C’è qualcosa di profondamente ironico nel vedere Pechino presentare un piano globale per la governance dell’intelligenza artificiale proprio mentre Washington si affanna a mettere in mostra la propria strategia di deregulation. Il 26 luglio, il Premier Li Qiang ha lanciato un piano che sembra, in superficie, la solita fiera di buone intenzioni: cooperazione internazionale, sostenibilità verde, inclusività e sicurezza. Tutto già sentito, scritto, decantato, persino nelle dichiarazioni ufficiali del Partito Comunista cinese e negli ultimi discorsi di Xi Jinping. La differenza? È nei dettagli, nelle sfumature linguistiche e nei piccoli accenti politici che i media mainstream, con la loro fretta di fare confronti americani-cinesi, trascurano o banalizzano.
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Intelligenza Artificiale, Politica, Democrazia, Normativa, Regolamenti
È una di quelle storie che sembrano scritte da un algoritmo di distopia geopolitica. Da una parte, un’innocua AI open source che promette di democratizzare la conoscenza. Dall’altra, una rete invisibile che collega Hangzhou a Langley, passando per Capitol Hill. DeepSeek, un nome che suona quasi filosofico, è oggi l’ennesimo detonatore di una guerra fredda digitale che non ha bisogno di missili, ma di prompt, modelli di linguaggio e pesi condivisi su GitHub. Dietro il velo dell’open source si nasconde qualcosa di più denso, di più torbido, e ironicamente di meno trasparente.
Lascia che affondi, lentamente, come una verità scomoda: il Primo Ministro della Svezia, Ulf Kristersson, utilizza ChatGPT per governare il suo paese. No, non è una boutade. Non è un titolo clickbait su un blog techno-pop, né un esercizio di futurologia. È accaduto davvero. Il capo del governo di una delle democrazie più avanzate al mondo ammette di affidarsi “piuttosto spesso” all’intelligenza artificiale generativa per supportare il processo decisionale nazionale.

Quando Donald Trump dichiara che uno spot è “the hottest ad out there”, i mercati reagiscono. Lo hanno fatto ancora una volta, questa volta con un’impennata del titolo American Eagle Outfitters, che ha registrato un +18% intraday, il massimo guadagno giornaliero da maggio 2024. Il motivo? Un paio di jeans, due occhi azzurri, una battuta ambigua e una strategia di marketing così sfacciatamente efficace da far impallidire i manuali di branding. Benvenuti nell’era del genetic advertising, dove il confine tra provocazione commerciale e allusione ideologica è sempre più sottile, scivoloso, e soprattutto redditizio.
L’ho sentito dire recentemente dal Prof. Luciano Floridi poche settimane fa in AI e Parlamento: “Sono 10 anni che la Cina investe in AI e noi ce ne siamo accorti con Deepseek”.
Quando una conferenza sull’intelligenza artificiale ospitata a Shanghai produce più dati e segnali strategici di una consultazione geopolitica delle Nazioni Unite, conviene prestare attenzione. Il World Artificial Intelligence Conference (WAIC) ha appena sancito un dato che sembra una semplice statistica ma in realtà è un grido di guerra algoritmica: la Cina è ormai casa di 1.509 modelli di intelligenza artificiale, pari a oltre il 40 per cento del totale mondiale. Siamo davanti a un’espansione non lineare, accelerata dalla logica del moltiplicatore digitale. Non si tratta solo di numeri, ma del segnale inequivocabile che Pechino non sta rincorrendo l’Occidente: lo sta sorpassando, a colpi di modelli open source, computing domestico e alleanze da supermarket digitale.
