Lunedì scorso Sam Altman ha messo in mostra la sua strategia “Everything Everywhere All at Once” per OpenAI, e non stiamo parlando di un titolo di film ma di una vera e propria offensiva multipiattaforma sull’intelligenza artificiale. La giornata è iniziata con un annuncio a sorpresa: OpenAI collaborerà con Advanced Micro Devices per sfruttare i loro chip AI. Il risultato immediato? Il titolo AMD è schizzato del 24 per cento, e si può scommettere che Jensen Huang, CEO di Nvidia, abbia alzato un sopracciglio con la grazia di un gatto infastidito. Nvidia resta il principale fornitore di chip per OpenAI, ma vedere un concorrente incassare qualche affare non è mai piacevole, anche se lontano anni luce.
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Il logo dell’informazione
L’intelligenza artificiale ha ormai assunto la forma di un logo globale, un marchio che lampeggia ovunque: dalle slide dei consulenti agli spot di Microsoft fino ai comunicati euforici dei CEO di Silicon Valley. Il problema, come spesso accade quando il marketing corre più veloce della contabilità, è che questo logo costa più di quanto le aziende siano disposte a pagare. Sam Altman dichiara che la crescita dell’uso dei servizi di intelligenza artificiale è sorprendente. Eppure gli stessi giornali che riportano le sue parole mostrano clienti confusi, aziende reticenti, CFO che guardano i preventivi dei data center come fossero bollette del gas in pieno inverno europeo.

Il mito del fondatore miliardario sta per subire una rivoluzione radicale. Secondo Sam Altman, CEO di OpenAI, e confermato dai progressi vertiginosi di GPT-5, la prima startup individuale da 1 miliardo di dollari non nascerà dai soliti team tentacolari o dagli investimenti colossali del venture capital, ma da un singolo individuo armato di laptop, connessione Internet e una legione di agenti di intelligenza artificiale. Questo scenario potrebbe concretizzarsi già nel 2028, molto prima di quanto la maggior parte degli osservatori avrebbe previsto.
Il nuovo modello di imprenditorialità rovescia regole consolidate. Team suddivisi in silos per ricerca, marketing, vendite e supporto clienti vengono sostituiti da agenti di intelligenza artificiale che operano 24 ore su 24 nel cloud, orchestrati da una sola mente umana. Il fondatore individuale può gestire operazioni globali senza mai lasciare la cucina di casa, mentre il vecchio mix di pedigree universitario, capitali di rischio e eserciti aziendali diventa un optional secondario. Creatività, agilità e uso intelligente degli strumenti IA diventano le nuove valute del successo.

Il lancio di GPT-5 da parte di OpenAI è stato un disastro annunciato. Sam Altman, CEO dell’azienda, lo ha ammesso candidamente: “Abbiamo fatto un casino con il rollout”. Un’ammissione che suona più come una scusa che una strategia, considerando che l’azienda ha visto centinaia di milioni di utenti passare da un entusiasmo sfrenato a un disincanto altrettanto rapido. Il motivo? La sostituzione del modello 4o, apprezzato per il suo tono caldo e umano, con GPT-5, che molti utenti hanno trovato più freddo e impersonale. La reazione è stata immediata: minacce di cancellazione degli abbonamenti, discussioni infuocate su Reddit e X, e una pressione tale che OpenAI ha dovuto fare marcia indietro, ripristinando 4o come opzione per gli abbonati.

