Quando Meta Platforms decide di fare shopping tecnologico, il mercato non resta mai indifferente. La notizia che il colosso guidato da Mark Zuckerberg starebbe valutando un accordo pluriennale con Oracle per utilizzare i suoi servizi cloud nella formazione e nel deployment dei modelli di intelligenza artificiale ha già fatto salire il titolo Oracle del 4 per cento in una singola seduta. Bloomberg ha parlato di un’intesa potenziale da circa 20 miliardi di dollari, ancora in fase di discussione ma sufficiente a scatenare speculazioni, entusiasmi e, naturalmente, l’ansia di chi teme che la geografia del potere tecnologico globale stia mutando sotto i nostri occhi.
Non si tratta di un dettaglio contabile o di un gioco da borsa. È la fotografia di come le grandi piattaforme digitali stiano ridisegnando la propria infrastruttura per sostenere il peso crescente dell’intelligenza artificiale. Addestrare modelli linguistici di nuova generazione richiede una potenza computazionale che fa impallidire i data center tradizionali. Zuckerberg, che ha già provato a costruire un ecosistema proprietario per l’AI con hardware custom e software open source come Llama, sembra ora pronto a riconoscere che senza un partner con capacità industriali su larga scala la corsa rischia di diventare un suicidio finanziario. Ed è qui che entra in scena Oracle Cloud, il gigante sottovalutato che negli ultimi anni ha trasformato la propria immagine da fornitore tradizionale di database a player strategico nel cloud computing più muscolare.
È ironico pensare che un’azienda come Meta, che nel 2021 aveva persino cambiato il proprio nome per evocare il metaverso, finisca oggi a negoziare miliardi su miliardi per qualcosa di molto più tangibile e molto meno visionario: server, infrastruttura e terawatt di energia elettrica per alimentare l’AI. La differenza, rispetto a due anni fa, è che l’AI non è più un gioco per ingegneri entusiasti ma un’arma geopolitica e commerciale. La narrativa di Zuckerberg non parla più di avatar che bevono caffè virtuali, ma di modelli linguistici che devono competere con ChatGPT di OpenAI e con Gemini di Google. E in questa guerra, la logistica tecnologica conta quanto la qualità del software.
Oracle da parte sua si gode il momento. Safra Catz, CEO dal pragmatismo chirurgico, ha dichiarato durante l’ultima earnings call che l’azienda ha firmato contratti significativi con il “who’s who” dell’intelligenza artificiale, citando nomi come OpenAI, xAI di Elon Musk, Meta stessa, NVIDIA, AMD. Una lista che suona come una collezione di trofei e che posiziona Oracle Cloud in un ruolo che pochi analisti avrebbero immaginato solo cinque anni fa. E la portata degli impegni è impressionante: si parla di fornire fino a 4,5 gigawatt di capacità energetica nei prossimi cinque anni a OpenAI per un valore teorico fino a 300 miliardi di dollari. Numeri che avvicinano più a un piano energetico nazionale che a un semplice contratto di servizi cloud.
Chi osserva con attenzione nota che la partita non si gioca solo sulla capacità computazionale. Oracle sta contemporaneamente negoziando un ruolo nel futuro di TikTok negli Stati Uniti, partecipando a un consorzio che cerca di mantenere l’app cinese operativa in un contesto di tensioni geopolitiche tra Washington e Pechino. Se l’accordo dovesse andare in porto, Oracle non solo fornirebbe l’infrastruttura cloud per TikTok, ma consoliderebbe la propria immagine di guardiano tecnologico della sicurezza nazionale americana. È una doppia mossa strategica che unisce business e politica, con implicazioni che vanno ben oltre il perimetro di Wall Street.
Il punto interessante è che Meta, scegliendo Oracle, manda un messaggio implicito al mercato. Per anni il duopolio cloud è stato visto come un affare tra Amazon Web Services e Microsoft Azure, con Google Cloud relegato a terzo incomodo e Oracle considerata quasi fuori gioco. Oggi, invece, la narrativa cambia. Se Meta, che potrebbe teoricamente permettersi di costruire da sola intere città di server, decide di affidarsi a Oracle Cloud per una parte così critica della propria strategia AI, allora significa che il mercato è più fluido e meno prevedibile di quanto si pensasse. È come se nel campionato mondiale dell’intelligenza artificiale entrasse improvvisamente una squadra outsider che nessuno prendeva sul serio ma che, in silenzio, ha costruito un arsenale competitivo.
