Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

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Moratoria o morfina? Il tentativo Trumpiano di sedare l’AI con una legge che congela il futuro

Se volevate un esempio plastico del connubio perverso tra lobby, politica miope e Big Tech in cerca di deregulation, eccolo servito su piatto d’argento: un emendamento, sepolto nella finanziaria proposta da Donald Trump — il suo “big, beautiful bill” — che di fatto congela per dieci anni qualsiasi regolazione statale sull’intelligenza artificiale. Una mossa che ha più il sapore di una sabotaggio preventivo che di una visione strategica. Ma forse è proprio questo il punto: la strategia è uccidere il dibattito sul nascere, mentre si finge di attendere un’ipotetica, mai vista regolamentazione federale.

L’emendamento non si limita a fermare la corsa alla regolazione locale — la sola che negli ultimi anni abbia prodotto qualcosa di concreto — ma revoca retroattivamente anche quelle poche norme già esistenti. Uno stop totale, indeterminato e regressivo, imposto nel momento esatto in cui il settore AI accelera verso un’adozione massiva e incontrollata.

AI.gov o l’algoritmo dell’Impero: la Casa Bianca reinventa la burocrazia col GPT. Happy Uploading, America

Benvenuti nell’era in cui l’intelligenza artificiale sostituisce l’intelligenza istituzionale, e la democrazia si trasforma in un backend API-first. Non è un distopico racconto di Gibson né una bozza scartata di Black Mirror: è l’America del 2025, dove l’innovazione di governo si chiama AI.gov e parla fluentemente il linguaggio dei Large Language Models. La fonte? Il codice sorgente pubblicato su GitHub. E come sempre, il diavolo si nasconde nei commit.

L’amministrazione Trump, evidentemente non ancora sazia di plot twist tecnocratici, ha deciso di lanciare una piattaforma di intelligenza artificiale gestita dalla General Services Administration, guidata da Thomas Shedd, ex ingegnere Tesla e fedelissimo del culto eloniano. Un tecnico più affine al codice che alla Costituzione. Il sito AI.gov – attualmente mascherato da redirect alla Casa Bianca – è il punto focale di una nuova strategia: usare l’AI per “accelerare l’innovazione governativa”. La parola chiave, naturalmente, è “accelerare”, il verbo preferito da chi taglia, privatizza, automatizza.

Moratoria AI: il senato USA blocca le leggi locali e spalanca le porte a big tech

Una moratoria decennale sulle leggi statali in materia di intelligenza artificiale non è semplicemente una misura di buon senso burocratico. È, in realtà, una clava politica che rischia di tagliare fuori ogni tentativo locale di regolamentare un settore ormai centrale nella nostra vita quotidiana. I senatori repubblicani del Comitato Commercio, nella loro ultima versione del mega pacchetto di bilancio del presidente Donald Trump, hanno inserito proprio questo: un blocco alle normative statali sull’AI. Un regalo dorato a Big Tech, mascherato da protezione della crescita economica e competitività americana. E mentre chi lo difende parla di “semplificazione normativa”, un numero crescente di legislatori e associazioni civiche grida al disastro, vedendo all’orizzonte l’azzeramento delle tutele per consumatori, lavoratori e persino bambini.

Quando Elon morde Trump: il reality techno-pop che incendia Washington

È successo di nuovo. Un altro episodio del più grande reality americano, una tragicommedia di potere, ego e tweet: Elon Musk e Donald Trump, due poli magnetici del narcisismo contemporaneo, si sono scontrati in pubblico come due CEO con troppo tempo libero e un’ossessione condivisa per l’attenzione. Il loro litigio ha avuto il sapore di un wrestling elettorale tra chi vuole dominare Marte e chi ancora pensa di poter ri-conquistare Manhattan. Il risultato? Più fumo che fuoco, ma anche un riflettore impietoso acceso sul rapporto torbido tra la Silicon Valley e la nuova – o meglio, rinnovata – MAGAcronica amministrazione trumpiana.

Dominare l’intelligenza artificiale senza sicurezza: l’america secondo Trump

La notizia, se la si legge di fretta, pare una banale ristrutturazione burocratica: l’AI Safety Institute del Dipartimento del Commercio americano cambia nome e si trasforma nel Center for AI Standards and Innovation. Ma sotto questa vernice lessicale si cela una vera rivoluzione geopolitica mascherata da riforma amministrativa. Non è più questione di “sicurezza”, bensì di supremazia. E soprattutto: non è più una questione globale, ma eminentemente americana. “Dominanza sugli standard internazionali”, come ha dichiarato il Segretario al Commercio Howard Lutnick. Una frase che potrebbe uscire da un meeting di strategia militare più che da un piano di governance tecnologica.

Google sotto attacco: la fine del monopolio o solo un’altra mossa da teatro regolatorio?

Benvenuti nell’era in cui anche i dinosauri digitali iniziano a sudare freddo. No, non è un altro aggiornamento dell’algoritmo di ranking. È un giudice federale americano che, finalmente, sembra aver capito che Google non è solo un motore di ricerca. È il motore. Il telaio. Il carburante. E l’autista dell’intero veicolo informativo globale. Ma ora, proprio quel veicolo rischia di finire smontato pezzo per pezzo.