Se prendiamo per buona la ricostruzione del FT, siamo davanti all’ennesimo round di un match che ricorda più un duello da romanzo cyberpunk che un normale confronto tra start-up. Sam Altman, già impegnato a spingere OpenAI verso il ruolo di “infrastruttura cognitiva” globale, avrebbe deciso di infilare un piede in un territorio che fino a ieri era quasi monopolio narrativo di Elon Musk: l’interfaccia cervello-computer. Merge Labs, nome preso in prestito dal gergo della Silicon Valley per indicare la fusione uomo-macchina, nasce con un obiettivo dichiarato e uno implicito. Il dichiarato è costruire un ponte ad altissima velocità tra neuroni e silicio, sfruttando l’ultimo salto di qualità dell’intelligenza artificiale. L’implicito, ovviamente, è entrare nello stesso ring di Neuralink, non come comparsa ma come antagonista principale.
Quello che ti irrita di Altman è probabilmente la stessa cosa che lo rende pericolosamente convincente: dice una mezza verità e la fa sembrare una rivelazione assoluta. L’equazione che propone tra la foto di un iPhone e un video interamente sintetico di conigli saltellanti è un colpo di mano retorico elegante ma fuorviante. Certo, anche lo scatto di uno smartphone è filtrato, compresso, ribilanciato, arricchito di micro-contrasti e piccoli “aggiustamenti” cromatici. Ma quella non è la stessa cosa di un’immagine che non ha mai visto un fotone in vita sua. È la differenza tra ritoccare il trucco a una modella e inventare la modella da zero con un prompt di testo.
Il futuro è qui, e Sam Altman ce lo ha appena fatto sentire nel modo più digitale possibile: ChatGPT che genera una traccia musicale live con un sintetizzatore BeatBot, partendo da una semplice frase. “Use beatbot to make a sick beat to celebrate gpt-5.” Non è fantascienza, è un nuovo paradigma di UX, dove metti l’intento e ottieni l’interfaccia che lavora per te, senza interruzioni.
La visione che Altman mostra rappresenta proprio ciò che tutti noi, CTO e innovatori digitali, aspettiamo da anni: un’AI che traduce il linguaggio naturale in strumenti operativi, in tempo reale. Pensa a quanto potrebbe cambiare il workflow creativo, soprattutto se si sposa con intelligenza artificiale generativa e interfacce dinamiche.

Rahman non è nuovo alle rivoluzioni. Ma questa volta il compositore premio Oscar non sta scrivendo solo musica. Sta orchestrando un messaggio strategico che risuona più forte di qualsiasi sinfonia. La sua visita a OpenAI, con in mano Secret Mountain, non è solo un atto artistico. È una dichiarazione geopolitica sulla nuova mappa del potere culturale nell’intelligenza artificiale. India non è più solo un laboratorio di manodopera tecnica per le big tech americane. È il nuovo centro narrativo che l’AI non può più ignorare. E il fatto che sia proprio AR Rahman a incarnare questa trasformazione non è un dettaglio casuale. È marketing culturale allo stato puro, ma con un’intenzione molto più profonda.
Sam Altman vuole dare a tutto il pianeta accesso gratuito e illimitato a GPT‑5. Sì, avete letto bene: non solo ai ricercatori o agli sviluppatori, ma ad ogni essere umano sulla Terra, H24, gratuitamente, sotto il suo stesso account OpenAI. Il sogno è che l’intelligenza artificiale diventi l’infrastruttura su cui poggiano decisioni su frodi, finanza personale, valutazioni di rischio, inclusi servizi che nei Paesi in via di sviluppo potrebbero saltare direttamente all’AI come salto tecnologico, analogamente al mobile che ha saltato la fase del fisso. Scordatevi i filtri: tutti gli utenti ChatGPT free – nella fascia standard – avranno accesso illimitato a GPT‑5; chi sottoscrive Plus o Pro potrà entrare in livelli di “intelligenza superiore”.
La privacy AI è un ossimoro affascinante. Ci piace pensare che una conversazione con un’intelligenza artificiale sia un momento intimo, quasi catartico, un confessionale digitale dove possiamo scaricare i nostri drammi sentimentali o le nostre paure professionali senza timore. Peccato che Sam Altman, il CEO di OpenAI, ci abbia appena ricordato che è una fantasia. Niente riservatezza conversazioni digitali, niente confidenzialità dati sensibili. Se oggi ti confidi con un avvocato o un terapeuta, la legge ti protegge. Se ti confidi con ChatGPT, sei solo un dato tra miliardi, pronto a essere esaminato in tribunale su richiesta di un giudice. È il prezzo della modernità, ci dicono. Ma è anche un gigantesco problema di fiducia che potrebbe frenare l’adozione di massa dell’intelligenza artificiale.