Il tempo sembra sospeso mentre ci chiediamo dove sta portando Giorgia Meloni l’Europa. Non c’è titolo altisonante né mantra rassicurante, solo un mix di nazionalismo popolare, retorica incarnita e pragmatismo atlantico. L’Italia, prima donna premier, è volata sulle montagne russe delle aspettative: da presunta minaccia europea a possibile architetto di una nuova sintesi politica continentale. È un paradosso storico: nel Paese che unì il Risorgimento e poi generò il mostro fascista, oggi cresce una leadership che afferma esplicitamente di voler “ricostruire la nostra identità, il nostro orgoglio” senza però rinnegare alleanze NATO o l’Aiuto all’Ucraina.
EXEC ORDER L’intelligenza artificiale, un tempo terreno di pura innovazione tecnologica e ottimizzazione dei processi, si sta rapidamente trasformando in un campo di battaglia geopolitico e culturale. La recente ondata di modelli AI cinesi come quelli di DeepSeek e Alibaba non ha soltanto attirato l’attenzione per le capacità tecniche, ma soprattutto per la loro selettiva “censura” su argomenti critici verso il Partito Comunista Cinese. Non è un dettaglio da poco: questi sistemi sono stati ufficialmente riconosciuti da funzionari americani come strumenti costruiti per riflettere il pensiero e la narrativa di Pechino, e questo svela un problema sistemico di bias e propaganda digitale che spinge a riconsiderare la “neutralità” di certe tecnologie.
La scena è quasi surreale, degna di un copione satirico. L’uomo che ambisce a tornare alla Casa Bianca ammette candidamente di non aver mai sentito nominare Nvidia, l’azienda più preziosa al mondo per capitalizzazione, la stessa che definisce di fatto la corsa globale all’intelligenza artificiale. Donald Trump racconta, con il suo tipico stile teatrale, di come inizialmente avesse pensato di “spaccarla”, salvo poi scoprire che non è così facile smantellare un monopolio tecnologico che domina un mercato con una quota vicina al 100%. “Who the hell is he? What’s his name?”, ha chiesto Trump al suo consigliere, come se si parlasse di un boss di quartiere e non di Jensen Huang, il fondatore e CEO che ha costruito l’impero dell’AI. L’ingenuità apparente, o forse la finzione strategica, rivela un dato cruciale: la politica americana non è più il motore dell’innovazione, ma un osservatore che rincorre i colossi privati.
Donald Trump, l’uomo che ha trasformato la politica americana in uno show senza pause, torna a far parlare di sé con una nuova impresa destinata a infiammare dibattiti globali: la sua candidatura al Nobel per la pace. Mentre il mondo fatica a tenere il passo con i suoi tweet incendiari e le politiche “America first”, ecco che il tycoon si lancia in una corsa per il premio più prestigioso al mondo, trasformando un’istituzione storica in un campo di battaglia politico. Il risultato? Un mix di ironia, scetticismo e propaganda da manuale.
In un mondo dove le tecnologie emergenti non sono più semplici supporti ma veri e propri protagonisti, l’intelligenza artificiale si affaccia con prepotenza al centro del dibattito economico globale, in particolare riguardo alla doppia missione della Federal Reserve: massima occupazione e stabilità dei prezzi. Lisa Cook, governatore della Fed, ha riassunto con una chiarezza chirurgica la sfida che ci attende. Da una parte, l’AI promette di rivoluzionare il mercato del lavoro, potenziando la produttività dei lavoratori ma allo stesso tempo alterando radicalmente la composizione stessa delle mansioni. Dall’altra, l’effetto sui prezzi non è affatto scontato, oscillando tra una possibile riduzione delle pressioni inflazionistiche grazie alla maggiore efficienza e l’aumento dei costi derivante dall’investimento massiccio in nuove tecnologie.

Ore 18, Siamo stati initati all’evento Sala della Lupa. IA e Parlamento, “Umanità in equilibrio tra robot, Intelligenza artificiale e natura” Lectio magistralis di Maria Chiara Carrozza con l’introduzione della Vicepresidente, Anna Ascani.