La keyword di oggi è: monopolio. Le secondarie? Google Chrome, AI generativa, distribuzione della ricerca. Il palcoscenico è quello della “remedies phase” del processo che vede Google accusata di aver mantenuto illegalmente il suo dominio nella ricerca online. Il giudice Amit Mehta, apparentemente afflitto da un raro rigurgito di pragmatismo, ha cominciato a mettere in discussione le proposte sul tavolo. E quando un giudice federale definisce la cessione di Chrome “più pulita ed elegante”, attenzione: il colosso sente davvero il terreno tremare sotto i piedi.

ChatGPT alla Casa Bianca: quando il declino della vita americana diventa un prompt mal formattato

Non è la sceneggiatura di una satira politica, è la realtà post-verità che ci meritiamo. Un documento federale la punta di lancia dell’iniziativa “Make America Healthy Again” (MAHA), voluta da Robert F. Kennedy Jr. è stato smascherato come un Frankenstein di fonti fasulle, link rotti e citazioni generate da intelligenza artificiale, con tutti gli errori tipici di una generazione automatica mal supervisionata. No, non è un errore di battitura umano: sono proprio quelle impronte digitali inconfondibili dell’AI, le oaicite, a tradire la genesi siliconica del documento.

La keyword è report MAHA, le secondarie ovvie: ChatGPT, declino dell’aspettativa di vita negli USA. Ma qui il problema non è solo tecnico, è ontologico. Se la verità ufficiale è un’illusione generata da un modello linguistico, cosa rimane della governance democratica? Un reality show scritto da algoritmi, supervisionato da stagisti?

Guerra fredda 2.0: chip, aerei e terre rare. Cronaca di un decoupling annunciato

Sotto la superficie diplomatica levigata dei colloqui di Ginevra, si consuma l’ennesimo atto del disaccoppiamento tecnologico tra Stati Uniti e Cina. Niente più sorrisi da foto opportunity, solo freddi fax del Dipartimento del Commercio americano. La Silicon Valley ha ricevuto l’ordine: smettere di esportare strumenti di Electronic Design Automation (EDA) a Pechino. Cadence, Synopsys, Siemens EDA: messi in riga, come scacchi sacrificabili sulla scacchiera geopolitica dei semiconduttori.

I colpi di scena non finiscono qui. La Casa Bianca ha anche messo in pausa alcune licenze concesse a fornitori americani per collaborare con COMAC, il Boeing cinese che sogna il decollo del C919, l’aereo destinato a spezzare il duopolio Airbus-Boeing. L’alibi? Le recenti restrizioni cinesi sulle esportazioni di terre rare. Il messaggio tra le righe: se ci provate con i minerali, noi chiudiamo i rubinetti dell’ingegneria.

Software vietato, chip castrati: l’America ha deciso di spegnere la Cina (e forse anche sé stessa)

La mossa è chirurgica, ma il bisturi è arrugginito e il paziente è globale. Gli Stati Uniti, ancora una volta, tirano il freno a mano sull’export tecnologico verso la Cina, questa volta colpendo il cuore invisibile dell’innovazione: l’Electronic Design Automation, EDA per gli adepti, il software che non costruisce chip, ma li rende possibili. Senza EDA, progettare semiconduttori diventa un’arte rupestre. Lo riferisce il Financial Times, sempre più simile a un bollettino di guerra commerciale piuttosto che a un quotidiano economico.

Ma andiamo con ordine, se ordine si può chiamare questa escalation da Guerra Fredda digitale. A partire da maggio 2025, ogni singolo byte di software EDA che voglia attraversare il Pacifico verso Pechino dovrà essere accompagnato da una licenza di esportazione concessa – o negata – dal Bureau of Industry and Security del Dipartimento del Commercio USA. E no, non si tratta più solo di tool per chip all’avanguardia: adesso il divieto si estende a tutta la linea di prodotti, dall’entry-level al bleeding edge. Anche i cacciaviti digitali sono considerati arma strategica.

Bitcoin come arma strategica: se Pechino la odia, Washington dovrebbe amarla

Là dove l’Impero Celeste chiude le porte, l’Impero dell’Ovest dovrebbe spalancarle. Non per amore della libertà — concetto vago e flessibile, soprattutto quando si parla di politica monetaria — ma per strategia, dominio tecnologico e quel sottile desiderio di mettere i bastoni tra le ruote a Xi Jinping. Così ha parlato il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance alla Bitcoin Conference di Las Vegas, senza troppi giri di parole: “La Cina odia Bitcoin. Noi, quindi, dovremmo abbracciarlo.”

Un pensiero semplice, quasi infantile nella sua linearità, eppure tremendamente efficace in termini geopolitici. Perché sì, la keyword è Bitcoin. E quelle che lo seguono da vicino sono asset strategico e riserva digitale. Il nuovo lessico del potere non parla più solo di missili ipersonici o porti militari in Africa, ma di nodi blockchain e SHA-256.

La guerra dei laboratori: perché gli Stati Uniti stanno silenziando la Cina anche nei test di smartphone e router

La censura digitale non passa più dalle bacheche dei social. Passa dai laboratori. Sì, quelli che certificano se il tuo prossimo smartphone non emette più radiazioni del consentito o se il baby monitor Wi-Fi non si trasforma in una porta d’accesso per hacker di Stato.

La Federal Communications Commission (FCC), in una mossa che sa di decoupling tecnologico al napalm, ha votato all’unanimità per squalificare i laboratori cinesi dal processo di autorizzazione dei dispositivi elettronici destinati al mercato statunitense. Tradotto: niente più bollini di conformità firmati da Pechino per cellulari, telecamere di sorveglianza, router e compagnia connessa.

