennaio 2025 alla Casa Bianca da Donald Trump. Il piano prevede un investimento fino a 500 miliardi di dollari in quattro anni, con un primo stanziamento immediato di 100 miliardi e la creazione di almeno 100 000 posti di lavoro in ambito costruttivo e operativo elettricisti, tecnici, operatori di impianti per garantire la supremazia americana nell’AI.
Nel 2025, parlare di intelligenza artificiale senza padroneggiarla è come presentarsi a una riunione del consiglio di amministrazione con una calcolatrice a manovella. L’intelligenza artificiale generativa ha smesso da tempo di essere un vezzo da laboratorio per diventare il cuore pulsante delle strategie aziendali più aggressive. Non è più una questione di “se” implementarla, ma di “quanto” velocemente sei in grado di farlo. Oracle lo sa bene, e non a caso ha aggiornato lacertificazione OCI Generative AI Professional per trasformarla da badge da LinkedIn a strumento di guerra competitivo.
Doveva essere morta. O quantomeno irrilevante. Una dinosauro della Silicon Valley che, come tanti altri prima di lei, aveva dominato un’epoca per poi farsi mettere all’angolo dall’ondata cloud capitanata dai soliti tre: Amazon, Google e Microsoft. Ma Oracle, si sa, è un animale strano. Non muore mai davvero. Sta zitta, fa le sue mosse, e poi rispunta fuori con qualcosa di enorme. Questa volta si chiama 30 miliardi di dollari in cloud computing da qui al 2028, ed è il biglietto da visita con cui ha appena chiesto un posto nel club esclusivo degli hyperscaler globali.
Sì, perché adesso c’è un quarto nome da aggiungere all’elenco dei dominatori del cloud. Lo ha detto Evercore ISI, non esattamente l’ultimo dei broker, mettendo Oracle sullo stesso piano di AWS, Google Cloud e Microsoft Azure. Fino a ieri sembrava una battuta. Oggi è una scommessa che inizia a sembrare dannatamente fondata, almeno per chi ha capito che il vero gioco non è solo lo storage o la scalabilità, ma la capacità di servire workload AI, sovrani, verticali, e mission-critical con una struttura che ha poco da invidiare a chi c’era prima.
Sorpresa. Non da poco, e non da tutti. Xiaomi, la multinazionale cinese delle meraviglie elettroniche, è appena entrata a gamba tesa nel mercato degli occhiali intelligenti. Un settore che molti definiscono ancora di nicchia, ma che in realtà è il nuovo terreno di scontro per chi vuole presidiare il futuro del computing personale. Una guerra silenziosa fatta di microchip, lenti e assistenti vocali, dove chi ha il controllo dell’ecosistema può riscrivere le regole del gioco. Sì, perché qui non si vendono solo gadget: si piantano bandiere nel campo minato dell’intelligenza artificiale indossabile.
Immaginate di poter mettere a bilancio i vostri sogni e ricevere un bonus fiscale per ogni buona intenzione. Adesso immaginate di essere Microsoft o Oracle, e che i vostri sogni coincidano con miliardi di dollari in spese di ricerca e data center. Voilà: benvenuti nella “One Big Beautiful Bill”, l’ultima trovata di Washington, che di bello ha soprattutto il modo in cui trasforma una riga di codice in una valanga di liquidità. Sì, perché mentre la maggior parte dei contribuenti continua a compilare moduli, certe aziende tech si preparano a incassare una delle più silenziose ma potenti redistribuzioni fiscali dell’era moderna.
Se la notizia ti è sfuggita, tranquillo: era sepolta nel solito mare di comunicati stampa, tweet entusiastici e titoloni da “rivoluzione imminente”. Ma vale la pena fermarsi un attimo. OpenAI, la creatura a trazione Microsoft che ormai più che un laboratorio di ricerca sembra una holding semi-governativa, affitta da Oracle qualcosa come 4.5 gigawatt di capacità di data center. Sì, gigawatt, non gigabyte. Un’unità di misura che evoca più una centrale nucleare che un cluster GPU. E in effetti è esattamente questo: Stargate non è solo un nome evocativo, è un progetto da 500 miliardi di dollari, con sede principale ad Abilene, Texas, e tentacoli infrastrutturali in mezzo continente. Il che, a pensarci bene, suona molto più simile a un’operazione geopolitica che a un’innovazione tecnologica.