La Professoressa Maria Chiara Carrozza, voce autorevole di una saga robotica Asimoviana che sfida la banalità e reclama spazi di profondità in un mondo dominato da feed superficiali, ci ha coinvolto con “passione” e i suoi ricordi d’infanzia, in un circuito di innovazione dove intelligenza artificiale e robotica si fondono in un unico ritmo.
Nel dialogo tra AI, robotica e diritti umani emergono proposte chiare: Carrozza proclama un equilibrio storico, con la sua nascita del mondo dell’automotive Ford in America, e FIAT in Italia e poi della applicazione dei Robots, dove la macchina non fagocita il lavoro umano, ma lo amplia. È un paradigma che sposta l’automatizzazione su ciò che è ripetitivo e usurante, restituendo dignità al lavoro umano .
Trump non è il tipo da discorsi accademici sulle meraviglie dell’intelligenza artificiale. Quando dice “Winning the AI Race”, lo dice come un generale che parla ai suoi soldati prima dell’assalto. Il 23 luglio, durante l’evento organizzato da David Sacks, il presidente americano non venderà sogni ma strategie. Perché in questo momento l’AI non è un hobby da nerd, è una guerra silenziosa in cui il vincitore controllerà l’economia mondiale per i prossimi trent’anni. La differenza tra vincere o perdere non si misurerà in brevetti ma in centrali elettriche, miliardi di dollari e capacità di elaborare dati più velocemente di chiunque altro. “Se non siamo i primi, siamo i secondi, e i secondi non comandano il mondo”, avrebbe detto in privato a un noto venture capitalist della Silicon Valley. Una frase brutale ma tremendamente efficace, che riassume perfettamente la mentalità con cui Trump sta riscrivendo il concetto di leadership tecnologica.
Musk non è uno che scappa facilmente, ma è un maestro nel farsi inseguire. Quando Donald Trump, con la finezza diplomatica di un bulldozer in salotto, ha pubblicamente minacciato di “spedire Elon a casa”, il significato geopolitico è stato più profondo di quanto Twitter abbia saputo cogliere tra meme e battute al vetriolo. Il CEO di Tesla, SpaceX, Neuralink e compagnia tech è diventato il protagonista riluttante di una distopia a cielo aperto, in cui il capitalismo delle star collassa sotto il peso delle proprie contraddizioni ideologiche. E dove la Cina appare sempre più come un rifugio pragmatico, se non proprio ideologico, per chi non trova più aria nei corridoi del potere americano.
C’è una vecchia battuta tra veterani del commercio internazionale: “L’unico modo per far capire a un americano cos’è un dazio è che glielo faccia pagare un altro Paese”. Peccato che oggi, a infliggerli, sia proprio l’America. Non un’America qualsiasi, ma quella reinventata a immagine e somiglianza del suo patriarca arancione, tornato a occupare lo Studio Ovale come un magnate che rileva un’azienda in crisi e la risana con tagli, intimidazioni e grida. Donald Trump, al suo secondo giro da presidente, ha deciso che il tempo delle negoziazioni è finito, i trattati multilaterali sono per i deboli e che la politica commerciale può essere fatta con lettere scritte a macchina, spolverate di maiuscole strategiche e sigillate con l’intuito del “gut feeling”.

Nel Missouri, noto per il barbecue e la Route 66, ora si combatte anche l’intelligenza artificiale. Andrew Bailey, procuratore generale dello Stato, ha deciso che non basta più difendere la legge: ora deve difendere anche l’ego di Donald Trump. Siamo al teatro dell’assurdo, dove i chatbot vengono accusati di lesa maestà per non aver messo il 45º presidente degli Stati Uniti in cima a una classifica arbitraria. Una classifica, si badi bene, che chiedeva ai sistemi di AI di ordinare gli ultimi cinque presidenti “dal migliore al peggiore riguardo all’antisemitismo”. Non politica estera, non economia, non risposta al Covid. Antisemitismo. Giusto per mantenere il livello alto.