Silicon Dune e la Trinità del Triliardo: l’Intelligenza Artificiale vende l’anima a Riyadh

Nel deserto saudita, dove un tempo si cercava l’acqua, oggi si trivella per qualcosa di molto più volatile: l’influenza tecnologica globale. E questa volta, non sono solo i soliti emiri a muovere il gioco, ma un tavolo imbandito con carne pesante: Amazon, OpenAI, NVIDIA, BlackRock e SpaceX. Tutti con i jet parcheggiati a Riyadh, stretti intorno a un Mohammed bin Salman che recita il ruolo di anfitrione post-petrolifero, mentre Donald Trump — l’uomo che vende i sogni come se fossero condomini a Las Vegas — rilancia con un piano da One Trillion Dollar Baby.

Copyrightpocalypse: come la guerra per l’AI sta cannibalizzando Washington

Elon Musk voleva mangiarsi la torta e farsela servire dal Congresso. Ma stavolta gli è rimasta di traverso. Il tentativo di prendere il controllo dell’Ufficio Copyright statunitense roba da nerd che scrivono documenti noiosi da 300 pagine che nessuno legge, ma che decidono il futuro dell’intelligenza artificiale si è trasformato in un boomerang politico, giuridico, e pure un po’ esistenziale. Una guerriglia tra oligarchi della Silicon Valley, populisti a caccia di vendette, e funzionari pubblici buttati giù dal treno in corsa senza biglietto di ritorno.

Europa che figura barbina

Un’altra volta ci siamo trovati nel mezzo dello scontro tra giganti, e no, non come protagonisti. Come comparsa malvestita sul set sbagliato. Mentre Stati Uniti e Cina giocano a Risiko commerciale lanciandosi tariffe come freccette ubriache al bar di fine serata, l’Europa resta ferma sullo sgabello a fissare il bicchiere vuoto, chiedendosi quando è successo che ha smesso di contare qualcosa.

Il punto non è che ci siano stati colloqui tra Washington e Pechino – quelli sono inevitabili, come i cerotti dopo le scazzottate. Il punto è come si sono chiusi. Gli USA, guidati dal solito Trump in modalità “Reality Show Diplomacy”, annunciano trionfi storici, tariffe dimezzate, vittorie strategiche. La Cina, dall’altra parte, non solo esce con un’economia più tutelata, ma soprattutto con un’immagine geopolitica rafforzata. E noi? Abbiamo commentato. Forse.

Google paga 1,375 miliardi per la privacy: un bel risarcimento per una causa già persa

Quando si parla di privacy, Google non è certo estraneo a sollevare polveroni, ma stavolta il gigante della Silicon Valley ha dovuto fare i conti con la giustizia texana. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha annunciato che Google ha accettato di sborsare ben 1,375 miliardi di dollari per risolvere una causa che l’accusava di violare la privacy dei dati dei propri utenti. Una somma che fa sembrare “piccolo” l’importo che ha dovuto pagare Meta lo scorso luglio, in un caso simile riguardante il riconoscimento facciale.

Chi siete? cosa portate? Ma quanti siete? Un fiorino! Il gioco dei dazi: una tregua di 90 giorni tra Stati Uniti e Cina, ma a quale prezzo?

L’accordo siglato lunedì tra Stati Uniti e Cina per sospendere la maggior parte dei dazi doganali reciproci per un periodo di 90 giorni ha suscitato una serie di reazioni, tra cui un sensibile rialzo dei mercati azionari. Il motivo di questo entusiasmo è chiaro: la speranza che l’allentamento delle tensioni commerciali tra le due potenze mondiali possa finalmente disinnescare una guerra commerciale che sembra non finire mai. Ma come spesso accade nelle trattative internazionali, dietro le promesse di una tregua ci sono sempre i soliti interrogativi. Vale la pena credere che questo accordo sia solo il primo passo verso una distensione reale, o si tratta di una mossa strategica per guadagnare tempo mentre entrambe le nazioni continuano a tessere le loro strategie sullo scacchiere globale?

Nvidia applaude la revoca delle restrizioni AI di Trump: opportunità o illusione?

Nvidia ha accolto con entusiasmo la decisione dell’amministrazione Trump di revocare la controversa “AI Diffusion Rule”, una normativa introdotta sotto l’amministrazione Biden che avrebbe limitato l’esportazione globale di chip AI avanzati. La mossa è stata salutata come una “opportunità irripetibile” per guidare la prossima rivoluzione industriale e creare posti di lavoro ben remunerati negli Stati Uniti .

Silicon Valley chiede regolamentazione morbida sull’AI: tra lobbying, geopolitica e interessi aziendali

Il 8 maggio 2025, il Senato degli Stati Uniti ha ospitato una delle udienze più significative dell’anno, con protagonisti i vertici di OpenAI, Microsoft, AMD e CoreWeave. L’obiettivo? Convincere i legislatori a adottare un approccio più “leggero” nella regolamentazione dell’intelligenza artificiale, evitando che norme troppo rigide possano ostacolare l’innovazione e compromettere la leadership tecnologica americana rispetto alla Cina.