Quando Sam Altman dice “un milione di GPU entro fine anno” non sta vendendo sogni a venture capitalist annoiati, sta ridisegnando la mappa geopolitica dell’AI. Chi pensa che questa sia solo un’altra corsa hardware non ha capito niente. Qui non si tratta di aggiungere qualche zero ai data center, qui si tratta di sradicare la vecchia idea che la scarsità computazionale fosse il freno naturale dell’intelligenza artificiale. Altman ha già dato ordine di puntare a un 100x, e lo dice con quella calma inquietante tipica di chi ha già visto la fine della partita.

La fiducia, come concetto filosofico, è sempre stata un atto rischioso. Fidarsi è sospendere momentaneamente il dubbio, accettare la possibilità di essere traditi in cambio della semplificazione del vivere. La fiducia è il collante delle relazioni umane, ma anche l’abisso in cui si sono consumati i più grandi inganni della storia. Fidarsi dell’altro significa spesso delegare la fatica del pensiero. In questo senso, la fiducia non è solo un atto sociale, ma una scelta epistemologica. Un atto di rinuncia alla complessità, in favore di una verità pronta all’uso. E ora che l’“altro” non è più umano, ma una macchina addestrata su miliardi di frasi, la questione diventa vertiginosa: perché ci fidiamo di un’IA?

Se pensate che la guerra per l’intelligenza artificiale si giochi solo sulle capacità dei modelli e sulla potenza dei data center, vi sbagliate di grosso. Dietro ogni algoritmo all’avanguardia c’è una partita ben più umana, meno visibile ma molto più decisiva: la battaglia per il talento. E in questa sfida, le mosse di Meta contro OpenAI raccontano una storia che va ben oltre i numeri o le dichiarazioni di facciata.
Meta ha appena fatto un colpo grosso, strappando almeno otto ricercatori di punta da OpenAI con offerte stratosferiche da 100 milioni di dollari. Non si tratta di un semplice scambio di dipendenti, ma di un vero e proprio esodo di menti preziose che scuote le fondamenta della più famosa startup dell’intelligenza artificiale. In gioco non c’è solo la supremazia tecnologica, ma la sopravvivenza stessa delle culture organizzative di due giganti che stanno scrivendo il futuro del mondo digitale.

Sam Altman non crede più nel software. E se a dirlo fosse stato un qualsiasi sviluppatore stanco di ottimizzare il backend per il millesimo ciclo di training, la notizia non avrebbe fatto rumore. Ma qui stiamo parlando del profeta dell’intelligenza artificiale generativa, il CEO di OpenAI, l’uomo che con ChatGPT ha innescato la corsa globale al cervello sintetico. L’apostolo del prompt engineering che ora si scopre… ingegnere hardware. È come se Tim Berners-Lee si mettesse a vendere modem USB nei mercatini dell’usato. O forse qualcosa di ancora più teatrale. Perché Altman non sta semplicemente dicendo che serve nuovo hardware. Sta dicendo che l’intero paradigma computazionale su cui si regge l’era moderna è sbagliato. Troppo lento. Troppo inefficiente. Inadeguato a contenere l’intelligenza artificiale che lui stesso ha evocato.

Questa è la Silicon Valley nel suo stato più puro: miliardi di dollari, nomi vagamente minimalisti, promesse di rivoluzioni e una lunga scia di ego feriti. La battaglia legale tra OpenAI e la piccola startup Iyo è più di una lite su un nome è un riflesso cristallino dell’industria tecnologica attuale, dove la prossimità a un visionario può valere più di qualsiasi brevetto. Quando Sam Altman pubblica le email private su X per “fare chiarezza”, non lo fa per trasparenza: lo fa per segnare il campo. Il messaggio è chiaro: questo è il nostro terreno, e vi abbiamo già battuti prima ancora di iniziare.
Al centro del contenzioso c’è un dispositivo AI ancora misterioso, un prodotto nato dalla collaborazione tra OpenAI e Jony Ive l’uomo che ha disegnato l’iPhone e ora promette di reinventare l’interfaccia uomo-macchina. Il nome iniziale? io, minuscolo, pulito, evocativo. Peccato che fosse quasi identico a quello della startup di Jason Rugolo: IyO, un progetto dichiaratamente simile, in sviluppo dal 2018, che si presenta come “l’interfaccia hardware definitiva per gli agenti AI”. Tradotto dal gergo delle startup: un auricolare smart progettato per dialogare in tempo reale con intelligenze artificiali. Rugolo l’ha lanciato, l’ha pitchato, l’ha dimostrato… anche a Sam Altman in persona.