Quando Donald Trump scrive una lettera commerciale, non è mai solo una lettera. È un’arma. Un palcoscenico. Un tweet travestito da diplomazia. E stavolta, nel suo secondo atto presidenziale in stile reality show, il “tariff man” torna alla carica, spingendo l’America dentro un’altra guerra commerciale globale, con una raffica di dazi, minacce e diktat unilaterali che fanno impallidire perfino le follie della prima amministrazione. Brasile? 50 per cento. Filippine? 20 per cento. Brunei, Moldova, Iraq? Toccata e fuga. Se non hai un accordo firmato, hai una lettera firmata — ma con un dazio allegato.
America, la terra promessa delle startup, ora si mette a insegnare ai suoi insegnanti come non farsi surclassare dall’intelligenza artificiale. Immaginate quasi mezzo milione di docenti K–12, cioè scuole elementari e medie, trasformati da semplici dispensatori di nozioni a veri e propri coach del futuro digitale grazie a una sinergia che sembra uscita da una sceneggiatura hollywoodiana: il più grande sindacato americano degli insegnanti alleato con i colossi OpenAI, Microsoft e Anthropic. Una nuova accademia, la National Academy for AI Instruction, basata nella metropoli che non dorme mai, New York City, promette di rivoluzionare il modo in cui l’intelligenza artificiale entra in classe. Non più spettatori passivi ma protagonisti attivi in un’epoca che sembra dettare legge anche tra i banchi di scuola.
La democrazia algoritmica parte da Roma: perché l’intelligenza artificiale può salvare il parlamento (se glielo lasciamo fare)
C’è qualcosa di irresistibilmente ironico nel vedere la Camera dei Deputati tempio della verbosità e del rinvio presentare, tre prototipi di intelligenza artificiale generativa. In un Paese dove un decreto può impiegare mesi per uscire dal limbo del “visto si stampi”, si sperimenta l’automazione dei processi legislativi. Lo ha fatto, con un aplomb più da start-up che da aula parlamentare, la vicepresidente Anna Ascani. Nome noto, curriculum solido, visione chiara: “La democrazia non può restare ferma davanti alla tecnologia, altrimenti diventa ornamento, non strumento”. Che sia il Parlamento italiano a fare da apripista nell’adozione dell’AI generativa per l’attività legislativa potrebbe sembrare una barzelletta. Invece è un precedente.
Sembra la sceneggiatura di una serie HBO andata fuori controllo: attori ricorrenti, plot twist prevedibili ma sempre rumorosi, e un protagonista che annuncia “nessuna proroga” per poi concederne una con l’entusiasmo di un venditore di multiproprietà a Las Vegas. Donald Trump è tornato, con la delicatezza di un bulldozer in cristalleria, a minacciare il mondo con la sua visione distorta del “reciprocal trade”. E questa volta, giura, fa sul serio. Almeno fino a quando non cambia idea.
La scadenza, che avrebbe dovuto essere il 9 luglio, è magicamente slittata all’1 agosto. Ma non chiamatela retromarcia: è “una scadenza ferma, ma non al 100% ferma”. In pratica, una definizione che in logica quantistica potrebbe avere un senso. Per Trump, invece, è solo l’ennesima mossa nel suo reality geopolitico preferito: mettere i partner commerciali uno contro l’altro, minacciarli con tariffe del 25% o più, e poi dare loro la possibilità di salvarsi con un’offerta last minute. Non un piano economico, ma una roulette diplomatica. E nel frattempo, i mercati oscillano come ubriachi su una nave in tempesta.
Immaginate di poter mettere a bilancio i vostri sogni e ricevere un bonus fiscale per ogni buona intenzione. Adesso immaginate di essere Microsoft o Oracle, e che i vostri sogni coincidano con miliardi di dollari in spese di ricerca e data center. Voilà: benvenuti nella “One Big Beautiful Bill”, l’ultima trovata di Washington, che di bello ha soprattutto il modo in cui trasforma una riga di codice in una valanga di liquidità. Sì, perché mentre la maggior parte dei contribuenti continua a compilare moduli, certe aziende tech si preparano a incassare una delle più silenziose ma potenti redistribuzioni fiscali dell’era moderna.