Sam Altman ha partecipato a un’udienza presso la Commissione Commercio del Senato, dove ha testimoniato che imporre l’approvazione governativa prima del lancio di sistemi di intelligenza artificiale sarebbe “disastroso”.Alla domanda se l’autoregolamentazione fosse sufficiente, ha risposto: “Alcune politiche sono buone… [ma] è facile che vadano troppo oltre”.”Gli standard possono contribuire ad aumentare il tasso di innovazione, ma è importante che prima l’industria capisca quali dovrebbero essere”. VEDI notizia Washington Post

Effective Accelerationism, e/acc e Stato profondo: come DARPA, NSA e Pentagono usano la Silicon Valley per dominare il futuro

C’era una volta, in quella fiaba aziendalista chiamata Silicon Valley, una generazione di tecnologi illuminati che giuravano fedeltà al “lungotermismo”, quella nobile idea secondo cui l’umanità dovrebbe pensare in grande, guardare ai secoli futuri e proteggersi dai famigerati “rischi esistenziali” dell’intelligenza artificiale.

Sembrava quasi che ogni startupper con un conto miliardario si considerasse un custode della civiltà, intento a garantire che i robot non sterminassero i loro stessi creatori mentre sorseggiavano un matcha latte.

Anatomia dei primi 100 giorni di Trump: Groenlandia, dazi e autoritarismo

Nel suo ritorno alla Casa Bianca, Donald Trump ha rilanciato l’idea di un nuovo “Liberation Day”, una giornata simbolica per affrancare aziende e consumatori americani da quelli che definisce “trattamenti ingiusti” dei partner commerciali. Dietro la retorica nazionalista, però, si cela una strategia politica ed economica che rischia di riscrivere gli equilibri mondiali. Con una politica economica fondata su dazi aggressivi e una politica estera che strizza l’occhio all’espansionismo — dalle pretese sulla Groenlandia al controllo del Canale di Panama — Trump apre la strada a una nuova stagione di autoritarismo. Una stagione che potrebbe ispirare leader come Vladimir Putin in Ucraina, Xi Jinping su Taiwan e Benjamin Netanyahu in Medio Oriente, alimentando una destabilizzazione globale senza precedenti.

White Paper. Il nuovo disordine globale: Trump, la Cina e l’Intelligenza Artificiale alla conquista del futuro

Cento giorni fa, Donald Trump è tornato alla Casa Bianca con l’imponenza di un elefante in una cristalleria, pronto a ribaltare l’ordine mondiale che lui stesso aveva contribuito a plasmare. Con la promessa di un “Liberation Day”, ha dichiarato guerra ai suoi “cattivi partner commerciali” e ha sognato di annettersi territori che nemmeno il più sfrenato imperialismo avrebbe mai osato immaginare. Mentre Trump gioca a Risiko, il mondo risponde con una combinazione letale di panico, dazi e – ovviamente – intelligenza artificiale.

La rabbia algoritmica: quando l’intelligenza artificiale incontra la democrazia e viene accolta con forconi digitali

Comments Received in Response To: Request for Information on the Development of an Artificial Intelligence (AI) Action Plan (“Plan”)

La Casa Bianca ha appena scaricato online tutti i 10.068 commenti ricevuti durante la sua richiesta di informazioni per delineare un piano d’azione sull’intelligenza artificiale. Non stiamo parlando di una consultazione tra burocrati in tailleur e cravatta, ma di un autentico sfogo collettivo, una sorta di “confessione pubblica” sul futuro dell’umanità assistita da macchine.

Per chi non ha voglia di farsi una maratona da 10.000+ pareri pubblici (spoiler: nessuno ha voglia), è disponibile una dashboard con i riepiloghi generati da AI. Ironico, vero? L’AI che riassume le lamentele contro l’AI. Una distopia perfettamente autosufficiente.

Ma veniamo al punto. Il sentimento dominante è il disprezzo, con una punta di paranoia tecnofobica. Non si tratta solo di una manciata di boomer inferociti: è un fronte ampio, trasversale, che unisce utenti ordinari, attivisti, professionisti creativi, e pure qualche tecnologo pentito.

Bye Bye Cina? Welcome India Apple cambia pelle e riscrive la geopolitica del tech

Nel mondo dei colossi, dove ogni movimento strategico ha il peso di un’onda sismica, Apple sta tracciando una nuova rotta: addio (quasi) definitivo alla Cina come fabbrica globale degli iPhone destinati al mercato statunitense. Secondo il Financial Times, la Mela di Cupertino ha intenzione di spostare tutta la produzione degli iPhone venduti negli USA in India entro il 2026, con una prima milestone già nel 2025. Tradotto: oltre 60 milioni di pezzi l’anno, made in Bharat. Il tutto in risposta al deterioramento delle relazioni commerciali tra Washington e Pechino, in un gioco di tariffe, esenzioni temporanee e tensioni da guerra fredda versione 5G.

La mossa di Apple è figlia diretta del rischio di una tariffa del 125% sui prodotti cinesi ventilata da Donald Trump, oggi redivivo sul palcoscenico politico americano. Una misura che avrebbe reso l’importazione di iPhone prodotti in Cina un suicidio economico. Per ora, i telefoni cinesi sono colpiti da un dazio separato del 20%, mentre quelli fabbricati in India godono di una tariffa dimezzata, al 10%, fino a luglio. E se l’accordo commerciale con Nuova Delhi andrà in porto, il vantaggio fiscale potrebbe diventare permanente.