La situazione ha dell’assurdo, ma è esattamente ciò che ci si aspetta nel 2025: una delle più grandi operazioni AI-hardware dell’anno, quella tra OpenAI e la startup fondata da Jony Ive, io, scompare dal web come se non fosse mai esistita. Pagine sparite, video oscurati, blog post ritrattati. Il tutto per una “i” minuscola in più e una “O” maiuscola al posto giusto.
OpenAI ha confermato a The Verge che l’accordo con io (la startup hardware) è ancora in piedi, nonostante la misteriosa rimozione del materiale ufficiale. Ma c’è di mezzo un contenzioso legale: Iyo, una società che produce dispositivi acustici e che nasce da una costola dell’X Lab di Google, ha avviato un’azione per violazione di marchio. A quanto pare, in un mondo dove l’intelligenza artificiale può progettare interfacce neurali, nessuno è ancora riuscito a inventare nomi che non si pestino i piedi nel trademark.
Non è una guerra fredda, è una guerra neuronale. Niente spie, niente codici Morse, solo zeri e uno, valigette di stock option e firme su NDA lunghi quanto la Bibbia. Sam Altman, CEO di OpenAI e ormai avatar vivente dell’etica tecnoliquida, ha rivelato che Meta avrebbe offerto bonus di 100 milioni di dollari a singoli dipendenti di OpenAI. Sì, cento milioni. A testa. Per firmare un contratto e cambiare bandiera. Una mossa più da hedge fund che da laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale.

L’intelligenza artificiale è idrovora. Non nel senso metafisico, ma molto concreto: ogni parola che leggi, ogni domanda che fai a ChatGPT, ogni linea di codice predetta da un LLM brucia corrente e assorbe acqua. Non solo silicio e matematica, ma infrastruttura fisica e risorse naturali, come ogni altra tecnologia della storia.
Sam Altman, CEO di OpenAI e oracolo involontario dell’era post-digitale, ha recentemente pubblicato un post dove tenta di rassicurare (o distrarre?) l’opinione pubblica con un dato apparentemente innocuo: “una query media di ChatGPT consuma circa 0.000085 galloni d’acqua, ovvero circa un quindicesimo di cucchiaino”. Messa così, l’IA sembra meno un mostro energetico e più una tisana tiepida.

C’è qualcosa di paradossale nella calma con cui Sam Altman annuncia che l’umanità ha appena varcato un “event horizon” verso la superintelligenza. Come se stesse commentando la temperatura del tè, il CEO di OpenAI ha scritto: “Siamo oltre il punto di non ritorno; il decollo è iniziato.” È il tipo di frase che dovrebbe causare panico, o almeno un improvviso bisogno di respirare profondamente. Invece, niente. La reazione globale? Un misto di entusiasmo, scetticismo e una scrollata di spalle tecnologicamente rassegnata.
Secondo Altman, ci stiamo avviando verso quella che chiama singolarità morbida, un passaggio dolce ma inesorabile verso l’intelligenza digitale superiore. Non la distopia di Skynet, non l’esplosione prometeica di una mente artificiale che ci ridicolizza; piuttosto, una transizione “gestibile”, graduale, quasi noiosamente prevedibile. Il problema è che, come ogni vera rivoluzione, anche questa si maschera da evoluzione lineare.

Cosa sei disposto a cedere per provare di essere umano? Una domanda che un tempo avrebbe fatto sorridere i più. Oggi, invece, assume contorni squisitamente reali, con un valore preciso, misurabile, convertibile: 42 dollari in Worldcoin, una criptovaluta creata ad hoc per costruire la più ambiziosa infrastruttura di identità digitale globale mai tentata. Tutto questo grazie a Orb, un globo futuristico che scansiona il tuo occhio e ti dà in cambio un’identità verificata. E, appunto, quei 42 dollari.
Sembra una puntata distopica di Black Mirror e invece è una strategia di business. Geniale? Forse. Inquietante? Sicuramente. Ma soprattutto, è un’operazione di potere mascherata da inclusività tecnologica. Un’utopia travestita da soluzione.
La tecnologia è, a ben vedere, di una semplicità disarmante: guardi dentro l’Orb, ti viene scannerizzata l’iride, ne esce un codice binario lungo 12.800 cifre, una sorta di DNA digitale, e voilà, sei un essere umano certificato. Il codice viaggia sul tuo smartphone, associato a un’app. Tu ricevi la tua moneta, loro ricevono la tua identità.

