Sotto la superficie diplomatica levigata dei colloqui di Ginevra, si consuma l’ennesimo atto del disaccoppiamento tecnologico tra Stati Uniti e Cina. Niente più sorrisi da foto opportunity, solo freddi fax del Dipartimento del Commercio americano. La Silicon Valley ha ricevuto l’ordine: smettere di esportare strumenti di Electronic Design Automation (EDA) a Pechino. Cadence, Synopsys, Siemens EDA: messi in riga, come scacchi sacrificabili sulla scacchiera geopolitica dei semiconduttori.
I colpi di scena non finiscono qui. La Casa Bianca ha anche messo in pausa alcune licenze concesse a fornitori americani per collaborare con COMAC, il Boeing cinese che sogna il decollo del C919, l’aereo destinato a spezzare il duopolio Airbus-Boeing. L’alibi? Le recenti restrizioni cinesi sulle esportazioni di terre rare. Il messaggio tra le righe: se ci provate con i minerali, noi chiudiamo i rubinetti dell’ingegneria.
Dietro le quinte, la tensione monta. Perché questa volta non si tratta più di dazi su lavatrici o soia, ma del cuore pulsante del XXI secolo: l’intelligenza artificiale, la microelettronica, i motori a reazione. In pratica, la sovranità tecnologica.
Nick Marro, dell’Economist Intelligence Unit, lo dice chiaro: si è rotto l’equilibrio post-Ginevra, quel cessate il fuoco fragile che aveva illuso i mercati. Ora il conflitto si sposta là dove il compromesso è impossibile: nei bit e nei brevetti.
La parola d’ordine è leverage. Gli USA dominano il software per progettare chip, e lo usano per rallentare la rincorsa cinese. Ma attenzione: ogni azione genera una reazione. E infatti a Pechino le aziende EDA locali sono esplose in Borsa, alimentando la narrativa autocelebrativa del “noi ce la facciamo da soli”. Nazionalismo e capex come risposta al blocco tecnologico. D’altronde, se ti vietano di comprare gli attrezzi, ti metti a costruirli.
Ironia della sorte: gli USA cercano di arginare la Cina, ma ne accelerano la corsa verso l’autosufficienza. Un paradosso che gli strateghi americani conoscono benissimo, ma che accettano per necessità. Meglio uno scontro ora che un dominio cinese domani.
Nel settore aerospaziale la situazione è più delicata. Un motore non si improvvisa. Li Hanming lo spiega in modo brutale: anche se hai un’azienda, senza design ad hoc ci vogliono anni per cambiare propulsore. La Cina guarda a Rolls-Royce, certo, ma l’ecosistema globale è ancora americano-centrico. La sfida, quindi, non è tanto tecnologica quanto geopolitica: quanto a lungo gli alleati di Washington – Europa, Medio Oriente, Asia – accetteranno di diventare comparse in un film scritto a Capitol Hill?
A rincarare la dose, c’è il capitolo terre rare. Settore dove Pechino ha il coltello dalla parte del manico. Le restrizioni introdotte ad aprile – sette tipologie strategiche di minerali bloccate con licenze selettive – rappresentano il tallone d’Achille dell’industria USA. E qui la diplomazia cinese gioca sporco: promette aperture, poi non le attua. Una tattica logorante, che tiene Washington sulla corda.
Nel frattempo, i cittadini cinesi, quelli veri, non quelli da comunicato stampa, sentono il peso di questa guerra ibrida. L’assenza di chip occidentali rallenta lo sviluppo di device, il controllo sui minerali porta a colli di bottiglia industriali, e l’intero settore dell’aviazione soffre di rallentamenti dovuti all’incertezza sui fornitori. Ma in un sistema dove la narrativa ufficiale è l’arma principale, questi effetti collaterali vengono metabolizzati e trasformati in eroismo economico. È la “Lunga Marcia 2.0”: non più nelle campagne, ma tra i wafer e i data center.
A Washington, intanto, si combatte un altro fronte: quello legale. Un tribunale federale ha bloccato i super-dazi “Liberation Day” di Trump, ricordando che neanche l’uomo arancione può aggirare la Costituzione con dichiarazioni d’emergenza personalizzate. Ma il segnale resta: la guerra dei dazi è solo l’inizio. Il vero terreno di scontro è l’export control.
E qui si entra in una spirale potenzialmente senza uscita. Perché a differenza delle tariffe – negoziabili, reversibili, mediaticamente flessibili – i blocchi tecnologici incidono in profondità. Cambiano le filiere, ridefiniscono gli standard, costringono interi settori a reinventarsi. È il decoupling, bellezza. Un processo che, una volta avviato, non si può fermare senza perdere la faccia, il vantaggio strategico e i voti.
Come diceva Deng Xiaoping: “Non importa se il gatto è bianco o nero, purché prenda i topi.” Oggi, però, il topo è quantico, vola a Mach 2 e si stampa in nanometri. E il gatto ha il passaporto americano.
Mentre l’opinione pubblica occidentale si illude che il problema sia TikTok o i palloni spia, i veri asset in gioco sono invisibili e potenti: tool EDA, licenze di export, supply chain frazionate. Il mondo si frammenta non per ideologia, ma per standard e compatibilità.
Ecco perché il decoupling non è una minaccia, ma una realtà. Una nuova cortina di silicio si sta abbattendo sul mondo. E questa volta non si alzerà con un discorso a Berlino, ma forse con un nuovo standard IEEE.