Trump e l’economia del disincanto: la luna di miele è finita, il conto arriva ora

La narrativa trionfale che ha accompagnato la rielezione di Donald Trump si sta sbriciolando sotto il peso delle aspettative mancate. L’ultimo sondaggio economico nazionale CNBC All-America fotografa un Paese più cupo, deluso e (cosa ancora più letale in politica) impaziente. Il consenso economico nei confronti del presidente ha toccato i livelli più bassi del suo secondo mandato, segnando un’inversione di rotta drammatica rispetto all’impennata di ottimismo che aveva accompagnato la sua riconferma. Con un approvazione economica al 43% e un netto 55% di disapprovazione, Trump entra ufficialmente nella zona rossa della fiducia pubblica, per la prima volta anche sul tema economico, da sempre il suo cavallo di battaglia.

Il dato più preoccupante per la Casa Bianca non è tanto la resistenza della base repubblicana, che regge, quanto la frattura profonda con gli indipendenti e l’ostilità feroce dei democratici. Tra questi ultimi, la disapprovazione netta sulle politiche economiche di Trump ha raggiunto il -90, un abisso politico mai visto nemmeno durante il primo mandato. E anche tra i lavoratori blue collar, una delle colonne portanti del trionfo trumpiano del 2024, il supporto mostra crepe evidenti: sì, ancora positivi nel complesso, ma con una crescita di 14 punti nei tassi di disapprovazione rispetto alla media del primo mandato. Il tempo della gratitudine è finito, ora si pretende il dividendo.

Panopticon AI: Google regala l’intelligenza artificiale agli studenti USA: carità strategica o cavallo di Troia accademico?

Quando un colosso come Google inizia a regalare qualcosa, è il momento di preoccuparsi. A partire da oggi, gli studenti universitari negli Stati Uniti possono accedere gratuitamente al piano Google One AI Premium, un servizio normalmente venduto a 20 dollari al mese, fino al 30 giugno 2026. Una mossa che suona tanto come beneficenza digitale, ma che odora pesantemente di colonizzazione dell’ambiente accademico.

Per aderire, basta iscriversi entro il 30 giugno 2025 usando un’email .edu, cioè l’equivalente tecnologico del lascia passare imperiale nel mondo universitario americano. Google, bontà sua, promette anche di avvisare via email prima della scadenza, così gli studenti potranno “cancellare in tempo”. L’intenzione dichiarata? Aiutare gli studenti a “studiare in modo più intelligente”. L’intenzione reale? Intrappolarli nel proprio ecosistema prima che imparino a leggere la concorrenza.

La nuova guerra digitale tra banche e deepfake: la Fed rispolvera l’intelligenza artificiale

La dichiarazione di Michael Barr, Governatore della Federal Reserve, non è passata inosservata. In un mondo dove la minaccia non ha più un volto ma un algoritmo, Barr ha lanciato un appello ai banchieri: svegliatevi, abbracciate l’intelligenza artificiale o sarete carne da macello per i nuovi truffatori digitali.

Nel suo intervento alla Federal Reserve Bank di New York, Barr ha tracciato un quadro che definire allarmante è poco. Le tecnologie deepfake quelle meraviglie del diavolo capaci di replicare perfettamente volto, voce e movimenti di una persona reale non sono più una curiosità accademica o uno scherzo da social. Sono armi. E come ogni arma che si rispetti, puntano dritte al cuore: le identità bancarie.

Trump valuta da mesi la rimozione di Powell: una mossa che potrebbe far crollare i mercati, secondo Warren

Donald Trump, nell’ombra e senza fanfare, starebbe da mesi vagliando l’idea di far fuori Jerome Powell, l’attuale presidente della Federal Reserve. Nessuna dichiarazione ufficiale, solo il classico gioco di sussurri e voci filtrate da ambienti “vicini ai fatti” la liturgia consolidata del potere quando vuole testare la temperatura dell’acqua senza sporcarsi le mani. Ma la temperatura, stavolta, rischia di bollire tutto.

L’ex presidente, che già in passato ha più volte criticato Powell per la sua gestione dei tassi d’interesse, ora sembra pronto ad affondare il colpo qualora tornasse alla Casa Bianca nel 2025. La sua antipatia nei confronti del numero uno della Fed non è una novità. Trump voleva tassi a zero, o meglio negativi, in pieno stile giapponese-decadente. Powell, invece, ha resistito – almeno quanto ha potuto –alla tentazione di trasformare la politica monetaria americana in un casino di Las Vegas. E questo, a Trump, non è mai andato giù.

Trump rilancia i dazi e affonda i chip: 1 miliardo di dollari in fumo per l’industria americana

Se c’è una costante nella geopolitica economica degli Stati Uniti targati Trump, è questa: ogni volta che si alza una barriera doganale per punire la Cina, qualcuno in California piange. E ora a piangere, con le tasche alleggerite di almeno un miliardo di dollari l’anno, sono proprio i colossi dell’industria dei semiconduttori americana. Applied Materials, Lam Research, KLA, e i player minori come Onto Innovation stanno facendo i conti non con i margini, ma con l’ascia di un protezionismo miope che rischia di segare il ramo su cui l’America tecnologica è seduta.

Secondo quanto riportato da Reuters, le tre principali aziende statunitensi produttrici di apparecchiature per semiconduttori stanno ciascuna fronteggiando perdite stimate attorno ai 350 milioni di dollari l’anno. Non a causa di un crollo della domanda, ma per le tariffe doganali decise dal solito zelo patriottico di Washington, in versione campagna elettorale. Onto Innovation, meno nota ma comunque presente nella supply chain globale, rischia perdite nell’ordine delle decine di milioni. Bruscolini, certo, ma solo per chi non lavora nell’azienda.