Se ancora non ti è chiaro, te lo riscrivo in grassetto: il comunicato stampa è morto. Cancellato. Annientato. Bruciato nel falò dell’era post-carta, post-verità e post-umiltà. Sam Altman, con un video da boutique hollywoodiana da 6,5 miliardi di dollari (più o meno), ha riscritto l’estetica della comunicazione aziendale, ma soprattutto ha riscritto le sue regole non dette. Quelle che una volta erano dominio dei ghostwriter e dei PR con lo smoking, oggi appartengono ai CEO-registi, CEO-attori, CEO-oracoli.
L’acquisizione della startup fondata da Jony Ive il Michelangelo dell’oggettistica Apple non è stata annunciata con un documento freddo, ma con un film. No, non un video. Un film. Montato, color grading perfetto, dialoghi sussurrati, camera morbida, inquadrature a regola d’arte. Roba che neanche Wes Anderson sotto acido. Altman e Ive si parlano come se stessero spiegando il destino dell’umanità mentre sorseggiano tè nello studio di un monaco zen. E la cosa inquietante è che funziona.

Karen Hao ha scritto un libro che avrebbe potuto cambiare la narrazione sull’intelligenza artificiale. Ma ha scelto di trasformarlo in un trattato ideologico, con inserti da assemblea studentesca e comparazioni storiche da denuncia ONU. “Empire of AI” è un’opera che parte da un presupposto legittimo l’IA è piena di ombre – e poi cerca di trascinare il lettore in una valle di lacrime dove Altman è un despota, l’AGI un miraggio e OpenAI una multinazionale tossica guidata da una setta di ingegneri psicopatici.

Immagina se Her di Spike Jonze non fosse più solo un film. Se Samantha non fosse una voce sexy e onnisciente nella testa di Joaquin Phoenix, ma un archivio vivo, mutevole, connesso a ogni respiro digitale della tua esistenza. Oppure ripensa a The Circle di Dave Eggers, dove ogni dato, ogni impulso, ogni interazione viene trasformata in trasparenza e controllo, travestiti da progresso. Sam Altman non ha solo visto quei film. Li sta producendo nella realtà. E stavolta, sei tu il protagonista.

Sam Altman, il CEO di OpenAI, ha invitato i giornalisti del Financial Times a pranzo, probabilmente per discutere della sua visione per il futuro dell’intelligenza artificiale. Quello che non si aspettava, però, è che l’intervista si trasformasse in una sessione di kitchen-shaming senza precedenti. Sì, avete letto bene: la sua cucina, quella che avrebbe dovuto essere il rifugio culinario di un uomo che ha tutto, ma proprio tutto, dalla tecnologia al denaro, è finita sotto la lente di ingrandimento. E il risultato è tutt’altro che lodevole.

Tecnologia, sangue giovane e cervelli surgelati: l’élite tech si prepara all’apocalisse, tu resta con l’ansia e il mutuo
Sì, hai letto bene: Sam Altman ha sborsato 10.000 dollari per farsi congelare il cervello da una startup chiamata Nectome, incubata a Y Combinator mentre lui stesso ne era presidente. Dettaglio clinico non trascurabile: la procedura è descritta come “100% fatale“. Una specie di eutanasia hi-tech per chi vuole essere pronto nel caso in cui il download della coscienza diventi mainstream.
Altman non è solo in questa distopia glamour. Sta crescendo una vera e propria ossessione da parte dei miliardari della Silicon Valley per l’immortalità, la preservazione cerebrale, le trasfusioni di sangue giovane, e i rifugi anti-civiltà nascosti negli angoli più remoti del pianeta. Il tutto mentre al resto dell’umanità viene chiesto di “adattarsi”, “reskilling” e usare ChatGPT per rifare il CV.

