Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

Autore: Redazione Pagina 1 di 60

Trieste Quantistica: la nuova arma segreta del potere globale

Trieste. No, non è l’inizio di un noir, ma l’epicentro temporaneo di una scossa tellurica a base di onde quantistiche e premi Nobel. Nove cervelli tra i più illuminati del pianeta si ritrovano qui, come se fosse la loro Davos, ma senza hedge fund e cravatte: solo interferenza quantistica, entanglement e una sottile tensione da fine del mondo. Del resto, quando hai Alain Aspect che ti parla dei fondamenti dell’informazione quantistica e David Gross che ha fatto a pezzi il mito della forza nucleare come fosse un origami, l’aria inizia a pesare. Pesare come un’ipotesi di realtà alternativa.

Nel mentre, l’ONU (sì, proprio loro, quelli che solitamente si muovono con la lentezza gravitazionale delle risoluzioni non vincolanti) ha deciso che il 2025 è l’anno internazionale della scienza e della tecnologia quantistiche. Chi l’avrebbe mai detto: dopo aver fallito con le COP sul clima, ora si gioca la carta più esoterica, più sottile, più instabile. Un colpo di reni? O l’ennesima dimostrazione che la tecnologia è l’unico linguaggio che ancora può mascherare l’inazione politica?

Il codice non dorme mai: come l’IA sta macellando gli sviluppatori Amazon

Quando anche i programmatori cominciano a sentire il fiato sul collo degli algoritmi, capisci che siamo entrati nella fase due della trasformazione digitale: la disumanizzazione della creatività tecnica. Amazon, sempre un passo avanti nel testare i limiti del possibile (e dell’umano), ha appena applicato ai suoi sviluppatori la stessa logica spietata con cui gestisce i magazzinieri: più output, meno persone, più automazione, meno empatia.

Gli ingegneri intervistati dal New York Times hanno descritto un contesto dove la produttività è diventata l’unico KPI che conta, spinta da una sferzata di intelligenza artificiale inserita come steroide nel flusso di lavoro. “Il mio team è la metà rispetto all’anno scorso, ma dobbiamo scrivere la stessa quantità di codice”, racconta uno di loro. Non è una battuta da bar, è la nuova normalità sotto il regime di produttività algoritimica.

Nvidia cerca rifugio sotto la soglia: il chip Blackwell per la Cina è l’ennesimo compromesso tossico tra tecnologia e geopolitica

Ogni volta che Nvidia prova a vendere un chip in Cina, gli USA glielo strappano via come un osso al cane. Ma il cane, questa volta, torna con un osso più piccolo. È il nuovo chip AI basato su architettura Blackwell, pensato appositamente per la Cina un Frankenstein tecnologico mutilato e venduto a un prezzo “di compromesso” tra $6.500 e $8.000. Una farsa high-tech, un altro episodio nella tragicommedia della Guerra Fredda digitale che Silicon Valley e Pechino continuano a recitare a soggetto.

La keyword qui è chip AI Nvidia Cina, ma non aspettarti miracoli di potenza. Questo giocattolino una versione castrata e semplificata del celebrato H20 è l’unico modo che Nvidia ha per non scomparire del tutto da un mercato che, fino al 2022, rappresentava il 95% del suo market share locale. Oggi? Solo il 50%. E Jensen Huang, il CEO col look da rockstar del deep learning, lo ha detto chiaro: “Se continua così, regaliamo il mercato a Huawei”.

Anthropic Building effective agents

Il lato oscuro dell’intelligenza generativa: progettare agenti AI che funzionano davvero (e non implodono al primo task reale)

Siamo circondati da fuffa travestita da progresso. Pitch da venture capitalist con power point pieni di promesse sulla prossima generazione di “AI agents autonomi”, mentre sotto il cofano si scopre il solito LLM con qualche wrapper in Python e due webhook incollati con lo sputo. Ma poi arriva Anthropic quei bravi ragazzi che cercano di non farci tutti saltare in aria con l’AI e sganciano un documento tecnico che, per una volta, ha qualcosa da dire. Anzi, qualcosa da insegnare.

Non è la solita guida teorica. Qui si parla di architetture che funzionano. Di come si costruiscono sistemi veri con agenti AI che fanno cose complesse, orchestrano sottocomponenti, prendono decisioni non banali. E soprattutto, si punta alla parola magica: affidabilità.

😱 Non serve l’AGI: l’AI ha già pronto il tuo licenziamento

Ci siamo. Il sipario è caduto. Non stiamo più parlando di una distopia ipotetica o di scenari futuristici da romanzo cyberpunk: l’apocalisse del lavoro cognitivo è stata formalmente annunciata da chi ci lavora dentro, non da uno youtuber in cerca di click.