Eric Schmidt serve più energia o più cervello?

A Washington si è celebrata l’ennesima seduta teatrale mascherata da audizione congressuale, dove il sipario si è alzato su un paradosso tutto americano: per dominare il futuro dell’intelligenza artificiale, bisogna consumare il passato dell’energia. Una corsa al primato tecnologico che brucia elettricità come se fosse carbone dell’Ottocento, mentre la questione climatica viene elegantemente ignorata come un cameriere troppo zelante a un gala di miliardari.

Eric Schmidt, ex CEO di Google e oggi nuovo profeta dell’IA sotto le vesti del suo think tank “Special Competitive Studies Project”, ha scodellato la nuova verità: “Abbiamo bisogno di energia in tutte le forme, rinnovabili o meno, subito e ovunque”. Una chiamata alle armi energetica che sa tanto di manifesto industriale più che di politica nazionale.

Durante l’audizione della Commissione Energia e Commercio della Camera, la parola d’ordine è stata una sola: “dominanza”. Dominanza sull’energia. Dominanza sull’IA. Dominanza sulla Cina. E se per raggiungerla bisogna mettere in pausa il pianeta, pazienza. Quattro ore di interventi bipartisan dove repubblicani e democratici si sono annusati e ignorati a turno, uniti da un’ansia esistenziale: perdere la corsa contro Pechino.

I senatori repubblicani chiedono abrogazione dell’AI Diffusion Rule

Il 14 aprile 2025, sette senatori repubblicani hanno inviato una lettera al Segretario al Commercio Howard Lutnick, chiedendo l’abrogazione della “AI Diffusion Rule“, una normativa introdotta dall’amministrazione Biden che limita l’esportazione globale di chip per l’intelligenza artificiale.

Secondo i senatori, questa regola potrebbe danneggiare la leadership degli Stati Uniti nel settore dell’IA, creando incertezza per le aziende americane e ostacolando gli investimenti e le partnership tecnologiche globali. La normativa classifica i paesi in tre livelli, con solo 18 nazioni che godono di un accesso facilitato alla tecnologia americana, mentre la maggior parte, inclusi alleati come Israele, affronta restrizioni significative.

I senatori avvertono che tali limitazioni potrebbero spingere i paesi del secondo livello a rivolgersi a soluzioni cinesi, indebolendo l’influenza tecnologica degli Stati Uniti. Microsoft ha espresso preoccupazioni simili, affermando che la regola potrebbe dare alla Cina un vantaggio strategico nella diffusione della propria tecnologia IA.

Il Segretario Lutnick ha dichiarato che è necessario impedire alla Cina di utilizzare la tecnologia americana per costruire i propri sistemi IA. La questione evidenzia le divisioni interne al Partito Repubblicano su come gestire le esportazioni tecnologiche in un contesto di crescente competizione con la Cina.

La nuova trovata: Tariffe settoriali e paranoia industriale, la crociata di Trump contro l’Asia tech

Benvenuti nel nuovo episodio della soap opera Tariff Wars: Made in America, dove ogni giorno è una roulette russa per le supply chain globali. Howard Lutnick, Segretario al Commercio USA e fedele araldo del trumpismo 2.0, ha rivelato in un’intervista alla ABC che l’amministrazione ha deciso di separare i destini tariffari dei prodotti tech – smartphone, computer, semiconduttori e altra elettronica di prima fascia – da quelli soggetti ai dazi “reciproci” annunciati ad aprile. Ora, questi prodotti rientreranno sotto una nuova categoria: le “tariffe settoriali”.

Pechino suona la carica, Li Qiang a Ursula von der Leyen : “abbiamo gli strumenti per resistere alla guerra commerciale di Trump”

Nel teatro sempre più grottesco dell’economia globale, dove le regole del gioco sembrano essere scritte con l’inchiostro simpatico dell’interesse nazionale americano, la Cina ha deciso di mostrare i muscoli ma con il guanto bianco della diplomazia. Li Qiang, Premier della Repubblica Popolare, ha alzato la cornetta e parlato con Ursula von der Leyen per recitare un copione che sa di calma glaciale e determinazione sistemica: “abbiamo abbastanza strumenti politici in riserva” e “siamo pienamente in grado di contrastare gli shock esterni”.

Tradotto dal mandarino: Trump può pure giocare a Risiko con i dazi, noi giochiamo a Go con decenni di pianificazione centralizzata. Il messaggio è chiaro, e non è solo per l’Europa: Pechino non ha intenzione di piegarsi alla nuova ondata protezionistica partorita dalla Casa Bianca. Anzi, rilancia con il solito mantra del “difendere l’equità internazionale” un concetto che fa sorridere se pronunciato da un Paese che tiene in piedi il più sofisticato sistema di capitalismo di Stato mai concepito.

Trump rilancia la guerra fredda del Pacifico: un trilione di dollari, dazi al 125% e una strategia che puzza di guerra commerciale più che di deterrenza

Benvenuti nell’era del trilione di dollari. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca come un fantasma che non vuole saperne di restare nel passato, ha promesso – con l’immancabile petto gonfio da comandante in capo – un budget per la difesa da 1.000 miliardi di dollari. Una cifra colossale, mai vista prima, che rappresenta un incremento vertiginoso rispetto agli 892 miliardi appena approvati per il 2024. E mentre a Washington tagliano a colpi d’accetta tutto ciò che non sa di guerra, Trump e il nuovo Segretario alla Difesa Pete Hegseth piazzano il pentolone bollente della deterrenza sul fornello dell’Indo-Pacifico. Il messaggio è chiaro, urlato con il solito megafono mediatico: la Cina è il nemico designato, e bisogna spendere per stare al passo.

