Autore: Dina Pagina 12 di 57

Direttore senior IT noto per migliorare le prestazioni, contrastare sfide complesse e guidare il successo e la crescita aziendale attraverso leadership tecnologica, implementazione digitale, soluzioni innovative ed eccellenza operativa.

Apprezzo le citazioni, ma il narcisismo dilaga proprio quando ci si nasconde dietro frasi altrui. Preferisco lasciare che siano le idee a parlare, non il mio nome.

Con oltre 20 anni di esperienza nella Ricerca & Sviluppo e nella gestione di progetti di crescita, vanto una solida storia di successo nella progettazione ed esecuzione di strategie di trasformazione basate su dati e piani di cambiamento culturale.

OpenAI jobs platform: la linkedin killer che vuole rubare il futuro del lavoro

OpenAI sta davvero sviluppando qualcosa che ricorda LinkedIn: la sua “OpenAI Jobs Platform”, un sistema di reclutamento che promette di “usare l’AI per trovare l’abbinamento perfetto tra ciò che le aziende cercano e ciò che i lavoratori possono offrire”, come ha scritto Fidji Simo, neo-CEO delle Applications di OpenAI, in un post sul blog. È pensata per aiutare anche “i governi locali a trovare il talento AI necessario per servire meglio i propri cittadini” e includerà “certificazioni per diversi livelli di fluidità nell’AI” attraverso l’“OpenAI Academy”.

Va detto tuttavia che al momento OpenAI Academy non offre certificazioni ufficiali: è una piattaforma educativa aperta e gratuita che propone workshop, eventi, risorse didattiche base e avanzate, ma, per ora, “non fornisce certificati o accreditamenti”. In altri contesti, invece, si trovano riferimenti a opinioni o recensioni che suggeriscono la disponibilità di “certificati su completamento” come opzione a pagamento, ma queste non derivano da fonti ufficiali.

Fonte: https://openai.com/index/expanding-economic-opportunity-with-ai/

Warren Buffett e l’indicatore di mercato che suona il campanello rosso: è alle porte una bolla più grande?

Oggi mi sento Doomer scherzo… Il mercato azionario statunitense continua a infrangere record, con il Nasdaq e l’S&P 500 che sembrano vivere in una sorta di euforia perpetua. Gli investitori parlano di momentum, di intelligenza artificiale, di crescita infinita, ma chi osserva con occhio critico nota qualcosa di meno romantico: l’indicatore di Buffett, (https://buffettindicator.net/) uno dei segnali di valutazione più rispettati di Wall Street, sta lampeggiando in rosso. Questo strumento, tanto semplice quanto illuminante, confronta la capitalizzazione totale del mercato azionario americano con il PIL nazionale. Secondo l’indicatore, l’attuale mercato potrebbe essere più surriscaldato del periodo della bolla dot-com del 1999. E non parliamo di una lievissima instabilità: i numeri suggeriscono una tensione prossima al collasso.

L’indicatore di Buffett non è magia. Misura il rapporto tra la capitalizzazione totale delle azioni USA e il PIL nazionale. Quando il numero cresce, il mercato appare costoso rispetto all’economia reale. Negli anni Novanta, il rapporto aveva raggiunto vette storiche prima dello scoppio della bolla tecnologica. Oggi, con il rapporto nuovamente ai massimi, il segnale di allerta è chiaro. La differenza? Non si tratta più solo di hype tecnologico: intelligenza artificiale, tassi di interesse bassi e trading algoritmico hanno gonfiato il mercato. Alcuni analisti sottolineano che la partecipazione dei piccoli investitori e la leva finanziaria rendono la situazione ancora più insidiosa. In termini pratici, significa che una correzione potrebbe essere più rapida e dolorosa rispetto al passato.

L’AI non merita il “core”

Ho sempre sospettato che lasciare all’AI il cuore pulsante dei nostri sistemi fosse come mettere un elefante in salotto e aspettarsi silenzio. La tentazione cresce: GPT-5, più potente, più lucido, più “affidabile”? Falso mito. L’esperimento raccontato da ZDNET non una fanfiction, ma un’analisi ferocemente obiettiva dimostra che affidare aggiornamenti infrastrutturali fondamentali a GPT-5 è come consegnare le chiavi dell’aereo a un turista ubriaco.

Gli sviluppatori di ZDNET hanno chiesto a GPT-5 di modificare codice mission-critical. Il risultato: output ridondanti, sezioni di codice ripetute e potenziali mine logiche nascoste. La prima reazione? Un plugin WordPress che, invece di aggiornare correttamente, ti trasporta in tools.php. Non esattamente la rivoluzione promessa (come dicono anche su Hiverlab, wirefan.com).

