Quello che sta esplodendo in rete oggi con il fenomeno dei video “brain rot” generati dall’AI è un perfetto caso di come la tecnologia possa essere insieme irresistibile e tossica. Un’orgia visiva di squali con le sneakers e ballerine con la testa a cappuccino che divorano l’attenzione dei più giovani, lasciando in eredità un’inedita grammatica visiva che alterna nonsense e iperstimolazione cognitiva.

In mezzo a questo carnevale digitale,  OpenArt sta giocando una partita da protagonista, trasformandosi da semplice piattaforma di generazione immagini a una fabbrica istantanea di micro-storie video. Fondata nel 2022 da due ex Google, ha già conquistato 3 milioni di utenti attivi al mese, e ora con la sua nuova funzione “One-Click Story” vuole abbattere l’ultimo muro tra creatività e produzione, eliminando qualsiasi frizione tecnica.

La promessa è tanto semplice quanto dirompente: inserisci una frase, una sceneggiatura o persino un testo di canzone, e in sessanta secondi hai un video coerente, narrativamente strutturato e ottimizzato per TikTok, YouTube o per la pubblicità. La scelta tra Character Vlog, Music Video o Explainer non è un semplice vezzo di design, ma un meccanismo per spingere l’utente verso formati già rodati dall’algoritmo dell’engagement. Dietro la patina ludica, OpenArt aggrega oltre 50 modelli AI, da DALLE-3 a Stable Diffusion, passando per GPT e Imagen, in una sorta di “meta-fabbrica creativa” che rende trasparente la complessità tecnologica. È la stessa strategia che Amazon applicò alla logistica: nascondere il caos sotto una UX minimalista.

Eppure, l’elemento più potente, e forse più pericoloso, non è la velocità di esecuzione, ma la capacità di mantenere la consistenza del personaggio lungo l’intero arco narrativo. Chiunque abbia giocato con i generatori video sa che ottenere coerenza visiva è come chiedere a un bambino di cinque anni di disegnare lo stesso cane tre volte di fila: il risultato è sempre un po’ un’altra cosa. Qui invece OpenArt punta a un’immersione fluida, a storie che non si frantumano in clip slegate, e questo ha implicazioni enormi per la pubblicità, l’influencer marketing e il branding. La coerenza non è un dettaglio tecnico, è un catalizzatore di fiducia per il cervello dello spettatore.

Ma in questo parco giochi algoritmico si nasconde un retrogusto amaro: la zona grigia del copyright. Nella modalità Character Vlog, i template possono trasformarsi in mine legali, con Pikachu, SpongeBob e Super Mario pronti a far saltare in aria la monetizzazione di un creator. Disney e Universal hanno già dimostrato con le cause contro Midjourney che la tolleranza verso l’uso non autorizzato di IP iconici è prossima allo zero. OpenArt dice di filtrare i contenuti protetti, ma ammette che “a volte scappa”. Una frase che, per un avvocato, suona come una confessione involontaria.

E qui si entra nel territorio più scivoloso: se un utente pubblica un video con contenuti protetti, rischia di vederlo rimosso e, nei casi peggiori, di finire in tribunale. Non è un’ipotesi accademica, ma una linea rossa che la creator economy tende a ignorare finché qualcuno non la attraversa. OpenArt si dice pronta a discutere licenze con i detentori dei diritti, ma il problema è strutturale: il modello di business delle piattaforme AI si regge su un bacino di asset creativi che spesso non appartengono a chi li genera.

Sul fronte economico, i numeri sono già da scale-up matura: 5 milioni di dollari raccolti, flusso di cassa positivo e un run rate di oltre 20 milioni di dollari l’anno. La strategia di monetizzazione è credit-based, con piani da 14 a 56 dollari al mese e pacchetti su misura per team. La mossa successiva sarà un’app mobile e, in prospettiva, la possibilità di orchestrare dialoghi tra due personaggi diversi, ampliando il potenziale narrativo e probabilmente raddoppiando il valore percepito dal pubblico.

Il fascino di questa tecnologia è evidente: in un’epoca in cui l’attenzione è la valuta più preziosa, poter creare un video d’impatto in un click è come avere una macchina da stampa per l’intrattenimento. Ma il rischio è che il “brain rot” non sia solo un’estetica virale, bensì il sintomo di una produzione culturale accelerata fino a perdere qualsiasi filtro critico. La domanda vera non è se OpenArt riuscirà a scalare, ma se il mercato sarà capace di digerire una simile quantità di contenuto iperstimolante senza trasformare la rete in un loop infinito di sirene cartoon e dialoghi surreali. In fondo, ogni rivoluzione tecnologica ha sempre avuto la sua mascotte assurda. Questa volta potrebbe avere le sneakers.