Se ti avessero raccontato, qualche anno fa, che milioni di persone si sarebbero messe in fila per farsi scannerizzare l’iride da un globo metallico in cambio di qualche spicciolo virtuale, probabilmente avresti pensato a un episodio di Black Mirror. E invece no. Benvenuto nel presente, dove la realtà fa impallidire la distopia: Worldcoin, la criptovaluta fondata da Sam Altman, è ufficialmente sbarcata negli Stati Uniti, armata di orbs, wallet, ID biometrici, accordi con Visa e sogni messianici di universal basic income post-AI. E se non ti sembra abbastanza inquietante, aspetta che arrivino gli “orb mini”, portatili come uno smartphone e, presumibilmente, altrettanto ubiqui.
Worldcoin è, per sua stessa dichiarazione, un sistema per “ristabilire la fiducia nell’era dell’AGI”. Traduzione: distinguere gli esseri umani dagli algoritmi generativi in un mondo dove l’identità digitale è fluida, falsificabile, manipolabile. Per farlo, Tools for Humanity – la startup fondata nel 2019 da Altman, Alex Blania e Max Novendstern – ha costruito un sistema basato su World ID, una sorta di passaporto digitale biometrico certificato tramite scansione dell’iride, registrato su una blockchain Ethereum-native chiamata World Chain. In cambio, ricevi token WLD, con la promessa di usarli in un’economia futura più giusta, inclusiva e… completamente controllata.

Sam Altman non investe, orchestra. La sua strategia assomiglia più a una sinfonia tecnofuturista che a un classico portafoglio da venture capitalist. Non è il classico miliardario che diversifica per ridurre il rischio, ma uno che punta tutto su un futuro ben preciso e spaventosamente coerente. Se uno si ferma a un solo annuncio, tipo lo scanner oculare di Worldcoin può pensare a un’altra Silicon Valley gimmick. Ma mettendo insieme Retro Biosciences, Roboflow, Operator, OpenResearch, Oklo, e soprattutto Stargate, il quadro si fa chiarissimo: Altman non vuole costruire l’ennesima startup. Vuole ricablare la civiltà.
Partiamo dall’inizio, o dalla fine, a seconda di come lo si guarda: Retro Biosciences. Un’azienda che lavora per allungare la vita di dieci anni. Non cinquanta. Dieci. Quel tanto che basta per arrivare vivi e vegeti all’era in cui le macchine faranno tutto. Un’umanità mantenuta efficiente ma sempre meno necessaria, che deve solo resistere abbastanza per non perdersi la festa finale.

OpenAI sta addestrando un nuovo modello per migliorare nella scrittura creativa; un campione di questo ha ricevuto reazioni molto contrastanti — molte critiche, ma anche elogio da parte di almeno un’autrice.
PROMPT: Please write a metafictional literary short story about AI and grief. COMPLETION:

Dal suo blog.
L’umanità è sempre stata un costruttore di strumenti, unita da un’inesauribile spinta verso l’innovazione. L’intelligenza artificiale generale (AGI) si profila come l’ultimo tassello di un progresso che ha visto l’energia elettrica, il transistor, il computer e Internet ridefinire il nostro modo di vivere. Tuttavia, questa volta potrebbe davvero essere diverso: le implicazioni economiche e sociali dell’AGI sono destinate a superare ogni previsione.
Le più recenti osservazioni sullo sviluppo dell’IA suggeriscono tre principi fondamentali: il livello di intelligenza di un modello AI cresce in modo logaritmico rispetto alle risorse impiegate nel suo addestramento; il costo di utilizzo di un livello dato di intelligenza AI si riduce di un fattore 10 ogni 12 mesi; e il valore socioeconomico dell’intelligenza aumenta in modo super-esponenziale rispetto alla sua crescita lineare. Questi trend stanno ridisegnando il paradigma economico, con la possibilità di una crescita senza precedenti e di una riduzione drastica dei costi in settori chiave.
Masayoshi Son, CEO di SoftBank, ha tranquillizzato tutti: l’intelligenza artificiale non ci mangerà. Non perché ci voglia bene, non perché abbia un’etica, ma semplicemente perché non funziona a proteine. “Se la loro fonte di energia fosse proteine, allora sarebbe pericoloso,” ha spiegato Son, con la serena consapevolezza di chi sta costruendo il futuro dell’umanità con la stessa nonchalance con cui si investe in una startup di delivery.
A fargli eco, Sam Altman di OpenAI, che durante il loro incontro a Tokyo ha rassicurato il pubblico su un altro aspetto: l’AI non ruberà nemmeno il lavoro, perché, tanto, l’umanità trova sempre qualcosa da fare. Certo, come no. Così come i tessitori del XIX secolo hanno trovato facilmente impiego quando i telai automatici hanno fatto il loro ingresso trionfale nelle fabbriche. O come i lavoratori del call center quando sono arrivati i chatbot. Il progresso non si ferma mai: l’importante è che la gente continui a essere ottimista mentre l’AI riscrive le regole del gioco.