Sholto Douglas, non l’ultimo arrivato ma uno che ha fatto la spola tra DeepMind e Anthropic, lo dice chiaro: anche se da oggi l’Intelligenza Artificiale smettesse di evolversi, anche se l’AGI rimanesse un sogno bagnato nei laboratori di OpenAI e Meta, le tecnologie esistenti sono già in grado di automatizzare TUTTI i lavori da colletto bianco entro cinque anni. Hai letto bene: già ora, non nel 2040, non con l’AGI. Ora.

Cripto come cavalli di Troia: la guerra dei stablecoin per il dominio finanziario globale

Bitcoin è tornato a mordere l’altissimo, sfiorando nuovi record. I giornalisti economici celebrano con entusiasmo il solito “rally”, ma nel sottobosco del mondo cripto si muove qualcosa di più silenzioso, letale e soprattutto regolamentato: i stablecoin. Non il genere sexy e iper-volatile che ti promette Lamborghini dopo 48 ore, ma quelli grigi, stabili, noiosi. Proprio per questo letalmente efficaci. E ora Hong Kong, come un samurai contabile con la giacca di Armani, decide di legiferare. Gli USA pure. È guerra fredda. Anzi, bollente.

Parliamoci chiaro: i stablecoin sono l’ultima arma finanziaria in mano alle nuove potenze digitali. Non fanno rumore, non oscillano come Bitcoin, ma stanno riscrivendo l’infrastruttura monetaria globale. La loro keyword segreta è “pegged”: appoggiati, ancorati, inchiodati al dollaro. E sì, più cresce il mercato dei token ancorati al biglietto verde, più cresce il dominio del dollaro stesso. E questo, in Cina, non va giù.

L’illusione del cacciavite: Trump, Apple e la farsa del “Made in USA”

La narrativa del “riportiamo il lavoro a casa” è una delle più redditizie in politica, specie se si ha bisogno di distrarre l’elettorato da guerre commerciali auto-inflitte, deficit fuori controllo e un PIL che si trascina con la grazia di un pachiderma zoppo. Ma quando il protagonista di questa farsa è Donald Trump, e l’obiettivo si chiama Apple – con tutti i suoi iPhone cuciti al millimetro in catene di montaggio asiatiche iper-ottimizzate – il risultato è più un esperimento di fantascienza industriale che una politica economica coerente. La keyword qui è reshoring, ma con sfumature grottesche.

rump minaccia di piazzare un bel 25% di tariffa su ogni iPhone venduto negli USA ma prodotto all’estero. Così, per par condicio, include pure Samsung e chiunque osi vendere smartphone senza ingrassarli prima di orgoglio a stelle e strisce. Il concetto: o fabbrichi qui, o paghi il dazio del patriottismo. Eppure, c’è un piccolo ostacolo: la realtà tecnica ed economica. Anzi, diciamola meglio: la realtà ha appena fatto un sorriso cinico e alzato il dito medio.

Alibaba cloud e il piano da 52 miliardi per dominare l’intelligenza artificiale globale

Mentre l’Occidente arranca tra regolamenti, etica da salotto e guerre interne per l’egemonia cloud, Alibaba cala il carico da 380 miliardi di yuan. Sì, hai letto bene: 52,7 miliardi di dollari per costruire una unified global cloud network, una rete unificata e globale per l’intelligenza artificiale che non lascia spazio a interpretazioni: o dentro, o fuori.

Dietro questa mossa c’è Eddie Wu Yongming, CEO del colosso cinese e architetto della nuova fase espansionistica che non si accontenta di restare leader in Asia-Pacifico. Perché se è vero che Alibaba Cloud è già il numero uno nella regione, è anche vero che il vero nemico ha tre teste e parla americano: AWS, Azure e Google Cloud. Il mercato globale non aspetta nessuno, e Wu lo sa benissimo.

Guerra di menti e silicio: Altman e Ive sabotano Google IO con un colpo da 6,5 miliardi

Altman e Sundar Pichai stanno giocando una partita a scacchi dove ogni pedina costa centinaia di milioni e ogni mossa è una guerra di percezione. Ma mentre Google sfoggia muscoli computazionali e modelli AI da Nobel della fisica, OpenAI preferisce colpire al fegato con eleganza chirurgica: design, hype, visione. E ora anche con hardware.