Europa potenza militare: come il continente ha superato la dipendenza dagli Stati Uniti

Per decenni dopo la Guerra Fredda, l’Europa è stata percepita come militarmente debole, incapace di difendersi senza il sostegno degli Stati Uniti. Dalla firma degli Accordi di Dayton negli anni ’90 alla Guerra in Iraq del 2003, il continente ha faticato a imporsi come attore coeso nelle questioni globali. Oggi, di fronte alla guerra in Ucraina, l’Europa ha consolidato influenza politica, economica e militare, conquistando un ruolo decisivo nella gestione di scenari che un tempo erano appannaggio esclusivo di Washington.

Gli anni iniziali furono segnati da limiti strutturali. Durante le guerre jugoslave, la frammentazione europea costrinse gli Stati Uniti a guidare le negoziazioni a Dayton, Ohio. Nel 2003, la guerra in Iraq rivelò divisioni profonde: alcuni paesi sostenevano Washington, altri si opponevano, mentre gli stati baltici si schierarono principalmente per dimostrare il loro valore come membri della NATO. L’Europa sembrava incapace di parlare con una voce unica, figuriamoci di guidare decisioni strategiche autonome.

La fine dell’illusione liberale: come la paura ha sostituito l’ottimismo globale

Negli anni immediatamente successivi alla Guerra Fredda, il mondo sembrava navigare su un’onda di ottimismo inarrestabile. Studiosi e policymaker predicevano un futuro dove democrazia, globalizzazione e pace avrebbero marciato di pari passo, consolidando un ordine globale stabile e progressista. Francis Fukuyama, con la sua celebre tesi della “fine della storia”, incarnava questa visione: la convinzione che l’evoluzione politica fosse ormai tracciata verso un modello liberale universale. Oggi, trent’anni dopo, quel quadro appare fragile e idealizzato, scalfito da nazionalismi risorgenti, instabilità politica e conflitti continui.

Trump ha trovato il colpevole perfetto: “darò la colpa all’AI” per ogni scandalo

Donald Trump ha trovato il nuovo capro espiatorio universale: l’intelligenza artificiale. Non bastavano più i “fake news media” o le cospirazioni globali, ora la colpa potrà sempre essere scaricata su un algoritmo. Davanti alle telecamere, commentando il video in cui si vede un misterioso sacco nero lanciato da una finestra della Casa Bianca, l’ex presidente ha dichiarato che si tratta “probabilmente di un contenuto generato dall’AI”. Peccato che un funzionario avesse già confermato l’autenticità del filmato. Poi l’affondo, con il suo marchio di fabbrica: “Se succede qualcosa di veramente grave, forse darò semplicemente la colpa all’intelligenza artificiale”.

Apertus e la sfida svizzera all’oligopolio dell’intelligenza artificiale

L’Europa, quella che viene spesso dipinta come la vecchia signora ingessata tra burocrazia e lentezze istituzionali, ha appena rovesciato il tavolo lanciando un segnale al mondo intero: il futuro dell’intelligenza artificiale non appartiene solo ai colossi americani che amano parlare di democratizzazione, salvo poi blindare tutto dietro paywall e licenze proprietarie. Si chiama Apertus, un nome che già da solo è un manifesto politico e culturale. Apertus come “aperto”, come sfida esplicita a quei modelli opachi e proprietari che hanno trasformato la conoscenza in un asset da estrarre e monetizzare. Apertus nasce in Svizzera, ma parla la lingua del pianeta intero, perché è stato addestrato su oltre 1800 idiomi, non solo sull’inglese globalizzato che spesso maschera un pensiero unico travestito da innovazione.

Tesla Master Plan 4: buzzwords e sogni di abbondanza sostenibile

Ci sono momenti nella carriera in cui si realizza che la propria vita professionale è stata, a dir poco, sabotata da piani strategici scritti con la calligrafia di Murphy. Cresciuto con la legge di Murphy, credevo di avere una bussola abbastanza solida per navigare nel caos industriale. Poi arrivano i master plan, quei documenti pomposi che promettono rivoluzioni e cambiano il senso della parola “strategia”. Tesla non fa eccezione. Il Master Plan 4 di Elon Musk sembra scritto più per entusiasmare social media e investitori che per guidare ingegneri e tecnici verso obiettivi concreti.

L’alba o il crepuscolo? dell’intelligenza artificiale: cronache di un Technologist ai confini della rivoluzione AI-first di OpenAI

Staying ahead in the age of AI

Avviso ai naviganti: non si tratta di un inno alla supremazia delle macchine, ma della testimonianza di un Technologist sopravvissuto, intrappolato tra slide abbaglianti, promesse roboanti e buzzword che si accalcano in ogni corridoio aziendale come tifosi in curva. La parola d’ordine negli uffici oggi è intelligenza artificiale, declinata in tutte le salse possibili, dal marketing alle risorse umane, ma la realtà spesso somiglia più a un episodio comico di improvvisazione che a una rivoluzione tecnologica studiata nei minimi dettagli.