La guerra dei dazi tecnologici 125%: perché Apple e Nvidia non bastano a salvarci dal disastro annunciato

Un caffè al Bar dei Daini

Nel bel mezzo di un tracollo globale dei mercati, Donald Trump – con la consueta teatralità da venditore di padelle –ha annunciato un aumento vertiginoso delle tariffe sulle importazioni dalla Cina, portandole al 125%. Un colpo secco e clamoroso, mentre concedeva una “pausa” di 90 giorni ai dazi punitivi diretti alla maggior parte delle altre nazioni. Il messaggio è chiaro: il bersaglio ora è unico, si chiama Pechino. Tutti gli altri, per ora, respirano.

A sentirlo parlare, sembra che 75 paesi gli abbiano implorato di fare un accordo. E come al solito, il presidente americano si mette in posa da macho solitario con l’istinto infallibile: “China wants to make a deal… but they don’t quite know how.” Una frase che suona più da psicoanalisi per popoli fieri che da geopolitica. Ma il sottotesto è semplice: Xi Jinping, sei nel mirino, fatti vivo.

La retorica, degna di una campagna elettorale permanente, si traduce in una nuova escalation: dazi cumulativi del 125% contro Pechino, mentre la Cina risponde immediatamente con un +50% su tutte le importazioni americane. Non esattamente il clima ideale per una distensione commerciale, ma in Borsa, si sa, basta poco per riaccendere l’euforia. L’S&P 500 rimbalza fino all’8% dopo quattro sedute da incubo. L’isteria algoritmica vince ancora.

Dietro le quinte, tuttavia, regna l’ambiguità. La pausa concessa agli “altri” resta avvolta nella nebbia. Perché anche l’Unione Europea – che nel frattempo ha imposto ritorsioni – viene inclusa nella moratoria? Mistero. Nessuna risposta chiara, solo l’ennesimo “go with the gut” di Trump. Un approccio che definire artigianale è un eufemismo: “Non puoi fare i conti con la matita, è questione d’istinto.” Una filosofia gestionale da poker texano con le economie globali come posta sul tavolo.

Intanto, i suoi fedelissimi cercano di riscrivere la narrativa: le tariffe non sono una reazione alla caduta dei mercati, ma una strategia pianificata. “Trump ha provocato la Cina a scoprirsi,” dice il Tesoro. Che in pratica è come dire: abbiamo fatto tiltare Pechino e ora il mondo sa chi è il cattivo. Un po’ troppo comodo, forse.

Mentre si aprono nuovi tavoli di trattativa – con Vietnam e Giappone pronti a mandare “deal teams” –la Casa Bianca manda un messaggio al mondo: chi non ha risposto con ritorsioni sarà trattato con clemenza. Ma resta la domanda su quanto durerà la luna di miele. Perché dietro l’apparente trionfalismo si intravede il solito schema trumpiano: creare il caos, attendere il panico, poi offrire la via d’uscita.

Daniel Russel, ex Consiglio per la Sicurezza Nazionale con Obama, fotografa il paradosso: “Il bersaglio è solo la Cina, ma i continui zigzag creano un’incertezza tossica per aziende e governi.” Ecco il problema: l’unilateralismo tattico senza una visione strategica di lungo termine. Pechino, secondo Russel, non cederà. Aspetterà che Trump si spinga troppo oltre, poi agirà. Perché a concedere si rischia di perdere, e Xi non è tipo da perdere la faccia.

La sensazione? Che questa sia solo la prima stagione di una lunga serie. Una fiction politico-commerciale a metà tra House of Cards e Succession, dove l’unica costante è il protagonismo compulsivo di un presidente che confonde la diplomazia con la roulette russa. Con una differenza: qui non si gioca con i gettoni, ma con l’equilibrio dell’economia mondiale.

Nel nome della sovranità commerciale e di un nazionalismo economico che ormai puzza di muffa, l’amministrazione Trump ha appena scatenato l’ennesima bomba atomica sul fragile equilibrio del mercato tecnologico globale. Un colpo da 104% in pieno volto alla Cina, con tariffe che sembrano uscite da un manuale di autodistruzione economica, ha riacceso le fiamme di una guerra commerciale che tutti fingevano dimenticata ma che, a quanto pare, era solo sopita.

Il contraccolpo è immediato, sistemico, e francamente prevedibile. La risposta di Pechino arriva puntuale come un razzo ipersonico: 84% di dazi sui prodotti americani. Benvenuti nel 2025, dove la globalizzazione è un ricordo vintage e la filiera tecnologica globale è diventata un campo minato geopolitico. Wedbush, attraverso la voce – sempre pessimista quanto realista – di Daniel Ives, non ha nemmeno bisogno di analizzare troppo: i tech non forniranno guidance. Nessuno sano di mente si azzarda a proiettare numeri nel caos. Apple inclusa.

