Mark Zuckerberg ha sentenziato che tra 18 mesi l’intelligenza artificiale scriverà codice meglio della maggior parte degli ingegneri. Un’affermazione spavalda, da tipico CEO sotto effetto Metaverso, che ottiene ovviamente la reazione che merita: 116.000 like, 182.000 condivisioni, una valanga di commenti entusiasti, catastrofisti, o semplicemente disorientati. Eppure, dietro questa frase da copertina, si nasconde un discorso più complesso, più inquietante, e (forse) più interessante. Ma no, non è ancora la fine del software engineering. È solo la mutazione che tutti stavamo aspettando. E che molti avevano già previsto, ma senza meme virali.
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“The improvement is slow for now, but undeniable,” Zuckerberg wrote of AI’s advances. “Developing superintelligence is now in sight.”
Poche ore prima della sua trimestrale, Mark Zuckerberg ha deciso di regalarci la sua visione (leggila QUI) messianica sull’AI: una superintelligenza personalizzata per tutti, da infilare preferibilmente in un paio di occhiali smart targati Meta. Nel suo manifesto minimalista pubblicato su una pagina di testo, Zuck ci racconta di un’IA che “ti aiuta a raggiungere i tuoi obiettivi, creare ciò che vuoi vedere nel mondo, vivere qualsiasi avventura, essere un amico migliore e diventare la persona che aspiri a essere”. Tradotto: l’AI come coaching digitale per autostima 4.0, ovviamente sotto la sua supervisione.

Nel grande circo dell’intelligenza artificiale, Mark Zuckerberg non vuole più essere lo spettatore nerd in seconda fila. Dopo aver passato anni a rincorrere la Silicon Valley tra ologrammi metaversali e Ray-Ban parlanti, ora punta direttamente al cuore pulsante del settore: i cervelli che lo stanno reinventando. E non parliamo di chip, ma di quelli in carne e sangue – e bonus stock da nove zeri.
Con l’arrivo di Alexandr Wang, l’ex enfant prodige di Scale AI, Zuckerberg ha ufficialmente dato fuoco alle polveri della sua “rinascita neurale”.

C’è qualcosa di irresistibilmente ridicolo — e inquietante — nel modo in cui Mark Zuckerberg continua a reincarnarsi, senza mai cambiare davvero. La sua parabola sembra un loop narrativo scritto da un algoritmo con problemi di memoria a lungo termine: ogni tanto aggiorna il linguaggio, ma il personaggio rimane lo stesso.
Il profilo tratteggiato dal Financial Times non è nuovo per chi ha letto The Boy Kings di Katherine Losse, ex dipendente Facebook numero 51, che nel 2012 descriveva un Zuckerberg adolescente eterno, intrappolato in una bolla maschile californiana fatta di codici, birra e “awesome” ripetuto come un mantra. Quella Zuck-vision, scriveva Losse, era abitata da un culto della performance iperlogica, incapace di gestire le emozioni umane non mediabili da un database.

Nel silenzio ovattato degli uffici open space di Google, DeepMind e OpenAI, un sussurro inquietante comincia a propagarsi tra i ricercatori: “È davvero Zuck?” Una domanda che non è metafisica, ma professionale. E con ogni probabilità, economica. È infatti Mark Zuckerberg — in carne, ossa e messaggi WhatsApp personalizzati — ad aver cominciato a corteggiare personalmente il gotha della ricerca AI, proponendo offerte che definire stravaganti sarebbe un understatement imbarazzante. Si parla di pacchetti compensativi a otto cifre. Alcuni addetti ai lavori hanno sussurrato che ha “pagato 14 Instagrams” per strapparsi Alexandr Wang, il giovane prodigio e CEO di Scale AI.

Se non sei già in modalità “allarme rosso“, forse è il caso di iniziare a preoccuparsi. Mark Zuckerberg ha appena fatto qualcosa che, nel mondo degli affari e delle tecnologie, rasenta l’annuncio di guerra nucleare: ha messo nel mirino l’intera filiera dell’advertising. Non solo l’ha fatto, ma l’ha detto chiaramente e pubblicamente. Durante una conversazione con Ben Thompson di Stratechery, ha enunciato con glaciale semplicità un piano che non lascia spazio a dubbi: Meta vuole sostituire tutto il comparto creativo dell’advertising con l’intelligenza artificiale. Non ottimizzarlo. Non potenziarlo. Sostituirlo.

Non è un segreto che il regno di Menlo Park sia stato costruito a colpi di acquisizioni strategiche, mosse predatorie e una visione quasi napoleonica del controllo dei dati personali. Ma ciò che emerge dal processo antitrust tra la Federal Trade Commission e Meta è un retroscena che profuma di auto-preservazione travestita da strategia imprenditoriale.
Secondo e-mail interne risalenti a sette anni fa, Mark Zuckerberg avrebbe considerato lo scorporo volontario di Instagram, proprio perché il suo successo crescente rischiava di oscurare Facebook, la piattaforma madre.

«Allora, parliamoci chiaro: Mark Zuckerberg che va a lamentarsi da Joe Rogan per ore. No, sul serio, ore. Voglio dire, non so cosa sia più incredibile, che abbiano parlato così tanto o che ci sia qualcuno che riesce a reggere il tono di Zuckerberg per tutto quel tempo. E di cosa si lamentava? Beh, dice che il mondo aziendale è diventato “culturalmente neutralizzato”. Neutralizzato! Insomma, un’accusa forte, specialmente da uno che dirige una compagnia famosa per aver neutralizzato noi, i suoi utenti, con algoritmi che ci mostrano gattini e fake news nello stesso feed. Ma magari è solo ironico, chissà.

L’incontro tra Mark Zuckerberg, fondatore e CEO di Meta, e Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti, a Mar-a-Lago. la sua lussuosa proprietà ha colto di sorpresa molti osservatori. Questo incontro, avvenuto in un contesto in cui il settore tecnologico e la politica si trovano a un incrocio cruciale, segna un’evoluzione interessante delle dinamiche tra la Silicon Valley e il mondo politico. Ma cosa significa veramente questo passo per Zuckerberg e per il futuro delle sue piattaforme?