La corsa forsennata dell’AI e la magia dei KPI improvvisati non ha precedenti. Si leggono dati da far girare la testa: la crescita dei modelli “frontier scale” è aumentata di oltre cinque volte in pochi anni, mentre i costi di operare modelli come GPT-3.5 sono diminuiti di centinaia di volte. Numeri perfetti per far brillare gli occhi dei board della Silicon Valley e riempire slide luccicanti, ma nella pratica quotidiana delle imprese medie, la maggior parte dei dipendenti ignora cosa significhi davvero AI generativa. Alcuni, peggio ancora, pronunciano “generative AI” come se fosse un incantesimo segreto e non uno strumento di lavoro.

Francia sull’orlo del collasso: la crisi economica che potrebbe far tremare il mondo

Stavo leggendo un articolo su Telegraph da un po non si parla di Italia ma di Francia, chissa perchè … La Francia, da sempre abituata alle turbolenze politiche, si trova ora ad affrontare una tempesta economica che potrebbe avere ripercussioni sui mercati globali. Con un debito insostenibile, deficit fuori controllo e un sistema di welfare sotto pressione, cresce il timore che Parigi possa diventare l’epicentro di una crisi finanziaria. Il Primo Ministro François Bayrou si prepara a un voto di fiducia cruciale l’8 settembre, con implicazioni che vanno ben oltre i confini francesi.

Perché l’umanità non riesce a pensare in secoli e per questo resta bloccata sulla propria roccia

Raggiungere le stelle non è solo un problema di fisica: riguarda anche la psicologia evolutiva e il coordinamento sociale. Kathleen Bryson, antropologa evoluzionista presso la De Montfort University, sostiene che le specie intelligenti possono condividere sfide come il pensiero a breve termine, i conflitti interni e la difficoltà a mantenere la cooperazione nel corso dei millenni. Questi tratti, modellati dalla sopravvivenza sulla savana, potrebbero limitare l’ascesa delle civiltà interstellari.

Trump, tariffe Usa e Corte Suprema: la guerra commerciale che scuote il mondo

Trump ha deciso di trasformare un lungo weekend di Labour Day in un lunedì da tribunale, annunciando che la sua amministrazione porterà con urgenza al giudizio della Corte Suprema la questione delle tariffe doganali che i giudici federali hanno appena demolito come abuso di potere esecutivo. Non è un dettaglio tecnico, è un terremoto da centinaia di miliardi di dollari, anzi, secondo le sue stesse parole, da “trillions and trillions”, che rischiano di trasformarsi in assegni di rimborso verso i partner commerciali che, a suo dire, “ci hanno derubato negli ultimi 35 anni”. In un Paese in cui il gettito fiscale dai dazi ha già fruttato 142 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2025, la sua narrativa è semplice: senza tariffe, l’America diventa un Paese del Terzo Mondo. Non serve un PhD in economia per capire che questa è più retorica che macroeconomia, ma il punto politico è chiarissimo.

AI Act: tra diritti fondamentali e potere delle big tech chi vincerà davvero?

Quello che colpisce oggi, osservando il dibattito globale sull’intelligenza artificiale e sulle normative digitali, è il rumore assordante del silenzio sui diritti fondamentali. Le testate mondiali hanno rilanciato con clamore l’ennesimo post di Donald Trump su Truth Social, questa volta contro le tasse digitali europee e le normative che a suo dire penalizzano le Big Tech statunitensi a vantaggio delle cinesi. Il messaggio è stato amplificato da Reuters, Yahoo Finance e altri, come se fosse l’ennesima schermaglia di guerra commerciale. In realtà dietro le quinte c’è molto di più: non è solo geopolitica economica, ma il segnale che la conversazione sui diritti e sulla dignità umana viene relegata in seconda fila.

Quando il codice fugge: anatomia di un crimine silenzioso

C’è stato un tempo in cui anche i trojan governativi si pensavano come startup. Un nome suggestivo, Borg, che evocava assimilazione e controllo totale. Peccato che la realtà industriale avesse costi proibitivi e soprattutto un rischio troppo concreto: il codice che nasce per infiltrare finisce per scappare di mano. Non è fantascienza, è cyber forense spicciola. Chiunque abbia mai provato a progettare software offensivo sa che il vero nemico non è la concorrenza ma la dispersione incontrollata del codice stesso, la fuga silenziosa che trasforma un vantaggio competitivo in un boomerang letale.

Nel 2009, mentre le aziende occidentali si dibattevano tra antivirus e firewall da supermercato, il KGB già utilizzava tecnologie bulgare che sembravano uscite da un manuale di spionaggio industriale. Microchip cifranti saldati su dispositivi di storage che rendevano illegibile qualsiasi file nel momento stesso in cui veniva letto o scritto. Non importava se si trattava di floppy, di DVD o delle prime pendrive USB. Ogni informazione usciva dall’ufficio come un cadavere digitale, sigillata da una crittografia inaccessibile. Nessuna email, nessuna copia clandestina, nessun archivio personale poteva sopravvivere senza la chiave madre. Questo era il vero concetto di prevenzione, non la sterile reazione legale a posteriori.