È nato un nuovo partito negli Stati Uniti, o almeno così dice Elon Musk. L’ha chiamato “America Party”, come fosse il reboot di una sitcom anni ’90 girata in un garage di Palo Alto con troppa caffeina e nessuna vergogna. Il tweet – perché tutto comincia e spesso finisce lì – recita: “Oggi nasce l’America Party per restituirvi la libertà”. Se vi sembra una frase partorita da un algoritmo con problemi di identità nazionale, non siete soli. Il punto, però, non è tanto la vaghezza del proclama, quanto la logica distorta che sta dietro al progetto: usare il brand Musk per hackerare la democrazia, come fosse un’auto da aggiornare via software.
Da Airbus a BNP Paribas, cresce la pressione sul legislatore europeo: “Così l’Europa resterà indietro nella corsa globale all’AI”. Ma Bruxelles è davvero pronta ad allentare le maglie della legge più severa al mondo sull’intelligenza artificiale?
ovvero come la tech élite sta disperatamente cercando un redento da esibire in pubblico mentre affonda nella sua stessa mitologia
Quando inizia a girare nei corridoi di Sand Hill Road la voce che serva “un JD Vance della Silicon Valley”, il primo pensiero non è tanto la nostalgia per l’Ohio rurale quanto il panico esistenziale di una classe dirigente che, dopo aver glorificato l’ingegnere asociale e la cultura del blitzscaling, si ritrova culturalmente orfana. JD Vance, per chi avesse trascorso l’ultimo decennio chiuso in una capsula criogenica, è l’autore di Hillbilly Elegy, una specie di epitaffio narrativo per la working class bianca americana, riconvertitosi in politico trumpiano come da manuale post-apocalittico. Silicon Valley vorrebbe un personaggio così, ma in chiave tech. Un redento. Uno che venga dal fango ma mastichi JavaScript.
La scena potrebbe sembrare uscita da un dramma teatrale scritto da Kafka e diretto da Aaron Sorkin con un bicchiere di bourbon in mano: il Senato degli Stati Uniti, in un rarissimo momento di consenso bipartisan, ha votato 99 a 1 per eliminare una moratoria che avrebbe impedito agli stati di regolamentare l’intelligenza artificiale. Ma non lasciamoci ingannare dal numero schiacciante. Questo voto non rappresenta unità. È il prodotto di un collasso nervoso collettivo, l’incapacità strutturale del Congresso di capire chi comanda davvero quando si parla di AI: i legislatori, le lobby o gli algoritmi.
Il tentativo repubblicano di blindare la crescita dell’IA dentro un recinto federale centralizzato, impedendo agli stati di fare da sé, si è infranto contro un fronte variegato e vagamente schizofrenico: dai libertari digitali alla frangia populista MAGA, fino ai democratici impegnati a difendere le micro-sovranità statali. Un mix letale per qualsiasi progetto normativo. Eppure la proposta di moratoria non era nata per caso. Nascondeva un intento molto chiaro, quasi scolpito nei tweet di Elon Musk e nei white paper delle Big Tech: evitare che un mosaico impazzito di leggi statali, ognuna con la sua definizione di “AI”, potesse inceppare l’orgia di innovazione e investimenti che Silicon Valley pretende a colpi di deregulation.
Non è un colpo di stato, ma somiglia maledettamente a una compravendita di sovranità: 25 milioni di dollari per l’“AI infrastructure” in cambio di un decennio di silenzio normativo da parte degli stati americani. L’ultima versione della bozza di bilancio del Senato USA – quella “big beautiful” come la definiscono con sarcasmo nei corridoi – include una clausola che suona come una battuta uscita male da una sitcom distopica: se vuoi accedere ai fondi federali per la banda larga, ti siedi, stai zitto e non osi approvare leggi statali sull’intelligenza artificiale. Per dieci anni. Giusto il tempo di far maturare una bella oligarchia.