Gli investitori, naturalmente, si interrogano sulla sostenibilità economica di questa corsa agli armamenti digitali. Un deal da 20 miliardi non è un dettaglio nelle trimestrali. La spesa in AI sta diventando una voce che può trasformare i bilanci delle Big Tech, e non tutti sono convinti che il ritorno sull’investimento sarà proporzionale. C’è chi ricorda come il metaverso abbia inghiottito decine di miliardi senza produrre risultati significativi. Zuckerberg si trova ora a dover dimostrare che l’intelligenza artificiale non sarà un déjà vu, ma una scommessa con ricavi concreti. Il problema è che i costi infrastrutturali corrono più veloci delle monetizzazioni. Gli inserzionisti pubblicitari, vera linfa vitale di Meta Platforms, non si entusiasmano per i modelli linguistici se non vedono un ritorno diretto in targeting più preciso e in nuove forme di engagement.
Un’altra sfumatura che molti trascurano è il fattore energetico. Parliamo di gigawatt di capacità che dovranno essere garantiti per sostenere la formazione dei modelli. Non basta costruire data center, bisogna anche assicurarne la sostenibilità in un mondo che parla ossessivamente di ESG. Oracle promette capacità industriali, ma la domanda è fino a che punto i consumatori e i regolatori accetteranno un’AI che consuma più energia di una nazione di medie dimensioni. C’è un lato ironico, quasi distopico, nell’idea che i modelli di intelligenza artificiale nati per ottimizzare l’efficienza finiscono per essere tra le infrastrutture meno efficienti del pianeta dal punto di vista energetico.
Il contesto competitivo rende tutto ancora più interessante. Microsoft ha già legato a doppio filo la propria sorte a quella di OpenAI, investendo miliardi e consolidando Azure come infrastruttura privilegiata per ChatGPT. Google spinge il suo Gemini con la forza del proprio ecosistema di dati e di cloud. Amazon tenta di rafforzare AWS con partnership strategiche e chip proprietari. In mezzo a questa tempesta, Meta Platforms si muove con una tattica che sembra quasi contraddittoria: da un lato sviluppa modelli open source come Llama per posizionarsi come attore alternativo rispetto ai colossi chiusi, dall’altro cerca un rifugio sicuro e potente nei data center di Oracle. È un dualismo che riflette la tensione interna tra l’ideologia open e la brutalità delle esigenze di mercato.
Gli osservatori più cinici potrebbero dire che Meta non ha alternative. Costruire infrastruttura su scala significa affrontare costi di capitale astronomici e rischi di execution che pochi consigli di amministrazione accetterebbero. Affidarsi a Oracle è in fondo un modo per esternalizzare il problema, anche se a caro prezzo. Il vero interrogativo diventa allora quale sarà il margine di manovra strategico che Oracle potrà esercitare su Meta una volta firmato un contratto di questa portata. Perché in economia, si sa, il cliente miliardario finisce spesso per diventare dipendente, e la dipendenza in un mercato così competitivo è una forma di vulnerabilità.
Non manca chi osserva con un pizzico di ironia che la storia sembra ripetersi. Negli anni Novanta le grandi aziende si legavano mani e piedi a Oracle per i database critici che governavano il business. Trent’anni dopo, la stessa Oracle torna a imporsi non più come guardiana dei dati, ma come infrastruttura energetica dell’intelligenza artificiale. Forse Larry Ellison, che non ha mai nascosto la sua ambizione di competere frontalmente con Amazon e Microsoft, si starà godendo la vendetta perfetta. E chissà se Zuckerberg, firmando l’accordo, avrà la sensazione di tornare cliente di quel vecchio monopolista che tanti della Silicon Valley avevano giurato di superare.
Il deal da 20 miliardi tra Meta Platforms e Oracle Cloud, se confermato, sarà dunque più di un semplice contratto. Sarà un segnale di come l’industria stia entrando in una fase di consolidamento infrastrutturale dove la forza bruta, in termini di potenza computazionale ed energetica, vale quanto la creatività algoritmica. Sarà anche una dimostrazione di come la geopolitica, il capitale e la tecnologia si intreccino in un modo che rende impossibile separarli. E sarà, inevitabilmente, un nuovo capitolo nella saga di una Silicon Valley che non smette mai di reinventarsi, ma che sembra sempre più condannata a correre più veloce del proprio stesso mito.