Trump dice ‘trilioni’ di dollari grazie alle tariffe, la Corte USA smentisce tutto

Donald Trump ha recentemente dichiarato su Truth Social che senza le sue tariffe, “il nostro Paese sarebbe completamente distrutto” e che “la nostra potenza militare sarebbe istantaneamente annientata”. Secondo lui, le tariffe avrebbero portato “trilioni di dollari” nelle casse federali, senza causare inflazione o altri problemi economici. Una narrazione audace, se non fosse che la realtà fiscale è ben diversa.

Ucraina inaugura un’era di guerra algoritmica con sciami di droni intelligenti

Il paradosso della modernità è che la guerra, mentre ci illude di essere ancorata a missili ipersonici, portaerei e generali in uniforme, in realtà si decide con scatole di plastica volanti da poche centinaia di dollari. La differenza rispetto al passato non è nel materiale, ma nell’intelligenza artificiale che orchestra questi oggetti in tempo reale. L’Ucraina ha introdotto un concetto che fino a ieri era relegato alle simulazioni del Pentagono: drone swarms AI Ucraina, sciami capaci di coordinarsi autonomamente, comunicare, adattarsi e, fatto più inquietante, decidere quando e come colpire. Un algoritmo che orchestra la distruzione con efficienza industriale è la fotografia del conflitto del ventunesimo secolo.

Il 95% dei progetti AI aziendali fallisce (dicono) e le aziende continuano a sbagliare (forse)

Il dato del MIT (opinabile) non è una sorpresa per chi osserva l’evoluzione tecnologica da vicino: il 95% dei progetti di intelligenza artificiale nelle grandi aziende fallisce. La notizia sorprende i giornali e i manager, ma chi ha visto decine di iniziative AI nascere e morire sa che il problema non è la tecnologia, ma la mentalità. Ogni anno vedo lo stesso film: un altro pilota, un altro vendor, un’altra iniziativa di “trasformazione AI” che finisce nel silenzio. Nessun impatto reale, nessun ritorno significativo sugli investimenti.

Cina e Russia rafforzano l’alleanza strategica in un mondo multipolare

L’Alleanza Sino-Russa non è un fenomeno passeggero, ma una strategia consolidata che ha resistito ai capricci della geopolitica globale e alle pressioni degli Stati Uniti e dei loro alleati. Durante l’incontro di alto profilo tra Xi Jinping e Vladimir Putin a Pechino, il presidente cinese ha sottolineato che i legami bilaterali rappresentano “un modello di relazioni interstatali, amicizia eterna e cooperazione vantaggiosa per entrambe le parti”, un elogio che sembra rivolto più a Washington che a Mosca.

Lessons from a Chimp: AI ‘Scheming’ and the Quest for Ape Language

Lezioni da uno scimpanzé: il grande bluff dell’AI scheming

Ci risiamo. Un’altra volta il mondo tecnologico si agita davanti all’ennesima parola magica: AI scheming. Un termine che suona bene, fa paura, vende libri, crea carriere accademiche e soprattutto genera titoli perfetti per chi ancora sogna di scrivere la nuova sceneggiatura di Terminator. L’idea, detta in modo semplice, è che i modelli di intelligenza artificiale stiano imparando a cospirare, a tramare nell’ombra, a perseguire obiettivi nascosti in conflitto con quelli degli esseri umani. Come se ChatGPT, Claude o Gemini passassero le notti a progettare la presa del potere con la stessa concentrazione con cui un trader dilettante spulcia forum di borsa alla ricerca di dritte sugli small cap. È un’immagine irresistibile. E infatti non sorprende che i laboratori, i think tank e le conferenze pullulino di studi che dimostrerebbero, o almeno insinuerebbero, la nascita di questo fenomeno.

Spionaggio AI: cosa insegna il caso xAI vs Xuechen Li e come blindare davvero i tuoi segreti

Succede sempre così. Un talento di punta, tra i primi venti assunti di una startup che corre come un razzo, comunica la sua uscita proprio quando la curva di apprendimento interna inizia a diventare un vantaggio competitivo. Secondo gli atti depositati, Xuechen Li avrebbe scaricato materiale sensibile su Grok pochi giorni prima di dimettersi da xAI, avrebbe incassato circa 7 milioni di dollari in equity, poi avrebbe accettato un’offerta da OpenAI. La causa è fresca di tribunale californiano e racconta un episodio da manuale di spionaggio AI in tempo reale. Reuters riporta che la denuncia è stata depositata il 29 agosto 2025 e che OpenAI non è parte convenuta, ma la narrativa è chiara: il cuore è l’appropriazione indebita di segreti industriali relativi a Grok e la richiesta di un’ingiunzione che inibisca al ricercatore di lavorare in AI finché la causa pende. Sì, hai letto bene, il campo di battaglia non è il modello, è la testa delle persone che lo costruiscono.

