Google ha appena firmato un piccolo grande spartiacque: la sua prima pubblicità creata interamente da un’intelligenza artificiale. Nessun creativo in carne e ossa dietro la telecamera, nessun regista, nessun storyboard. Solo algoritmi, dati e il nuovo motore Veo 3. Robert Wong, cofondatore del Google Creative Lab, ha spiegato al Wall Street Journal che non si tratta di un cambio di paradigma totale. Almeno non ancora. Google non intende produrre tutte le sue campagne con l’AI, ma il messaggio tra le righe è chiaro: il confine tra creatività umana e artificiale è ormai solo una questione di convenienza.
Wong ha aggiunto, con una punta di ironia, che ai consumatori non importa davvero se una pubblicità è scritta o girata da un’intelligenza artificiale. Se il messaggio funziona, se cattura l’attenzione e tocca le corde giuste, nessuno si ferma a chiedersi chi ne sia l’autore. Il pubblico vuole emozione, non paternità. Una verità scomoda per i creativi tradizionali che ancora difendono l’aura dell’artista nell’era degli algoritmi.
La sua frase più pungente, però, è stata un’altra: molti marketer sembrano “ubriachi di AI”. Una definizione perfetta per descrivere l’euforia collettiva che accompagna ogni nuova release generativa. Tutti vogliono l’intelligenza artificiale nel loro arsenale, pochi la comprendono davvero. L’ubriacatura dell’AI è diventata la nuova bolla dell’ego digitale, dove l’adozione vale più dell’utilità e la velocità sostituisce la visione.
Google intanto osserva, sperimenta e misura. Perché ogni spot generato da AI è anche un esperimento di percezione pubblica, un test sul grado di accettazione sociale della creatività automatizzata. In fondo, se la pubblicità è il riflesso della cultura, la prossima generazione di campagne ci racconterà quanto siamo disposti a delegare anche la fantasia alle macchine.