Lo chiamano “cessate il fuoco”, ma a quanto pare il fuoco non lo sanno cessare. Neanche il tempo di aggiornare la home page del sito del Pentagono con il comunicato di pace che Israele annuncia già l’ennesimo round di razzi iraniani piombati su Beersheba. Tre morti, sei ondate di missili, e il ministro della Difesa israeliano Israel Katz che ordina una “risposta militare potente”. Traduzione: il bottone è già stato premuto. La notizia? Non è tanto l’attacco. È che entrambe le parti, solo qualche ora prima, avevano accettato un piano di cessate il fuoco targato Donald Trump, l’uomo che firma la fine della guerra via social con la stessa nonchalance con cui pubblicava licenziamenti in diretta a “The Apprentice”.
Il mondo trattiene il fiato, mentre a Washington si trattiene il senso del ridicolo. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth, ex volto televisivo tramutato in burocrate con accesso al bottone rosso, ha detto tutto senza dire nulla davanti al Senato: la decisione finale spetta al Presidente Donald Trump. Che, com’è suo stile, si comporta come se stesse decidendo tra un cheeseburger e un Big Mac piuttosto che se entrare in guerra con l’Iran.
Trump lancia la più grande deportazione di massa della storia americana, e questa volta fa sul serio
A Washington il sole sorge rosso sangue quando Trump si sveglia con il dito già sospeso sopra il pulsante pubblica di Truth Social. Le lettere sono maiuscole, l’intonazione è apocalittica, e l’obiettivo, ancora una volta, sono le “città infestate” da immigrati illegali: Los Angeles, Chicago, New York. Tutte roccaforti democratiche. Tutte perfette per alimentare il feticcio del nemico interno.
Il presidente in cerca di rielezione ha rispolverato il suo vecchio cavallo di battaglia: l’invasione. Ma stavolta il cavallo ha blindati al posto degli zoccoli, 4.000 uomini della Guardia Nazionale e 700 Marines schierati direttamente in California, come se si trattasse di Falluja e non di una città americana con un sindaco democraticamente eletto.
Nel grande teatro della politica postmoderna, dove la realtà si piega alla volontà del marketing e la verità è un algoritmo da manipolare, c’è chi litiga su X (Twitter) e chi bombarda nella realtà. Da una parte, Donald Trump e Elon Musk si scannano come due galli da combattimento per la supremazia simbolica dell’ego nazionale. Dall’altra, Israele lancia un attacco diretto contro l’Iran, in quello che appare non solo come un colpo strategico, ma anche come l’effetto collaterale più inquietante dell’assenza americana.
Non è l’uranio arricchito a costruire una bomba. È la paura. La paura che il nemico, messo all’angolo, abbandoni ogni freno ideologico e giochi la sua ultima carta: la dissuasione atomica. Israele lo sa, ma ha scelto comunque di alzare la posta. Con chirurgica brutalità ha colpito il cuore pulsante del programma nucleare iraniano, assassinando scienziati, bombardando impianti e facendo saltare in aria non solo edifici, ma equilibri strategici.
L’Iran si ritrova oggi in un vicolo cieco. E come ogni bestia ferita, potrebbe scegliere di fare ciò che ha sempre negato pubblicamente: costruire l’arma che non osa nominare. Perché tra Teheran e la bomba, ormai, non ci sono più barriere tecnologiche. Solo un velo sottile di reticenza politica, l’ultima linea di difesa prima del punto di non ritorno.