Nel teatrino sempre più surreale della comunicazione finanziaria, Oracle ha appena alzato il sipario su uno dei suoi momenti più strani, più affascinanti e, a modo suo, più geniali. Mentre i competitor si arrampicano sugli specchi per strappare qualche menzione in un blog di settore, Larry Ellison & co. decidono che un colossale accordo cloud da oltre 30 miliardi di dollari l’anno non meriti un comunicato stampa, né una fanfara condita da parole chiave ridondanti come “AI-native” o “cloud-first architecture”.
No, loro lo infilano di soppiatto in un documento per la SEC, intitolato con sobria precisione “Regulation FD Disclosure”, senza nemmeno la voglia di inventarsi un nome altisonante e per chi si chiedesse cosa significhi tutto ciò: vuol dire che Oracle ha deciso di fare la rockstar in giacca e cravatta, suonando heavy metal in una riunione del consiglio d’amministrazione.
Benvenuti in questa nuova sezione di Rivista AI, dove ci immergiamo in un confronto diretto con i C-level delle imprese più innovative, per approfondire visioni strategiche, sfide del presente e prospettive future. Oggi abbiamo il piacere di presentare un’intervista esclusiva con Hammad Hussain Commercial e Technology Strategy Director di Oracle e Senior Director dell’EMEA Business AI Value Service team. In un mercato dove l’AI è spesso avvolta in un “mantra imprescindibile” e “promesse altisonanti”, Hammad Hussainsi distingue per la sua sincerità disarmante nel raccontare quanto sia difficile far comprendere il vero potenziale e le capacità reali dell’AI.
Il paradosso è evidente: Oracle ha reso i suoi prodotti AI “semplici, quasi banali da usare”, eppure “rendere semplice l’adozione resta una sfida”. Questo suggerisce che il vero ostacolo non è più la tecnologia in sé, che si è evoluta fino a essere incapsulata in interfacce user-friendly e automatizzate, bensì la “cultura e la strategia che ci stanno dietro”. L’AI è paragonabile a un “superpotere tecnologico che nessuno sa ancora bene come integrare nel proprio arsenale aziendale” senza il rischio che diventi un “semplice gadget costoso o una moda passeggera”.
Il team di AI Value Services ha un ruolo duplice e intrinsecamente pragmatico:
Educare e facilitare l’adozione: Aiutare i clienti a superare la diffidenza e l’incertezza che ancora permeano molti progetti AI.
Guidare strategicamente: Non si tratta più di “provare” o “sperimentare”, ma di “attivare” l’AI, una parola che suona più concreta e meno fumosa, e che è il segreto per superare le incertezze.
Questa visione si distingue per la capacità di Oracle di “tradurre la complessità in valore tangibile”, fungendo da “cuscinetto tra la promessa e la realtà” dell’AI. Hammad sottolinea che le “proposizioni che si vendono meglio” sono una naturale conseguenza di un lavoro che parte dall’interno dell’azienda e arriva ai clienti finali, creando un “circolo virtuoso in cui la conoscenza tecnica diventa leva di business e la strategia si nutre di feedback continui”.
La funzione di “facilitatore di adozione” sta diventando una figura chiave nell’economia digitale, un “ambasciatore tra due mondi”: quello della tecnologia pura e quello dell’impresa reale, con le sue resistenze e priorità.
L’obiettivo è trasformare questa “facilità” promessa in “risultati concreti, misurabili e soprattutto sostenibili nel tempo”, costruendo fiducia nella tecnologia e nel suo valore strategico. Il team incarna l’arte di “saper leggere, interpretare e soprattutto guidare il cambiamento”.
C’è un’aria di rivincita nell’aria. Dopo i riflettori puntati su OpenAI e i suoi tormenti da intelligenza artificiale cosciente e la offerta per il Pentagono, ecco che Oracle risale la scena con un annuncio tanto silenzioso quanto strategico. Nessuna coreografia in stile Silicon Valley, nessun CEO che filosofeggia sulla singolarità. Solo un prodotto, freddo, solido, brutale: Oracle Compute Cloud@Customer Isolated. Nome ostico, ma messaggio chiarissimo. Il cloud smette di essere un servizio e torna a essere infrastruttura. Anzi, fortezza.