Sam Altman, il guru di OpenAI, ha finalmente avuto un’epifania: “Forse essere aperti non è stata la mossa migliore forse essere closed-source come una cassaforte svizzera sarebbe stato meglio” Certo, non è che la compagnia ci sia arrivata da sola, ma è stata spinta con forza da un terremoto chiamato DeepSeek, lo ha detto durante il Reddit “Ask Me Anything“, (AMA) anche se a Roma significa altro..
Durante un’illuminante sessione su Reddit, Altman ha confessato candidamente che forse OpenAI ha “sbagliato lato della storia” sul tema dell’open source. Ovviamente, non tutti in OpenAI condividono questa opinione, e nemmeno è la loro “priorità assoluta” – perché perché mai dovrebbe esserlo?

Sam Altman ha passato l’ultimo anno a inseguire una quantità assurda di potenza di calcolo per addestrare i modelli di OpenAI. La richiesta era così esorbitante che, secondo alcuni report, funzionari giapponesi sarebbero scoppiati a ridere quando ha rivelato il consumo energetico necessario.
Data center più estesi possono richiedere da 20 a 100 megawatt di energia, e alcuni degli impianti più avanzati potrebbero arrivare fino a 150 MW per coprire centinaia di migliaia di server.
Se l’ambizione di Stargate è quella di creare una rete di molti centri di calcolo distribuiti, ciascuno con un consumo energetico significativo, il consumo totale potrebbe arrivare a migliaia di MW se contiamo decine di complessi. Ad esempio, se si parlasse di 10 centri di calcolo ognuno da 100 MW, il totale potrebbe arrivare a 1.000 MW (1 GW) di potenza, che è l’equivalente di un’intera centrale elettrica di medie dimensioni.

Il Brasile ha deciso di bloccare il controverso progetto Worldcoin, guidato da Sam Altman, che prevedeva il pagamento in criptovalute ai cittadini in cambio della scansione dell’iride. Questa misura è stata presa dall’Autorità brasiliana per la protezione dei dati personali (ANPD), che ha dichiarato che l’offerta di criptovalute in cambio di dati biometrici potrebbe compromettere la capacità dei cittadini di fornire un consenso libero e informato per il trattamento dei propri dati sensibili.
Secondo quanto riportato da Reuters e ripreso da The Economic Times, l’ANPD ha sottolineato che il consenso per il trattamento di dati personali sensibili, come quelli biometrici, deve rispettare criteri rigorosi. Deve essere libero, cioè non influenzato da alcun incentivo economico, informato in modo che l’individuo comprenda appieno le implicazioni dell’uso dei propri dati; inequivocabile, lasciando spazio a nessun dubbio; e con uno scopo specifico e chiaramente indicato.

“L’hype su Twitter è completamente fuori controllo”, ha scritto Sam Altman su X, il 20 gennaio 2025, cercando di spegnere le aspettative gonfiate dagli ultimi mesi di dichiarazioni enigmatiche e previsioni audaci riguardo al modello più recente di OpenAI, l’o3. “Non lanceremo AGI il mese prossimo, e non l’abbiamo nemmeno costruita.”

