Benvenuti nel nuovo Rinascimento digitale, dove i regni non sono più di pietra ma di silicio, e i feudatari si chiamano Amazon, Google, Microsoft. Con una mossa da 10 miliardi di dollari, Amazon ha piazzato la sua bandiera nel cuore della North Carolina, trasformando Richmond County in un futuro snodo neurale dell’intelligenza artificiale globale. Non si tratta di una semplice espansione di data center: è la costruzione fisica dell’infrastruttura su cui poggerà il prossimo secolo di innovazione tecnologica.

Altro che biblioteche di Alessandria: qui si parla di nodi quantistici, flussi neuronali sintetici, e potenza computazionale su scala da guerra stellare. E se la notizia delle centinaia di posti di lavoro “altamente qualificati” ti fa pensare a un’economia locale rinvigorita, stai guardando solo la superficie. Sotto la vernice PR c’è un messaggio meno rassicurante: il futuro dell’AI appartiene a chi può permettersi di comprarlo.

È un investimento storico, lo ha detto il governatore Josh Stein. Certo, se per storico si intende un ulteriore capitolo della privatizzazione delle fondamenta digitali del mondo. E Amazon, per non lasciare dubbi sul suo intento neofeudale, ha pure lanciato un “Community Fund” da 150.000 dollari – una mancia in confronto ai miliardi stanziati – per addolcire l’impatto sociale. In cambio? L’accesso preferenziale alle menti STEM locali, modellate secondo le esigenze della nuova aristocrazia computazionale.

Mentre l’azienda si espande nelle campagne della Carolina con bulldozer e GPU, a San Francisco va in scena una pantomima che sembra scritta da Asimov in trip da caffeina: un “parco umanoide” dove robot dotati di intelligenza artificiale si allenano in un’area test indoor per imparare a consegnare pacchi. Avete presente l’arena dei gladiatori? Solo che qui a lottare ci sono androidi e algoritmi, e l’imperatore si chiama Jeff Bezos.

Per ora si parla di hardware di terze parti, ma non illudetevi: è solo la fase beta. Amazon non entrerà nel mondo dei robot come comparsa. L’obiettivo non è solo “fare delivery”, ma reingegnerizzare la logistica, sradicando il lavoro umano dalle sue fondamenta. Non è più questione di automazione industriale. Qui si punta alla sostituzione antropologica. Sì, la fantascienza è arrivata: solo che la chiamano business model.

L’esperto Leo Fan, fondatore della Cysic – una startup che cerca disperatamente di democratizzare l’AI su blockchain – ha espresso quello che molti pensano ma pochi osano dire: 10 miliardi sono un segnale chiarissimo che l’innovazione AI sta diventando una prerogativa aristocratica. Le barriere d’ingresso sono troppo alte. Chi non ha le chiavi di accesso alla potenza computazionale resta fuori dal gioco. Tradotto: la rivoluzione dell’intelligenza artificiale sarà finanziata da Big Tech, scritta da Big Tech, e usata da Big Tech. Gli altri? Semplici utenti, spettatori, o peggio: dati grezzi.

“È positivo per l’economia”, ci dicono. Certo, come lo erano le colonie per l’Impero Britannico. Ma qui non si esportano merci, si esporta infrastruttura cognitiva. Amazon non si limita a distribuire server e cavi: costruisce un nuovo tipo di supremazia. Ed è difficile non vedere il parallelo con ciò che sta facendo nello spazio: i suoi satelliti Kuiper, da poco lanciati, rappresentano la versione orbitale di questa strategia. Terra e cielo, fibra e laser, tutto connesso, tutto Amazon.

Nel frattempo, Alexa+ — la nuova versione “generativa” dell’assistente vocale — è in rollout limitato, finalmente resa “conversazionale e consapevole del contesto”. L’obiettivo dichiarato? Farla parlare come noi. L’obiettivo reale? Farci parlare come lei. Non è solo una questione tecnica, è una strategia culturale. E infatti, quale partnership sigla Amazon per addestrare i suoi modelli? Un contratto con il New York Times, così che anche le nostre notizie, le nostre ricette, persino i risultati sportivi, siano integrati in questa nuova intelligenza conversazionale, alimentando il suo modello linguistico. Come dire: oltre a dominare il cloud, domineranno anche il discorso.

C’è qualcosa di profondamente inquietante in tutto questo. Non perché le tecnologie non siano straordinarie. Lo sono, e vanno sviluppate. Ma perché si stanno sviluppando dentro recinti privati, con gatekeeper che dettano le regole del gioco, e senza una vera strategia pubblica per garantire equità nell’accesso alle risorse cognitive di domani.

La metafora della “Silicon Valley feudale” non è più una provocazione da editorialista nichilista. È la descrizione più fedele di ciò che sta accadendo. La differenza? Qui non ci sono spade, ma chip da 5nm. E le guerre si combattono a colpi di TeraFLOPS.

“Chi controlla l’infrastruttura, controlla l’intelligenza.” È una legge della fisica economica. E Amazon ha appena costruito un acceleratore di particelle cognitivo da 10 miliardi di dollari in North Carolina. C’è da chiedersi quanto tempo ci vorrà prima che tutto il resto del mondo digitale venga risucchiato nella sua orbita.