Italia, algoritmo zoppo: perché l’intelligenza artificiale fatica a entrare nel sistema produttivo
Italia, 2025. Otto imprese su cento hanno adottato almeno una tecnologia di intelligenza artificiale. Meno di una su tre tra quelle che ne hanno sentito parlare è riuscita a integrarla in modo concreto. In un’epoca in cui anche il panettiere sotto casa usa ChatGPT per controllare l’ortografia del cartello “chiuso per ferie”, il nostro tessuto produttivo arranca come un modem 56k nel bel mezzo del 5G.
La keyword dominante è “adozione IA”, le sue compagne di viaggio sono “sistema produttivo” e “digitale industriale”. Eppure, sembrano più titoli di un convegno istituzionale che realtà tangibili nelle PMI italiane.
Secondo l’ultimo report Confindustria, basato sui dati ISTAT e oltre 240 casi d’uso reali, il quadro è fin troppo chiaro: l’adozione dell’intelligenza artificiale è discontinua, disomogenea, incerta. Lo è nei settori, nelle regioni, nelle dimensioni aziendali. Ma soprattutto, è inchiodata da un’inerzia culturale che neanche il miglior LLM riuscirebbe a scrollarsi di dosso.
L’ironia è che mentre i dati globali parlano di una quarta rivoluzione industriale fondata proprio sull’IA, da noi la rivoluzione somiglia più a un tavolo tecnico con caffè e cornetti.
La fotografia ISTAT è imbarazzante: nel 2023 il tasso di adozione era addirittura sceso al 5%, prima di risalire all’8,2% nel 2024. Si dirà: è un trend positivo. Certo, come considerare incoraggiante il fatto che un paziente uscito dalla terapia intensiva ricominci a camminare… con il deambulatore.
Nel frattempo, la media europea si avvicina al 14%. Danimarca, Svezia e Finlandia hanno superato il 20%. L’Italia, fedele alla sua vocazione estetica, si conferma campionessa nel truccare i bilanci per sembrare all’avanguardia, mentre è ancora intrappolata in una mentalità dove l’innovazione tecnologica è vista più come un onere fiscale che come un’opportunità.
Ma andiamo oltre la retorica. Il rapporto di Confindustria non è solo una diagnosi. È una TAC cerebrale che rivela esattamente dove il sistema italiano ha smesso di pensare in modo computazionale.
I principali settori coinvolti nei casi d’uso dell’IA sono salute, manifattura e mobilità sostenibile. Dove ci sono incentivi pubblici, attenzione mediatica o lobby strutturate, qualcosa si muove. Ma è l’“altro e multisettore” a detenere il primato con il 28% dei casi, un segnale inequivocabile: l’Italia dell’IA è ancora sperimentale, esplorativa, frammentata.
Il vero paradosso emerge nelle funzioni aziendali: se da un lato l’IA colonizza operazioni e back-office, dall’altro la sua presenza nei processi produttivi o nella logistica resta marginale. Un’azienda su tre la utilizza per l’amministrazione, solo una su dieci per la produzione. È come avere una Ferrari parcheggiata nel garage e usarla per fare la spesa sotto casa. Col freno a mano tirato.
I motivi? I soliti noti: mancanza di competenze (55,1%) e costi elevati (49,6%). Ma il sottotesto è più oscuro: mancanza di visione. Il management italiano continua a credere che basti un ERP per essere digitali, ignorando che oggi innovazione significa costruire valore predittivo, generativo, adattivo.
La generative AI rappresenta solo il 18,3% dei casi, nonostante l’enorme hype mediatico. Questo dato smaschera il bluff delle slide aziendali in cui si infilano buzzword come “prompt engineering” solo per far colpo in riunione. Nella pratica, la maggior parte delle imprese non ha ancora compreso né il potenziale, né i requisiti di un’integrazione reale dell’IA nel core business.
Il tema della qualità dei dati, più volte evocato nel report, resta il tallone d’Achille. Senza un data governance solida, senza pulizia, struttura, accessibilità e interoperabilità, ogni modello di IA è destinato a diventare un costoso generatore di fuffa. E qui la cultura aziendale italiana mostra tutte le sue crepe: si preferisce delegare ai fornitori esterni piuttosto che costruire una strategia interna di valorizzazione del dato.
Il risultato? Si moltiplicano le “soluzioni IA” che altro non sono che Excel con il trucco, chatbot inetti o algoritmi predittivi che prevedono solo ciò che è già successo.
La parte più interessante del report arriva però con la descrizione dei casi reali: qui, finalmente, emerge un’Italia che osa, sperimenta, implementa IA nella manutenzione predittiva dei bus, nel riconoscimento immagini per la diagnostica, nei gemelli digitali per il controllo dei consumi industriali. Peccato che queste punte di eccellenza siano ancora eccezioni.
Il sistema è spezzato in due: da una parte poche grandi aziende strutturate, capaci di orchestrare ecosistemi IA su scala industriale, dall’altra un’ampia base di PMI che si muove in ordine sparso, soffocata da burocrazia, ignoranza digitale e consulenze strategiche vendute come se fossero pozioni magiche.
E mentre l’Europa approva regolamenti severi per classificare i rischi dell’IA, in Italia si moltiplicano i tavoli di lavoro. La governance? Confusa. La formazione? Disorganica. Le politiche pubbliche? Più storytelling che policy-making.
Insomma, la trasformazione digitale italiana, di cui l’intelligenza artificiale dovrebbe essere motore e non passeggero, rischia di diventare l’ennesima occasione persa. E la cosa più frustrante è che le soluzioni esistono, ma vengono annacquate dalla paura del cambiamento e dalla cronica incapacità di fare sistema.
Serve una visione sistemica, non l’ennesimo bando a pioggia. Servono incentivi legati a risultati reali, non presentazioni PowerPoint. Servono Chief Data Officer in azienda prima ancora dei Chief AI Officer.
Perché il futuro non aspetta. E l’Italia non può più permettersi di confondere l’algoritmo con l’oracolo.