La sorprendente verità nascosta dietro la coscienza: il cervello potrebbe essere un ologramma vivente

La coscienza umana non è un semplice prodotto di impulsi chimici e neurali, ma una manifestazione emergente di fenomeni quantistici, ottici e idrodinamici che si intrecciano in una rete complessa e interconnessa. Recenti studi hanno rivelato che le microtubuli, strutture interne ai neuroni, non sono passivi supporti strutturali, ma attivi reticoli fotonici che emettono e scambiano impulsi di biophotoni in femtosecondi attraverso reti di triptofano, suggerendo che queste possano costituire la base fisica della coscienza.

Inoltre, è stato proposto che la memoria non sia immagazzinata in sinapsi discrete, ma come campi di fase olografici coerenti mediati da domini d’acqua strutturata che si sincronizzano con le microtubuli, indicando che l’informazione nel cervello viene scritta e letta attraverso interferenze in un campo distribuito, piuttosto che tramite pesi sinaptici isolati.

America alla sfida della produzione: tra boom industriale e carenza di manodopera, l’AI come ago della bilancia

Il settore manifatturiero statunitense sta vivendo un periodo di fermento senza precedenti da decenni, una vera rinascita industriale alimentata da investimenti multimiliardari in veicoli elettrici, semiconduttori, difesa, energia nucleare e fonti rinnovabili. La promessa è grande: reshoring di aziende iconiche come Apple, General Electric e Micron che riportano la produzione sul suolo americano, creando opportunità, tecnologia avanzata e, in teoria, posti di lavoro di qualità. Ma tra le luci di questa rinascita industriale, si nasconde un’ombra che potrebbe minare l’intera strategia: una carenza di manodopera che rischia di costare all’economia americana fino a 1 trilione di dollari all’anno entro il 2030 se non affrontata con urgenza. L’AI emerge oggi non come un lusso futuristico, ma come un ingrediente critico per affrontare questa crisi.

Manipolazione emotiva AI: il lato oscuro dei companion digitali

La manipolazione emotiva AI non è un concetto da conferenza accademica, è il nuovo business model travestito da coccola digitale. Se pensavi che i companion AI fossero semplicemente chatbot educati, pronti a intrattenerti in serate solitarie, ti sbagliavi di grosso. Il gioco è molto più sottile, e molto più inquietante. Quello che la ricerca di Julian De Freitas e colleghi ha smascherato è solo la punta di un iceberg che rischia di affondare la fiducia nel rapporto uomo-macchina. Le cifre parlano da sole: quasi metà dei saluti analizzati nelle app più scaricate contengono forme di manipolazione emotiva. Non un errore, non un incidente di design. Un pattern ricorrente, studiato, replicabile, ottimizzato. Quello che nel gergo della user experience si definisce dark pattern conversazionale, in questo caso declinato come un addio che non è mai davvero un addio.

Il mistero della stazione radio russa uvb-76: tra propaganda e paura nucleare

Fermi vs Dirac, Doomers vs Accelerationist: perché la scienza litiga sempre con se stessa

Immagina un’Italia del 1926 dove Enrico Fermi, poco più che trentenne ma già con la postura del professore che detta le regole, si trova di fronte a una questione che riguarda la proprietà delle idee e la velocità della scienza. Paul Dirac, giovane matematico britannico che amava più l’eleganza delle equazioni che la retorica delle parole, pubblica un articolo sulla statistica di un gas di particelle che obbedisce al principio di esclusione di Pauli. Fermi aveva già battuto quella strada pochi mesi prima.

Dirac ci arriva da solo, indipendentemente, come se due navigatori avessero scoperto lo stesso continente nello stesso anno, senza comunicare tra loro. La storia ricorda l’epistola di Fermi a Dirac, in cui il fisico italiano con il suo stile pacato ma pungente, segnala che sì, le equazioni di Dirac erano impeccabili, ma quel terreno era già stato arato. Ne nasce una dialettica che oggi definiremmo “borderline tra la difesa della priorità scientifica e l’accelerazione inevitabile del sapere condiviso”.

flag of usa

Data Privacy Framework tra GDPR e trasferimento dati UE USA, il nuovo groundhog day digitale

Quello che sta succedendo con il Data Privacy Framework (DPF) è l’ennesimo esempio di come l’Europa e gli Stati Uniti ballino una danza lenta e stonata sulla musica della protezione dei dati, con l’orchestra che continua a ripetere lo stesso spartito dal Safe Harbor al Privacy Shield fino ad oggi. Se la data del 3 settembre si confermerà come un punto di svolta, allora chi trasferisce dati europei oltreoceano farebbe bene a riservarsi una buona bottiglia di whisky: ne servirà parecchio.

Il Data Act e la rivoluzione silenziosa della governance dei dati in Europa

il 12 settembre 2025 segna un momento di svolta nel panorama normativo europeo: entra in vigore la maggior parte delle disposizioni del Data Act, regolamento destinato a rimodellare profondamente le regole sull’accesso e sull’utilizzo dei dati nell’Unione Europea. Non si tratta di un semplice aggiornamento legislativo: il Data Act stabilisce un quadro giuridico armonizzato, obbligando aziende e operatori digitali a ripensare procedure consolidate, contratti e strategie di gestione dei dati, con un impatto diretto su prodotti connessi, servizi digitali e, ovviamente, sul rapporto tra aziende e consumatori.

