Commissione Europea “A European Strategy on Research and Technology Infrastructures” (COM(2025)497)


C’è un’Europa che non finisce nei corridoi di Bruxelles, ma che si misura in cleanroom, laboratori quantistici e telescopi sottomarini. È l’Europa delle infrastrutture di ricerca e tecnologia, il vero motore silenzioso della competitività continentale. Mentre le potenze globali si chiudono in nazionalismi tecnologici e filiere proprietarie, la Commissione Europea ha deciso di rispondere con una strategia che suona come una dichiarazione di guerra industriale: costruire la più potente rete di infrastrutture di ricerca e tecnologia del pianeta. Non per vantarsi, ma per sopravvivere.

La nuova strategia europea sulla ricerca e la tecnologia presentata nel settembre 2025 rappresenta la più ambiziosa visione di lungo periodo mai scritta per il sistema dell’innovazione europeo. Non parla di bandi o acronimi, ma di potere. Potere scientifico, tecnologico e geopolitico. In un mondo in cui i dati e i semiconduttori valgono più del petrolio, Bruxelles tenta di orchestrare la sinfonia più complessa mai suonata da ventisette stati che raramente vanno a tempo.

Il punto di partenza è brutale: senza un salto di scala negli investimenti e nella coesione delle infrastrutture di ricerca, l’Europa perderà la partita. Non basteranno i laboratori sparsi in Francia, i centri di calcolo tedeschi o i test bed olandesi. Serve una rete unificata, interoperabile e accessibile, capace di far lavorare insieme chi genera conoscenza e chi la trasforma in innovazione industriale. La Commissione chiama questo “approccio olistico”, ma la traduzione economica è chiara: se non costruiamo infrastrutture integrate, costruiranno altri la nostra dipendenza.

La strategia europea sulla ricerca e la tecnologia è anche un esercizio di ingegneria politica. Per la prima volta si parla di una “quinta libertà” del mercato unico, quella della libera circolazione di ricercatori, conoscenza e tecnologia. Un concetto che fa sorridere chi vive la burocrazia dei programmi europei, ma che disegna un’idea radicale di Europa come ecosistema scientifico senza confini. La retorica suona ambiziosa, ma sotto c’è un messaggio più tagliente: l’Unione vuole trasformarsi da finanziatore a regista dell’innovazione.

Il documento introduce una distinzione cruciale tra infrastrutture di ricerca e infrastrutture tecnologiche. Le prime generano dati e scienza pura, le seconde li trasformano in prodotti, prototipi e standard industriali. Il problema è che la mappa europea delle infrastrutture tecnologiche è oggi un mosaico caotico: oltre il 50% delle strutture di clean e renewable energy è concentrato in quattro paesi, lasciando vuoti enormi nei Balcani, in Europa orientale e perfino nel Mediterraneo. L’effetto? Un’Europa dell’innovazione a due velocità.

L’obiettivo dichiarato è colmare questo divario, ma anche consolidare la sovranità tecnologica europea. Bruxelles non usa toni da falco, ma la logica è quella della guerra economica: il controllo delle infrastrutture di test, validazione e produzione pilota è l’unica via per non dipendere da giganti extraeuropei. Per dirla brutalmente, chi controlla i laboratori controlla l’innovazione.

Il piano è costruito su cinque pilastri. Il primo è l’aumento massiccio delle capacità e degli investimenti. Il Draghi Report e il gruppo di esperti “Align, Act, Accelerate” lo hanno già detto: senza un’iniezione di capitali mai vista, l’Europa resterà un museo della scienza, non un laboratorio del futuro. Si parla di 13-16 miliardi di euro di investimenti in infrastrutture tecnologiche entro il 2030, solo per colmare i gap più urgenti in semiconduttori, energia pulita, intelligenza artificiale e materiali avanzati. Numeri impressionanti, ma ancora lontani dai livelli di spesa statunitensi o cinesi.

Il secondo pilastro è la digitalizzazione estrema. Il cuore di questa trasformazione si chiama EOSC, la European Open Science Cloud, una sorta di “cloud sovrano” per la ricerca e l’innovazione. L’idea è creare un unico spazio europeo dei dati dove scienziati e imprese possano condividere, riutilizzare e modellare informazioni secondo i principi FAIR. È un progetto visionario che, se realizzato, potrebbe cambiare per sempre il modo in cui l’Europa produce conoscenza, rendendola AI-ready, cioè pronta per essere trasformata in modelli predittivi e applicazioni intelligenti.

Il terzo pilastro riguarda l’accessibilità. Oggi, paradossalmente, molti dei migliori laboratori europei sono off-limits per le startup o le PMI, soffocati da barriere amministrative, costi o semplice invisibilità. La Commissione vuole un “one-stop-shop” per accedere alle infrastrutture, un portale unico dove prenotare un esperimento come si prenota un volo. È la logica del marketplace applicata alla scienza. Una promessa ambiziosa, ma essenziale se l’Europa vuole davvero trasformare i suoi laboratori in acceleratori di mercato e non in monumenti al finanziamento pubblico.

Il quarto pilastro è la questione del talento. Non basta costruire infrastrutture, servono persone capaci di usarle. L’Europa forma ottimi ricercatori, ma fatica a trattenerli. La strategia propone una serie di misure per attrarre competenze globali, integrando il programma Choose Europe e rilanciando la formazione manageriale per chi guida le infrastrutture. È un modo elegante per dire che servono meno burocrati e più imprenditori scientifici.

Il quinto pilastro, forse il più politico, è la governance. Per la prima volta Bruxelles propone un quadro di coordinamento unico per le infrastrutture di ricerca e tecnologia, qualcosa di simile a un “ministero europeo dell’innovazione”. L’obiettivo è allineare strategie, fondi e priorità. In altre parole, superare la giungla dei piani nazionali, regionali e settoriali che oggi frammentano gli sforzi e rallentano le decisioni.

Sul piano geopolitico, la strategia è anche un atto di diplomazia scientifica. L’Europa vuole riaffermare la propria leadership globale cooperando con partner strategici ma difendendo al contempo le proprie infrastrutture critiche. Il documento cita la necessità di sviluppare “data sovereignty frameworks”, cornici giuridiche che garantiscano la sicurezza dei dati scientifici e tecnologici europei. Tradotto: l’Unione non vuole che la sua scienza finisca nei server di qualcun altro.

C’è infine un aspetto sottile, ma decisivo. Dietro la terminologia accademica si nasconde una rivoluzione di paradigma: la Commissione vuole trasformare la ricerca in un’infrastruttura economica, non più solo culturale. La conoscenza non è più vista come bene comune, ma come asset strategico per la competitività e la sicurezza. È una visione che farà storcere il naso a molti idealisti, ma che riflette la brutalità del mondo attuale, dove anche la fisica delle particelle è geopolitica.

Chi osserva questa mossa con occhio da CEO capisce subito che Bruxelles ha finalmente deciso di trattare la scienza come un’infrastruttura industriale, non come un costo. La domanda vera è se riuscirà a passare dalle parole ai laboratori. Perché senza una governance agile, senza una politica fiscale coerente e senza un’integrazione reale delle competenze, il rischio è costruire cattedrali tecnologiche senza fedeli.

Eppure, per una volta, la strategia europea sulla ricerca e la tecnologia sembra più di un documento. È una visione di potere, ambizione e autodeterminazione scientifica. Un’Europa che non vuole più solo regolare il futuro, ma costruirlo. Magari tra le particelle di un acceleratore o le linee di codice di un algoritmo quantistico.