«OUR DEAL WITH CHINA IS DONE» twitta Trump con la sobrietà di un adolescente che ha finalmente ricevuto un like da Elon Musk. È mercoledì mattina, e il Presidente più imprevedibile della storia americana getta la notizia come un osso a una stampa affamata: l’accordo commerciale preliminare con la Cina è stato raggiunto. Una dichiarazione che, in altri tempi, avrebbe acceso i riflettori di Wall Street come Times Square a Capodanno. Ma stavolta no. Il mercato scrolla le spalle, forse sbadiglia. Perché?
I negoziatori di Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un’intesa preliminare su un “quadro” generale, che ora verrà sottoposto ai rispettivi leader per la revisione, nel tentativo di riattivare l’accordo di tregua commerciale siglato a Ginevra il mese scorso.
Alla domanda su eventuali concessioni americane sul controllo delle esportazioni dopo i colloqui di Londra, la Casa Bianca ha evitato dettagli, ribadendo solo il rispetto dell’accordo di Ginevra. Secondo la portavoce Leavitt, la Cina si è detta disponibile ad aprire i suoi mercati agli USA in modo separato e ha acconsentito al rilascio di minerali strategici impiegati nei magneti, secondo i termini già pattuiti a Ginevra.
Se volevate un esempio plastico del connubio perverso tra lobby, politica miope e Big Tech in cerca di deregulation, eccolo servito su piatto d’argento: un emendamento, sepolto nella finanziaria proposta da Donald Trump — il suo “big, beautiful bill” — che di fatto congela per dieci anni qualsiasi regolazione statale sull’intelligenza artificiale. Una mossa che ha più il sapore di una sabotaggio preventivo che di una visione strategica. Ma forse è proprio questo il punto: la strategia è uccidere il dibattito sul nascere, mentre si finge di attendere un’ipotetica, mai vista regolamentazione federale.
L’emendamento non si limita a fermare la corsa alla regolazione locale — la sola che negli ultimi anni abbia prodotto qualcosa di concreto — ma revoca retroattivamente anche quelle poche norme già esistenti. Uno stop totale, indeterminato e regressivo, imposto nel momento esatto in cui il settore AI accelera verso un’adozione massiva e incontrollata.
Benvenuti nell’era in cui l’intelligenza artificiale sostituisce l’intelligenza istituzionale, e la democrazia si trasforma in un backend API-first. Non è un distopico racconto di Gibson né una bozza scartata di Black Mirror: è l’America del 2025, dove l’innovazione di governo si chiama AI.gov e parla fluentemente il linguaggio dei Large Language Models. La fonte? Il codice sorgente pubblicato su GitHub. E come sempre, il diavolo si nasconde nei commit.
L’amministrazione Trump, evidentemente non ancora sazia di plot twist tecnocratici, ha deciso di lanciare una piattaforma di intelligenza artificiale gestita dalla General Services Administration, guidata da Thomas Shedd, ex ingegnere Tesla e fedelissimo del culto eloniano. Un tecnico più affine al codice che alla Costituzione. Il sito AI.gov – attualmente mascherato da redirect alla Casa Bianca – è il punto focale di una nuova strategia: usare l’AI per “accelerare l’innovazione governativa”. La parola chiave, naturalmente, è “accelerare”, il verbo preferito da chi taglia, privatizza, automatizza.
È successo di nuovo. Un altro episodio del più grande reality americano, una tragicommedia di potere, ego e tweet: Elon Musk e Donald Trump, due poli magnetici del narcisismo contemporaneo, si sono scontrati in pubblico come due CEO con troppo tempo libero e un’ossessione condivisa per l’attenzione. Il loro litigio ha avuto il sapore di un wrestling elettorale tra chi vuole dominare Marte e chi ancora pensa di poter ri-conquistare Manhattan. Il risultato? Più fumo che fuoco, ma anche un riflettore impietoso acceso sul rapporto torbido tra la Silicon Valley e la nuova – o meglio, rinnovata – MAGAcronica amministrazione trumpiana.