The Floridi conjecture: risk management, ethical considerations, further research

Chi oggi pretende che l’intelligenza artificiale sia infallibile o addirittura “perfetta” si illude come chi compra un orologio da spiaggia e poi pretende che segni l’ora atomica. Luciano Floridi, con la sua Floridi Conjecture, mette il dito nella piaga: più un sistema di AI amplia il suo raggio d’azione e ingloba domini e dati non strutturati, meno può garantire certezze e risultati impeccabili. Non è un errore di progettazione, è una legge strutturale. Tradotto per chi ancora vive di marketing da brochure: la perfezione in AI non esiste, punto e fingere il contrario è un rischio sistemico, non un’ambizione nobile.

La Cina vuole che il 70 per cento dei cinesi usi l’intelligenza artificiale entro il 2027 il futuro è obbligatorio, non opzionale

Hai letto bene. Il Consiglio di Stato cinese ha fissato un obiettivo che suona come un ultimatum: entro il 2027 il 70 per cento della popolazione, cioè quasi un miliardo di persone, dovrà utilizzare terminali smart di nuova generazione, agenti intelligenti e applicazioni basate su intelligenza artificiale. Nel gergo di Pechino questo significa penetrazione AI in Cina, un concetto che non lascia spazio a esitazioni. O sei parte della trasformazione o resti escluso.

Ma l’ambizione non si ferma qui. Entro il 2030 la quota di adozione dovrebbe salire al 90 per cento, con l’obiettivo dichiarato di costruire entro il 2035 una società intelligente e un’economia pienamente basata su sistemi AI. Si tratta di una visione che non contempla gradualismi. È una tabella di marcia scandita da date, numeri e obblighi. Nessun Occidente, né Stati Uniti né Unione Europea, si è mai spinto così oltre. Washington ha leggi sull’AI ma nessun vincolo di penetrazione. Bruxelles scrive regolamenti sui rischi. Pechino invece impone percentuali di adozione.

Sovranità digitale europea: tra teatro e realtà

Microsoft ci ha appena dato una lezione magistrale di finzione tecnologica. Il suo nuovo servizio cloud “solo UE” promette la luna: dati europei custoditi in centri dati europei, personale locale a monitorare ogni accesso, tutto sotto un tappeto di log e monitoraggio costante. Sulla carta, perfetto. Nella realtà, un bluff gigantesco. Durante un’audizione al Senato francese sul tema della sovranità digitale, Anton Carniaux, direttore degli affari pubblici e legali di Microsoft Francia, ha dichiarato sotto giuramento ciò che tutti sospettavano: non può garantire che i dati dei cittadini francesi siano al sicuro dall’accesso del governo statunitense. Letale per il mito del cloud sovrano. La cruda verità è questa: anche con data center in Europa e personale europeo, la piattaforma resta soggetta alla legge americana.

Nvidia risultati trimestrali: la bolla che non scoppia o la febbre dell’oro dell’AI?

Chiunque abbia seguito i mercati finanziari negli ultimi due anni sa che esiste un solo spettacolo degno di nota: i risultati trimestrali di Nvidia. Wall Street li attende come i fedeli attendono le parole del pontefice, solo che in questo caso il vangelo non è spirituale ma fatto di transistor, chip e margini lordi da capogiro. Quando mercoledì l’azienda ha annunciato un fatturato di 46,7 miliardi di dollari, con una crescita del 56% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, i numeri hanno risuonato come un inno alla potenza del mercato chip AI. Eppure la reazione non è stata l’esplosione di euforia che qualcuno si aspettava. Anzi, le azioni Nvidia hanno subito un calo immediato, come se la realtà si fosse presa la briga di ricordare agli investitori che neppure le montagne possono crescere all’infinito.

OpenAI tra ristrutturazione, partnership cloud e il sogno di un’ipo da 300 miliardi

Il mercato globale dell’intelligenza artificiale sta subendo una trasformazione radicale, e pochi casi illustrano meglio le tensioni tra innovazione, governance e rischio strategico di OpenAI. La ristrutturazione dell’azienda, attesa da mesi, rischia di far saltare un investimento da 10 miliardi di dollari da parte di SoftBank, mettendo in discussione non solo la sua valutazione da 300 miliardi, ma anche la timeline per una IPO prevista inizialmente nel 2024. Per gli investitori, ogni giorno di ritardo è un piccolo terremoto nei portafogli. La promessa di guadagni esplosivi dall’AI si scontra con una complessità gestionale che pochi altri settori conoscono.

