C’è qualcosa di ironicamente potente nel dire che la Sarajevo Security Conference è finita, ma non è finita. Perché gli eventi che contano davvero non si esauriscono nei comunicati stampa, si infiltrano nei circuiti neuronali della politica e del pensiero strategico. Le idee, soprattutto quelle pronunciate da uomini come il Generale Fernando Giancotti, non muoiono il giorno dopo. Si sedimentano, diventano visioni operative, o almeno tentativi di razionalizzare un mondo che sembra essersi disabituato alla razionalità.

Il generale Giancotti, ex presidente del Centro Alti Studi per la Difesa, è arrivato a Sarajevo con la grazia di chi ha attraversato decenni di trasformazioni geopolitiche senza mai confondere l’esperienza con la nostalgia. Ha parlato di instabilità, di crisi multipolare, di coesione europea come se stesse raccontando la meteorologia di un pianeta in perenne tempesta. Eppure, la chiave del suo intervento non è stata il pessimismo. È stata una lucida analisi del caos, che oggi appare come la vera costante del sistema internazionale.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo ha smesso di essere binario. Da allora, la forza centrifuga delle nuove potenze e dei vecchi rancori ha sostituito l’illusione di una globalizzazione armoniosa. La nuova realtà è un multipolarismo instabile, dove le democrazie sembrano più divise al proprio interno che minacciate dall’esterno. Gli autoritarismi, invece, mostrano una coesione che non nasce dal consenso, ma dal controllo. Il paradosso è che questa asimmetria di unità e disordine diventa essa stessa una forma di guerra ibrida, una lenta erosione della fiducia collettiva, soprattutto in Europa.

Chi guarda all’Europa con occhi strategici non può più fingere che le nazioni, da sole, contino qualcosa. La verità è brutale: nessun Paese europeo ha più massa critica strategica. È solo la coesione politica, non la somma dei bilanci militari, a poter produrre rilevanza. Giancotti ha insistito su un punto che dovrebbe diventare mantra a Bruxelles: costruire una strategia comprensiva per conquistare cuori e menti, creare un’autonomia strategica credibile e una capacità di dissuasione reale. In un mondo che ha riscoperto la forza come strumento di persuasione, la debolezza è una lingua morta.

Eppure, qui si cela la doppia natura dell’Europa: realista nella paura, idealista nella memoria. Da un lato la NATO resta il garante più efficace della sicurezza continentale, un ombrello sotto cui molti dormono tranquilli senza chiedersi chi paga la bolletta. Dall’altro, l’idea di una difesa europea integrata “separabile, ma non separata” rappresenta l’unico modo per non ridursi a spettatori di un gioco globale condotto da altri. L’All-Domain European C2 evocato a Sarajevo non è un sogno federalista, è una necessità operativa.

Ma ciò che colpisce, più ancora della lucidità militare, è il silenzio politico intorno a una parola bandita: pace. Giancotti l’ha detto chiaramente. In un tempo di retorica muscolare, rinunciare al linguaggio della pace significa consegnarlo a narrative alternative, spesso manipolate. Parlare di pace oggi è più rischioso che parlare di guerra, e questo la dice lunga sullo stato della nostra cultura strategica. La diplomazia europea sembra impantanata in una sospensione nervosa, incapace di promuovere un vero processo di distensione. La pace è diventata un concetto scomodo, troppo complesso per la semplificazione mediatica. Ma senza di essa, il progetto europeo perde la sua causa originaria.

Interessante, a Sarajevo, la geografia delle presenze. La NATO è stata lì in forze, qualificata e attenta. Gli Stati Uniti, invece, più civili che militari, più assenti che protagonisti. Uno specchio dei tempi, forse, o una prudente ritirata tattica in un contesto che oggi chiede più ascolto che intervento. L’Italia, invece, c’era. Non solo con i suoi vertici militari, ma con una presenza intellettuale vivace, da Nathalie Tocci a Greta Cristini, passando per figure come Giancotti, Colagrande e Ciappina. È una rarità, vedere l’Italia esercitare soft power in un’arena che troppo spesso considera marginale. Sarajevo, però, è molto più che una conferenza: è la soglia di un’Europa che ancora non sa se definirsi intera.

Un capitolo a parte merita la discussione sull’air power. Tema tecnico, ma rivelatore. L’introduzione del Generale Aurelio Colagrande ha innescato un confronto denso, e soprattutto un’affinità intellettuale tra ufficiali di diverse nazioni. Ma il vero colpo di scena è stato l’avvertimento condiviso: attenzione a estrarre lezioni troppo facili dal conflitto ucraino. Ogni guerra ha la sua grammatica, e quella attuale è scritta in un linguaggio che mescola il vecchio con l’inedito. Chi pensa di leggere il futuro dell’aviazione militare osservando i droni di Donetsk non ha capito che la superiorità aerea non è un fatto tecnologico, ma culturale.

Poi c’è la gioventù, la variabile imprevista. L’entusiasmo e la competenza del team organizzatore del Sarajevo Security Conference hanno ricordato che la sicurezza non è solo una questione di armi, ma di persone. Giovani che credono nella pace come infrastruttura e non come utopia. Ragazzi come Marco Garzia e Andrea Stauder, che incarnano un nuovo tipo di leadership, ibrida e globale, capace di attraversare i confini cognitivi prima ancora di quelli geopolitici.

In fondo, il messaggio di Sarajevo è questo: la sicurezza del futuro non si costruisce solo nei centri di comando, ma nei centri di pensiero. Ogni riflessione condivisa, ogni confronto, ogni idea che circola, alimenta quell’ecosistema strategico che determina come percepiamo e reagiamo alle minacce. Il mondo post-bipolare non ha più bisogno di blocchi, ma di visioni. E le visioni, quando sono forti, sopravvivono anche ai confini della cronaca.