Cosa succede quando un tecnocrate con deliri da ingegnere zen si lancia nella giungla burocratica di Washington? Succede Elon Musk. E succede che, dopo una breve ma devastante parentesi come special government employee una carica tanto ambigua quanto pericolosa l’uomo che voleva rendere il governo americano “snello come un razzo Falcon” si ritira con un tweet degno di un film Marvel: la missione non è finita, anzi, è diventata uno stile di vita. Per chi, però, non è chiaro.

Benvenuti nel DOGE, il Dipartimento per l’Efficienza Governativa, partorito dall’ego collettivo di Musk e di un’amministrazione Trump ormai sempre più modellata come una startup tossica in fase di IPO permanente. Una macchina da guerra neoliberista travestita da innovazione, il DOGE non ha risparmiato nessuno: migliaia di dipendenti federali licenziati, intere agenzie federali smantellate come fossero rami secchi di un’azienda in crisi, tagli lineari mascherati da “ottimizzazione”.

E qui viene il punto cruciale, l’inganno semantico di fondo: efficienza.

Nell’ideologia muskiana figlia bastarda della Silicon Valley e del pensiero iper-capitalista efficienza non è un valore, è una religione. Ma è anche un’arma. Tagliare il grasso, dicono. Semplificare. Automatizzare. Disintermediare. Peccato che il grasso in questione sia spesso il tessuto connettivo della democrazia: educazione pubblica, sicurezza alimentare, protezione ambientale, welfare. E che l’automazione abbia un prezzo umano che non compare mai nei fogli Excel.

Musk se ne va, ma lascia dietro di sé un governo con meno dipendenti e più caos, meno burocrazia e più voragini gestionali. È il tipico paradosso dell’approccio Musk: si demolisce l’esistente in nome della velocità, della scala, del move fast and break things. E quando le cose si rompono davvero, si torna a costruire razzi e pickup elettrici.

C’è qualcosa di quasi evangelico nella sua uscita di scena. Un tweet, ovviamente. Un’epifania: il governo non ha bisogno di una task force, ha bisogno di una conversione culturale. Cioè di diventare, per citare il profeta, una specie di estensione comportamentale della filosofia DOGE. Il governo come un’azienda? Sì. Ma non un’azienda etica, pubblica, trasparente. Una startup a trazione privata, dove il fallimento è contemplato — purché non si parli di responsabilità.

La ciliegina è la sua critica al “Big Beautiful Bill” di Trump, una legge che lui stesso avrebbe contribuito a sabotare con le sue riforme predatorie. Difficile non intravedere una dinamica da marito violento che si lamenta dell’arredamento dopo aver dato fuoco alla casa.

Non mancano le contraddizioni: lo stesso Musk che voleva razionalizzare la macchina statale ora si dice deluso, troppo impegnato, disilluso. “Spendere molto meno per la politica in futuro”, dice. Ma il danno è fatto. Il suo passaggio a Washington non è stato un esperimento tecnico, ma una detonazione ideologica.

Il sogno della macchina statale snella, veloce, privatizzata portata avanti da un manipolo di manager visionari è l’ennesima reincarnazione di un mito neoliberista che negli anni ’80 vestiva i panni di Reagan e ora quelli di uno SpaceX magnate con il culto dell’algoritmo. È lo stesso sogno che ci ha portato crisi sistemiche, sorveglianza di massa e un capitalismo con la sindrome da supereroe.

“Efficienza” diventa la parola d’ordine per giustificare tutto. Ma a cosa serve un governo efficiente se non è anche giusto, equo, presente? Il problema è che il modello di business di Musk — il vero DOGE, altro che Department — non contempla il bene pubblico. Contempla l’ottimizzazione. E ottimizzare vuol dire tagliare. Sempre. Senza pietà.

C’è una vecchia battuta nella burocrazia federale: “Se qualcosa funziona, è perché nessuno ha ancora cercato di renderla efficiente.” Musk l’ha presa troppo sul serio. E adesso il prezzo lo pagano cittadini reali, con bisogni reali, che si ritrovano senza servizi essenziali. La rivoluzione è servita, ma è un piatto freddo di algoritmi e licenziamenti.

E come ogni rivoluzionario pentito, Musk ora torna al suo Olimpo tecnologico, dove l’unico governo è quello dei codici binari e dei tweet. Ma il suo passaggio non verrà dimenticato. Perché se c’è una cosa che la sua parabola a Washington ci ha insegnato è che la tecnologia può essere la nuova ideologia dominante — e che quando un miliardario parla di “efficienza”, è tempo di preoccuparsi.

Una volta Orwell scrisse: “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Oggi basta dire “ottimizzazione” per radere al suolo interi pezzi di stato. E nessuno protesta. Perché è “innovazione”.

Benvenuti nell’era del governo-as-a-service.