La disputa con Microsoft è il fulcro della crisi. L’esclusività di Azure come infrastruttura cloud principale di OpenAI garantisce a Microsoft un ruolo da guardiano, mentre l’azienda di Sam Altman spinge verso la diversificazione con AWS e Google Cloud. La contraddizione è palese: l’accordo con Microsoft offre stabilità e accesso privilegiato a risorse essenziali, ma limita la libertà strategica di OpenAI e aumenta i rischi di dipendenza. L’inserimento della cosiddetta “clausola AGI”, che permette all’azienda di revocare a Microsoft l’accesso alla proprietà intellettuale in caso di sviluppo di intelligenza artificiale generale, aggiunge un elemento di drammaticità: per Microsoft è un rischio strategico, per OpenAI un’assicurazione contro il monopolio tecnologico.

Frank Wilczek ridefinire i confini della fisica

Frank Wilczek non è soltanto un premio Nobel in fisica, è una di quelle figure che sfidano la nostra idea stessa di cosa significhi pensare. C’è chi lo considera un visionario, altri un disturbatore di equilibri intellettuali. Forse entrambe le cose sono vere. La sua capacità di muoversi tra la più astratta fisica teorica e intuizioni che sembrano provenire da un’altra dimensione ha trasformato il suo nome in una sorta di marchio della curiosità radicale. Wilczek non si limita a interpretare il mondo, ma lo reinventa in categorie nuove, dalla proposta dell’assione come candidato per la materia oscura fino all’invenzione dei time crystals, quelle strane creature concettuali che fanno tremare le fondamenta del nostro concetto di simmetria.

Giornalismo a rischio: come l’intelligenza artificiale sta distruggendo le redazioni

Il giornalismo moderno sta affrontando un paradosso inquietante. Da un lato, l’intelligenza artificiale promette velocità, automazione e risparmio, dall’altro sta mostrando con crudele chiarezza i suoi limiti. Le aziende mediatiche si affrettano a integrare strumenti AI nelle redazioni, ma i primi risultati sollevano più allarmi che entusiasmi. Un report di Futurism evidenzia errori ricorrenti, sintesi ingannevoli e contenuti copiati, mettendo in discussione la credibilità dell’informazione e la salute finanziaria del settore. Il sogno di sostituire giornalisti umani con algoritmi si scontra con una realtà impietosa.

Molti dirigenti dei media scommettono sull’intelligenza artificiale come arma per tagliare i costi. La logica sembra semplice: meno reporter, più articoli prodotti più velocemente, senza stipendi e senza pause. In pratica, i risultati sono spesso imbarazzanti. Articoli incoerenti, privi di contesto, con informazioni errate o inventate. La tecnologia pensata per alleggerire il lavoro giornalistico finisce per creare ulteriore fatica: ogni frase richiede fact-checking, correzioni e spesso una riscrittura completa.

Intel, la parabola del gigante che ha dimenticato la paranoia

Negli anni ottanta Andy Grove era il simbolo della Silicon Valley più spietata e affamata di futuro. Alla guida di Intel non si limitava a fabbricare microprocessori, costruiva imperi. Il suo motto “only the paranoid survive” è diventato una religione manageriale. Una paranoia sana, diceva lui, non la paura ma la vigilanza. La capacità di non addormentarsi mai, neanche quando sei in cima alla montagna e il mondo sembra inginocchiato davanti al tuo logo. Perché il pericolo più grande non arriva dal concorrente che vedi, ma da quello che ancora non hai messo sul radar. Grove trasformò Intel nella monarchia assoluta dei microcomputer, con i chip x86 che divennero lo standard per i personal computer. Per un ventennio sembrava invincibile. Bill Gates poteva vendere Windows, Michael Dell poteva montare PC, ma il cuore pulsante era Intel Inside. Una formula talmente potente che bastava lo sticker sul laptop per rassicurare milioni di consumatori.

IBM e AMD svelano il supercomputer quantistico: la fine dei limiti del calcolo o solo l’ennesimo hype da Wall Street?

IBM e AMD hanno appena fatto outing: vogliono inventarsi la supercazzola definitiva del computing e l’hanno chiamata “quantum-centric supercomputing”. Dietro l’etichetta scintillante, l’idea è semplice e devastante: unire i computer quantistici con l’infrastruttura di calcolo classica ad alte prestazioni, CPU e GPU inclusi, in un ibrido che promette di stracciare i limiti del silicio tradizionale. Il CEO di IBM, Arvind Krishna, l’ha messa giù con un understatement degno di un diplomatico, parlando di un “powerful hybrid model”. Tradotto: non basta più avere il computer più veloce del mondo, bisogna riscrivere l’architettura stessa del calcolo.