[Please] chill and cut your expectations 100x!”
Questo richiamo alla calma è arrivato dopo settimane di rumor in cui Altman aveva alimentato l’immaginario collettivo con visioni avveniristiche. Nel suo ultimo post sul blog, pubblicato il 5 gennaio, Altman aveva affermato che OpenAI era ormai certa di sapere come costruire una AGI (Artificial General Intelligence) e che già nel 2025 avremmo visto agenti AI entrare nella forza lavoro, rivoluzionando la produttività aziendale. “Riteniamo che in pochi migliaia di giorni potrebbero emergere strumenti di superintelligenza,” aveva aggiunto.


A dicembre, Sam Altman, il visionario dietro OpenAI o se vogliamo, il nuovo oracolo di Silicon Valley ha deciso di aprire il portafoglio e regalare un milione di dollari al fondo inaugurale di Donald J. Trump. Uno potrebbe pensare: “Ecco un uomo che sa come posizionarsi nel mondo, anche quando il mondo sembra un po’ sottosopra.” È una mossa che si inserisce perfettamente nel manuale non scritto del settore tecnologico: quando sei già incredibilmente ricco e potente, perché non investire qualche spicciolo per assicurarti che anche il potere politico ti sorrida?
Adesso, Altman e la sua squadra di OpenAI una startup che ha cambiato il gioco con ChatGPT e dato a tutti una scusa per parlare con un computer – stanno facendo un ulteriore passo avanti. Stanno cercando di spiegare al mondo, e alla prossima amministrazione, come l’intelligenza artificiale sia la chiave per il futuro. Ovviamente, un futuro dove loro sono i protagonisti.
In un documento che chiamano pomposamente “progetto economico per l’intelligenza artificiale in America” –perché dire semplicemente “Come rimanere rilevanti e potenti nel prossimo decennio” non suonava abbastanza elegante – propongono politiche per stimolare la crescita tecnologica, minimizzare i rischi (quelli per loro, si intende) e mantenere la Cina lontana dal podio.

Sam Altman ha iniziato il 2025 con una serie di dichiarazioni forti che delineano la sua visione per il futuro dell’intelligenza artificiale e le sfide interne di OpenAI. In un post sul blog, ha affermato con sicurezza: “Siamo ora certi di sapere come costruire l’AGI come l’abbiamo tradizionalmente intesa. Crediamo che, nel 2025, potremmo vedere i primi agenti AI ‘unirsi alla forza lavoro’ e cambiare materialmente la produzione delle aziende”. Proseguendo, ha espresso l’ambizione di andare oltre l’AGI: “Stiamo iniziando a volgere il nostro obiettivo oltre questo, verso la superintelligenza nel vero senso della parola”.

Ann Altman ha intentato una causa contro suo fratello, Sam Altman, CEO di OpenAI, accusandolo di abusi sessuali protratti durante la loro infanzia, dal 1997 al 2006. Le accuse sostengono che gli abusi siano iniziati quando Ann aveva tre anni e Sam dodici, continuando fino a quando Sam è diventato maggiorenne. La causa, presentata presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto Orientale del Missouri, afferma che Ann ha subito “grave disagio emotivo” che le ha impedito di condurre una “vita normale” a causa degli abusi presunti.

Il futuro. Un futuro che sembra sempre più somigliare a una combinazione di una commedia grottesca e un thriller psicologico, dove la trama si sviluppa mentre noi stessi siamo in bilico tra il rischio di farci fregare da una macchina e il desiderio insopprimibile di diventare parte di quella macchina. Quella che potrebbe essere la prossima grande svolta nell’intelligenza artificiale ha due nomi che ormai tutti conoscono: Sam Altman e Vitalik Buterin. E naturalmente, come accade in tutte le storie di grande importanza, le loro visioni sono divergenti.

È un pomeriggio grigio da ufficio open space, di quelli in cui il Wi-Fi va e viene come un coinquilino inaffidabile. Intanto, nel mondo dorato delle big tech, Mustafa Suleyman, CEO di Microsoft AI, e Sam Altman, CEO di OpenAI, sono immersi in un acceso dibattito su uno dei temi più caldi del business tecnologico: l’AGI (Intelligenza Artificiale Generale). Non è solo teoria accademica: è una sfida da miliardi di dollari in capitale di rischio, acquisizioni e strategie di mercato.