Aiutano a ricordare che la tecnologia non è soltanto materia da giovani rampanti pronti a decollare da un garage californiano. Larry Ellison e Hock Tan attraversano il palcoscenico con quella sicurezza un po’ teatrale che solo chi ha visto più cicli di mercato di quanti i nuovi fondatori abbiano visto tramonti può permettersi. In queste settimane le loro aziende tornano al centro della scena, perché il loro ai business entra nel vivo di una fase che le narrazioni ottimistiche definirebbero espansiva e che gli investitori più prudenti chiamerebbero prova del nove. La verità, come spesso accade, vive comodamente nel mezzo, in quella regione ibrida dove i numeri raccontano storie più originali degli slogan.
Analizza un investitore attento che Broadcom sta scoprendo quanto possa essere profondo l’oceano dei chip dedicati all’intelligenza artificiale. La corsa che la società ha intrapreso ha preso ritmo con un’aggressività che sorprende perfino gli osservatori più smaliziati. I ricavi legati ai semiconduttori per l’AI stanno crescendo più rapidamente del resto del gruppo, fino a candire quella sensazione di inevitabilità che normalmente associamo solo ai colossi iper ottimizzati. Crescono da 12.2 miliardi del 2024 a poco meno di 20 miliardi attesi nel 2025, con una traiettoria che sorride al grafico degli analisti. Sorride meno a chi spera di veder Broadcom scalare la montagna presidiata da Nvidia. Qui la realtà si fa brutale. Nvidia regna come un imperatore che non ha alcuna intenzione di dividere territori. Nel suo terzo trimestre ha messo a segno 57 miliardi di dollari di ricavi, con la quasi totalità in orbita AI.
Mostra tuttavia Broadcom una qualità che il mercato ama: la capacità di crescere pur sapendo di non essere il numero uno. Tan ha ripetuto più volte che il ventaglio di clienti per le sue soluzioni custom è destinato a esplodere, spinto da hyperscaler come Google che vogliono ridurre la dipendenza dalla monarchia Nvidia. Prevede un mercato tra 60 e 90 miliardi entro il 2027. Non stupisce che gli analisti scrutino ogni parola del CEO come se fosse una spezia rara da annusare per capire se il piatto finale avrà il sapore promesso. Non è irrilevante notare come circa un terzo dei ricavi complessivi del gruppo sia ormai legato alla corsa all’AI, una porzione destinata ad allargarsi mentre avanzano le pipeline per acceleratori custom e network ad alta capacità.
Rivela questa dinamica una verità più importante delle percentuali trimestrali. L’AI business non si gioca solo nella sfida dei modelli linguistici o nelle GPU scintillanti. Si gioca sempre più nell’infrastruttura. Si gioca nella connettività a bassa latenza, nei sistemi che permettono a migliaia di nodi di dialogare come un organismo unico, nei flussi ottimizzati che evitano colli di bottiglia in un mondo che esige potenza a ciclo continuo. Qui Broadcom ha un patrimonio ingegneristico che Wall Street spesso dimentica, perché l’immaginario collettivo si appiccica ai loghi delle aziende glamour e non alle minuterie che fanno realmente muovere la macchina.
Mostra però anche Oracle un modo sorprendente di reinterpretare se stessa in quest’epoca di trasformazione. Chi la ricorda come una roccaforte di database e contratti rigidi a tre zeri ha smesso da tempo di guardare i grafici del cloud. Ora Ellison ripete con gusto da narratore consumato che la vera esplosione deve ancora arrivare. Il cloud Oracle corre oltre il cinquanta per cento trimestre dopo trimestre, pur partendo da una base ridotta, qualche miliardo scarsi. Non importa a chi ragiona in grandezze vettoriali. Importa l’accelerazione. Importa l’idea che gli accordi firmati possano portare a 144 miliardi di ricavi cloud entro il 2030. Importa più di tutto la percezione che, per una volta, l’azienda non stia inseguendo il mercato ma creando un segmento dove la combinazione tra AI business e infrastrutture specializzate può generare un ecosistema differenziato.
Sottolinea il mercato, con un sopracciglio alzato di scetticismo, che il 2030 è lontano. Ricorda che Oracle dovrà finanziare data center titanici, perché servono strutture fisiche prima che modelli e algoritmi prendano vita. Ricorda anche che clienti come OpenAI, che hanno prenotato potenza di calcolo su scala vertiginosa, devono a loro volta trovare soldi veri per onorare quegli impegni. È un’economia circolare interessante. Oracle costruisce per soddisfare la fame dei modelli. I modelli hanno bisogno di fondi per generare ricavi che giustifichino quella fame. Gli investitori osservano come in un esperimento quantistico, dove ogni osservazione cambia lo stato del sistema.
Appare chiaro che i mercati non vivono di promesse. Negli ultimi giorni il titolo Oracle ha sentito il peso delle incertezze. Non abbastanza da invertire la narrativa, sufficientemente però da ricordare agli investitori che la strada tra oggi e il 2030 non sarà una passeggiata. Cresce la pressione su Ellison perché fornisca dettagli sul finanziamento dei nuovi data center, sulle pipeline di clienti a lungo termine, sulla capacità di convertire impegni monstre in fatturato tangibile. Una sorta di esame di maturità per un veterano che di esami ne ha già superati un’infinità.
Insinua questa fase dubbi ma anche fascino. C’è qualcosa di ironico nel vedere due imprese storicamente considerate conservative e un po’ ingessate trasformarsi in attori centrali della partita sull’intelligenza artificiale. Il tutto mentre generazioni più giovani di startup, nate dichiarando di voler ribaltare i giganti, scoprono di dipendere dalla potenza di calcolo di quegli stessi giganti. Una sorta di dramma shakespeariano della tecnologia in cui padri e figli si scambiano i ruoli, almeno per un ciclo economico.
Sottotraccia emerge poi un altro intreccio, quello tra gli Ellison e la partita dei media. Netflix tenta il colpo grosso su Warner Bros. Discovery. Paramount Skydance rilancia. Gli scenari regolatori si increspano con la politica, e qui il filo che collega l’anziano Ellison a Washington apre interpretazioni divertenti. È uno di quei casi in cui chi osserva il mercato pensa che la vera competizione non sia tra piattaforme di streaming, ma tra gruppi capaci di intuire dove soffia il vento antitrust.
Mostra questa confusione apparente una logica interna ferrea. Tutto ruota attorno al controllo delle infrastrutture, che siano data center o piattaforme di distribuzione contenuti. Tutto ruota attorno al potere di integrare filiere, consolidare clienti, incassare fedeltà di lungo periodo. L’AI business diventa una lente che rivela quanto poco contino le mode e quanto invece regnino le capacità strutturali.
Ritorna quindi un pensiero quasi filosofico. Non è la velocità dei giovani a definire il futuro della tecnologia. È la capacità di modellare sistemi sufficientemente resilienti da sostenere ondate di domanda imprevedibile. Broadcom lo fa nei chip. Oracle lo fa nei cloud. Entrambi lo fanno con lo stile di chi ha già visto le montagne russe della tecnologia e non si lascia impressionare dalla salita o dalla discesa. E forse è proprio questa imperturbabilità, più dei grafici, a suggerire che i prossimi anni saranno dominati non da chi urla più forte, ma da chi costruisce infrastrutture profonde.