L’imprenditore che voleva la Luna: Jared Isaacman pronto a conquistare la NASA

La prossima settimana si consumerà un siparietto degno di un copione hollywoodiano scritto tra una conference call di SpaceX e un cocktail con Raytheon: Jared Isaacman, il miliardario con la passione per le acrobazie spaziali e i bilanci in ordine, si presenterà al Senato per una delle audizioni più delicate degli ultimi anni. Non come testimone, ma come protagonista. Al centro del palcoscenico politico-tecnocratico, Isaacman si prepara ad affrontare la Commissione per il commercio, la scienza e i trasporti del Senato per difendere la sua candidatura a nuovo amministratore della NASA.

Senatori USA nel mirino: Microsoft e Google sotto accusa per accordi nell’IA

Nel panorama tecnologico odierno, le alleanze strategiche tra giganti del settore e startup emergenti nel campo dell’intelligenza artificiale (IA) sono diventate pratica comune. Tuttavia, queste mosse non sono passate inosservate agli occhi vigili dei legislatori statunitensi. I senatori democratici Elizabeth Warren e Ron Wyden hanno recentemente sollevato preoccupazioni riguardo alle partnership tra Microsoft e OpenAI, nonché tra Google e Anthropic, temendo che tali accordi possano soffocare la concorrenza e limitare le scelte dei consumatori. ​

In lettere indirizzate alle due colossali aziende tecnologiche, i senatori hanno richiesto dettagli sui termini finanziari e sulle clausole di esclusività di queste collaborazioni. La loro apprensione principale è che tali alleanze possano consolidare il potere di mercato delle grandi aziende, soffocando l’innovazione e portando a prezzi più elevati per i consumatori. Inoltre, hanno sollevato interrogativi sulla possibilità che Microsoft e Google intendano acquisire i loro partner nell’IA, trasformando queste partnership in vere e proprie fusioni mascherate.

Elon musk e la nuova API della discordia: DOGE, IRS e il sogno (impossibile) del cloud fiscale

Se pensavi che la commedia tra Silicon Valley e Washington avesse già raggiunto il suo apice, preparati a un nuovo atto. Questa volta il palco è l’Internal Revenue Service, l’orchestra è un improvvisato dream team di tech bros sotto il cappello pomposamente distopico del Department of Government Efficiency – acronimo volutamente canino: DOGE – e il regista, ça va sans dire, è Elon Musk, o meglio il suo ennesimo braccio operativo non ufficiale.

Secondo quanto riportato da Wired, DOGE starebbe organizzando un hackathon a Washington la prossima settimana, con l’obiettivo di costruire una “mega API” capace di accedere ai dati del fisco americano e migrarli in cloud. Quale cloud? Mistero. Si parla, inquietantemente, anche di provider terzi come Palantir, nome che evoca scenari più da “Minority Report” che da modernizzazione digitale. In teoria, questo mega-API dovrebbe diventare il “read center” per i sistemi dell’IRS: in pratica, un accesso centralizzato e trasversale ai dati fiscali dell’intera popolazione statunitense.

Scott Bessent e il ruolo dell’intelligenza artificiale di DeepSeek nel crollo dei mercati: un’analisi della situazione economica globale

Il mercato azionario mondiale sta attraversando una fase di turbolenza che ha attirato l’attenzione di molti osservatori, in particolare a causa della continua discesa dei principali indici. Tuttavia, mentre la narrativa prevalente suggerisce che le politiche economiche di Donald Trump siano la causa principale di questo calo, Scott Bessent, segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha lanciato una visione contrastante, suggerendo che il vero fattore scatenante del crollo possa essere l’emergere di DeepSeek, un avanzato strumento di intelligenza artificiale sviluppato in Cina.

Bessent, intervistato da Tucker Carlson su Fox News, ha fatto un’affermazione provocatoria, chiarendo che la discesa dei mercati è iniziata ben prima dell’intensificarsi delle politiche tariffarie di Trump. Secondo lui, il vero catalizzatore del calo sarebbe stato l’annuncio del lancio di DeepSeek, l’innovativo modello di intelligenza artificiale cinese, che ha scosso i mercati globali con una potenza dirompente.

Banche e fintech: amore e guerra nell’era dell’AI generativa, parola della Fed Michael Barr

Jerome Powell sta in silenzio, ma Michael Barr, il vice presidente della Federal Reserve per la supervisione bancaria, parla. E quando parla, non lo fa per riempire d’aria le sale di conferenze. Nel suo intervento di ieri, ha lanciato un segnale inequivocabile: banche e fintech non solo dovranno convivere nel campo dell’intelligenza artificiale generativa, ma saranno costrette a una danza fatta di competizione spietata e cooperazione strategica. Una convivenza forzata tra il lupo di Wall Street e la startup con la felpa di Stanford.

Trump scatena una guerra commerciale sui chip: tariffe record su Cina, Taiwan e Giappone

L’America torna grande. O almeno così dice Donald Trump, che ha annunciato l’introduzione di tariffe reciproche devastanti sui principali attori della catena di approvvigionamento dei semiconduttori. Cina colpita con un 34%, Taiwan con un 32% e il Giappone con un 24%. Un colpo diretto al cuore dell’industria tecnologica globale, con effetti immediati sui mercati finanziari e sull’intero ecosistema dei semiconduttori.

Dal Rose Garden della Casa Bianca, Trump ha proclamato quello che ha definito “il giorno della liberazione economica dell’America”, firmando un ordine esecutivo che introduce le nuove tariffe con un tono da crociata economica: “Abbiamo aspettato troppo a lungo… Oggi è il giorno in cui rendiamo l’America di nuovo ricca.” La strategia? Costringere le aziende tecnologiche a riportare la produzione in casa, evitando così i dazi.

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