In una mossa che sembra uscita da una distopia legale firmata Black Mirror, la California State Bar ha ammesso candidamente che alcune delle domande a scelta multipla dell’ultimo
sono state redatte con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Non da un gruppo di esperti giuristi, non da professori emeriti, ma da una macchina. Già questo basterebbe a far tremare la toga a qualunque aspirante avvocato con un minimo di coscienza professionale. Ma la cosa più interessante è che il tutto è venuto alla luce non per trasparenza istituzionale, bensì perché gli studenti se ne sono accorti.
Le domande, a quanto pare, “puzzavano” di AI. Sintassi troppo pulita, logica troppo fredda, pattern prevedibili. In altre parole, non sembravano scritte da un essere umano sotto stress, caffeina e deadline editoriali, ma da un algoritmo perfettamente funzionante e senza ansia da prestazione. Mary Basick, assistente decano alla UC Irvine Law School, si è detta speechless. Non per il fatto in sé, ma per il fatto che l’aveva difeso, quel maledetto esame. Quando alcuni studenti avevano sollevato dubbi, la sua risposta era stata netta: “Ma no, dai! Non lo farebbero mai!”. E invece. (L.A. Times)
La barzelletta, se non fosse amara, si scrive da sola: un’intelligenza artificiale che valuta se un essere umano è abbastanza intelligente da diventare avvocato. In un Paese dove il sistema legale è già una giungla di cavilli, commi, loop burocratici e cause infinite, ora ci si mette pure l’AI a dettare le regole del gioco. Anzi, a scrivere le domande dell’esame d’ingresso alla giungla.
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