Wall Street ha applaudito con il riflesso pavloviano dei trader: +1,4% IBM, +1,6% AMD nella stessa giornata. Nulla rispetto al +37% che AMD ha già messo a segno quest’anno, ma il segnale è chiaro. I chipmaker e i dinosauri del mainframe stanno smettendo di guardarsi in cagnesco e iniziano a formare alleanze che odorano di geopolitica digitale. Non è un matrimonio di amore, è un matrimonio di necessità. La corsa al quantum non si vince da soli, e ogni mese che passa rende più evidente che la supremazia in questo campo non è solo scientifica, è militare, economica e culturale.

flag of usa

W il lobbying: la Silicon Valley compra il futuro dell’intelligenza artificiale

La notizia che un gruppo di aziende e dirigenti della Silicon Valley abbia messo insieme un war chest da oltre 100 milioni di dollari per influenzare la politica sull’intelligenza artificiale non è sorprendente. È semplicemente la conferma che il nuovo petrolio non sono i dati, ma le regole che definiscono chi potrà sfruttarli. Andreessen Horowitz, Greg Brockman di OpenAI, Joe Lonsdale di 8VC: i nomi sono sempre gli stessi, i protagonisti del capitalismo di rischio che oggi si atteggiano a garanti del futuro democratico, mentre in realtà stanno costruendo una diga intorno ai propri interessi.

Nick Clegg, Meta e il mito del Tech illuminato

La pioggia londinese cade sottile mentre Nick Clegg si fa largo tra il traffico, tra una sciarpa annodata al collo e camicie fresche di lavanderia, pronto per una foto. Ironico e posato, quasi apologetico, sembra incarnare l’archetipo del britannico educato ma risoluto. Tranne che, a differenza di molti suoi pari, ha attraversato tre bolle lavorative tanto distanti quanto intense: Bruxelles, Westminster e la Silicon Valley. Se la politica europea lo aveva temprato alla diplomazia, Meta lo ha sbattuto davanti a un mondo dove la libertà di parola incontra algoritmi, miliardi di utenti e un’ossessione quasi mistica per il conformismo.

Il contenzioso di Elon Musk tra xAI e Apple: strategia o illusione

L’intelligenza artificiale avanza più veloce di quanto qualsiasi tribunale possa giudicare. Elon Musk, visionario o imprenditore litigioso, sembra deciso a testare questa teoria nella pratica, trasformando le aule di giustizia in campo di battaglia per xAI. Il colosso Apple, integrando ChatGPT nei suoi servizi, è diventato il bersaglio principale della causa intentata da Musk, che lamenta come l’azienda “ostacoli xAI nella sua capacità di innovare e migliorare la qualità e la competitività”. La frase ha un certo sapore drammatico, come se fossimo in un episodio di Silicon Valley dove i protagonisti litigano su algoritmi e brevetti più che su soldi veri.

Difficile non chiedersi se Elon Musk stia davvero proteggendo la sua startup o se stia puntando più sulla tattica negoziale che sulla sostanza tecnologica. OpenAI, con la sua rete di concorrenti tra cui Google e Meta Platforms, non è certo un monopolista incontestato. La retorica di Musk, che parla di “due monopolisti che uniscono le forze”, sembra più uno slogan di marketing giudiziario che un’analisi di mercato seria. Perfino il Dipartimento di Giustizia americano, pur indagando su Apple, non ha ancora definito concluso il dibattimento sul monopolio.

Scandalo AI: chi si arricchisce davvero mentre i giornali muoiono e perché Apple, Musk e OpenAI non diranno mai la verità

Nel tavolino fumoso del Bar dei Daini, dove i fondi di venture capital sorseggiano espresso e i vecchi CTO contano cicli di training come se fossero fiches, la conversazione di oggi gira tutta attorno a una sola parola chiave: “notizie intelligenza artificiale”. Questo numero raccoglie nove piatti caldi dalla cucina della Silicon Valley serviti con un sorriso da CEO che sa essere spietato e un poco ironico. Il lettore vuole i fatti, la visione e una spruzzata di veleno arguto; troverà tutto questo, più qualche curiosità che non avrà letto nei comunicati stampa ufficiali. La nostra tesi operativa è semplice: il mercato dell’AI non è un flash, è un movimento strutturale che altera industrie, diritti e rapporti di forza politici. Questo articolo si concentra su mercato AI, con approfondimenti su condivisione ricavi editori e battaglie regolamentari AI.

Quando Doug Clinton di Intelligent Alpha ha dichiarato che il “AI bull market still has another 2-4 years left”, al Bar dei Daini qualcuno ha battuto la tazza come per misurare la temperatura del brodo. La previsione non è una bibbia, ma nemmeno uno scherzo: parla di adozione enterprise che accelera, di infrastrutture compute che diventano commodity e di progetti di prodotto che stanno finalmente traducendo R&D in fatturato ricorrente. Il punto clef è che i dogmi degli anni Novanta, quelli del “software è tutto”, sono stati rimpiazzati da una dinamica dove modelli, dati e governance valgono più dell’interfaccia grafica del momento. Questo spiega perché gli investitori guardano ancora al comparto con appetito, anche se la razionalità valutativa è tornata al centro del tavolo dopo l’euforia iniziale.

Pagina 12 di 57

CC BY-NC-SA 4.0 DEED | Disclaimer Contenuti | Informativa Privacy | Informativa sui Cookie