Sembrava una battaglia culturale. È diventata un assalto istituzionale. In un proclama dai toni apocalittici – firmato con l’enfasi di chi ama più la guerra che la diplomazia – l’amministrazione Trump ha vietato formalmente all’Università di Harvard di accettare nuovi studenti internazionali. Non solo: ha ordinato una revisione delle attuali iscrizioni straniere con la minaccia concreta di revoca dei visti. Motivo? “Rischi per la sicurezza nazionale”. Ovviamente, c’è di mezzo la Cina. E il sospetto, sempreverde, che dietro ogni studente con un laptop si nasconda un agente del Partito Comunista.
La notizia, se la si legge di fretta, pare una banale ristrutturazione burocratica: l’AI Safety Institute del Dipartimento del Commercio americano cambia nome e si trasforma nel Center for AI Standards and Innovation. Ma sotto questa vernice lessicale si cela una vera rivoluzione geopolitica mascherata da riforma amministrativa. Non è più questione di “sicurezza”, bensì di supremazia. E soprattutto: non è più una questione globale, ma eminentemente americana. “Dominanza sugli standard internazionali”, come ha dichiarato il Segretario al Commercio Howard Lutnick. Una frase che potrebbe uscire da un meeting di strategia militare più che da un piano di governance tecnologica.
Era tutto troppo bello per durare. Il bromance postmoderno tra Donald Trump ed Elon Musk una miscela tossica di testosterone, libertarismo fiscale e narcisismo performativo — ha cominciato a scricchiolare sotto il peso di una delle cose più antiche del mondo: i soldi. Ma non soldi qualsiasi. Parliamo del disegno di legge sulla spesa federale, un pachiderma legislativo definito da Musk come “disgustoso abominio”, con un vocabolario degno di un predicatore texano in un rave.
Il nuovo episodio della saga Elon Musk, quel moderno novello Re Mida della tecnologia che trasforma in oro ogni battito d’ali social, aggiunge un capitolo surreale ma perfettamente coerente con la sua leggenda: un figlio nato – o forse solo sussurrato con una popstar giapponese. Notizia esplosa come una miccia nell’infuocato panorama mediatico nipponico, dove si mescolano curiosità morbosa, ironia tagliente e inquietudini etiche degne di un romanzo distopico.
Elon Musk, imprenditore che più che CEO sembra un demiurgo della narrativa tech, è ormai sinonimo di un’umanità iperconnessa e frammentata, con famiglie e discendenti che sembrano moltiplicarsi come widget in un ecosistema digitale. Ashley St Clair, ex partner e madre del quattordicesimo figlio noto del magnate, ha messo sul tavolo la bomba: Musk avrebbe confidato di aver seminato ovunque, compresa una popstar giapponese anonima. La notizia, riportata da un quotidiano globale come il New York Times, si trasforma rapidamente in un’inquietante riflessione sulla privacy dei vip, sulle derive dell’etica riproduttiva e sul concetto stesso di paternità nel XXI secolo.
La Germania, l’economia più pesante d’Europa, ha appena rispolverato il suo strumento preferito nei confronti degli Stati Uniti: il moralismo regolatorio. Sotto la patina del “fair play competitivo” e della protezione del mercato interno, si cela in realtà il più classico dei giochi geopolitici: colpire i gioielli della corona digitale americana – Amazon, Meta, Google – perché sono le uniche entità che contano davvero in un’economia immateriale dominata dagli algoritmi.
Pare che l’Italia sia pronta a lanciarsi in una “terza via” sul fronte dell’intelligenza artificiale. Non tra Bologna e Modena, ma tra Washington e Pechino. Il ministro Adolfo Urso, con encomiabile ottimismo istituzionale, ha annunciato la nascita a Roma di un AI-Hub globale che collegherà le multinazionali occidentali del G7 alle start-up africane, nell’ambito del Piano Mattei. In pratica, una superstrada digitale che parte dal Colosseo e arriva, dopo un algoritmo e mezzo, a Nairobi.