Sì, hai letto bene. Sam Altman ha appena comprato il cuore pulsante del design industriale di Jony Ive o almeno la sua divisione hardware, “io”. Un’acquisizione da 6,5 miliardi di dollari in equity. Non in contanti, no. Equity. Perché siamo in Silicon Valley, non a Wall Street. E il messaggio subliminale non potrebbe essere più chiaro: la vera ricchezza non è nei bilanci, è nella narrativa.

OpenAI sotto accusa: il caso Musk si riscrive e si radicalizza

Elon Musk ha ricaricato la penna legale. Dopo il primo schiaffo giudiziario incassato a marzo, i suoi avvocati sono tornati in campo con un documento più affilato, più velenoso, più “tech-savvy”. Non si è arreso. Anzi, ha rilanciato. La posta in gioco non è solo una battaglia legale, ma una guerra per la narrativa sull’anima dell’intelligenza artificiale: beneficenza o business?

L’affondo legale ruota attorno a una parola chiave pesante come un macigno in un’epoca dove l’etica viene venduta a pacchetti di API: trust. Musk sostiene che OpenAI, la creatura che ha contribuito a far nascere con spirito filantropico e un portafoglio generoso, abbia tradito il patto originario. Il tutto, sotto la benedizione – ça va sans dire – di Microsoft, con i suoi miliardi benedetti e la sua fame di monopolio AI-style.

GitHub Copilot: il nuovo cavallo di Troia di Microsoft per liberarsi da OpenAI

Microsoft non è mai stata famosa per farsi dettare la linea da qualcun altro. Nemmeno da una sua creatura. Sì, perché OpenAI è ormai un pezzo interno all’impero di Redmond, una macchina da soldi da 13 miliardi di dollari – pardon, un “partner strategico”. Ma nel mondo dell’intelligenza artificiale generativa, la fedeltà è un concetto fluido. E oggi GitHub Copilot diventa il campo di battaglia dove Microsoft decide di mettere in discussione il suo matrimonio tecnologico con Sam Altman e soci.

Foresight: l’algoritmo UK oracolare che vuole riscrivere il destino della sanità globale

La Gran Bretagna, patria del pragmatismo anglosassone e dei treni che arrivano in ritardo con puntualità matematica, decide di lanciarsi nell’impresa più ambiziosa del XXI secolo: trasformare la medicina da reattiva a predittiva. Non un upgrade, ma un salto quantico. Lo fa attraverso Foresight, un nome che puzza di marketing più che di scienza, ma dietro cui si nasconde un progetto tanto visionario quanto disturbante: usare un’intelligenza artificiale generativa per prevedere chi si ammalerà, quando e di cosa, per poi intervenire in anticipo con terapie personalizzate. Futuristico? No, inquietante. Perché qui non si parla più di diagnosi precoce, ma di pre-destino clinico.

Brian Eno e il suono dell’ipocrisia: Microsoft, Gaza e l’arte della complicità algoritmica

Brian Eno, l’architetto sonoro che nel 1995 ha dato vita al celebre avvio di Windows, ha deciso di rompere il silenzio. Non con una nuova composizione ambient, ma con un’accusa frontale: Microsoft, la stessa azienda che un tempo gli commissionava suoni per rendere più umana la tecnologia, oggi sarebbe complice di un sistema di oppressione e violenza in Palestina. In un post su Instagram,

L’inferenza invisibile che controlla il mondo

In un angolo buio delle architetture cloud, là dove le CPU sussurrano segreti e le GPU si trastullano con petabyte di dati, esiste un’entità di cui nessuno parla: l’inference provider. È l’anima silente dei servizi AI, la colonna sonora non registrata del grande spettacolo dell’intelligenza artificiale. Eppure, non troverete articoli in prima pagina, né conferenze che osino mettere sotto i riflettori questi demiurghi dell’inferenza.

Ha dell’assurdo: i modelli di inferenza stanno diventando la linfa vitale di ogni applicazione smart, dall’analisi predittiva al riconoscimento vocale. Eppure, restano in ombra, considerati “commodity” o “eri low level” da marketer in cerca di titoli roboanti. Come se parlare di inference provider fosse banalizzare l’AI, ridurla a una scatola nera senza fascino.

Apple si mette gli occhiali (di nuovo): il piano per dominare l’AI da indossare

Apple ci riprova. Dopo il mezzo passo falso del Vision Pro, troppo costoso per essere mainstream e troppo poco “AI” per essere davvero interessante, Cupertino rilancia con un progetto che sa di rivincita sottotraccia ma mira alto: occhiali smart, da lanciare a fine 2025. Niente più caschi da astronauta o visori da cyborg: questa volta il piano è più elegante, più sottile, più… Apple. O almeno così sperano Tim Cook & co., mentre la corsa all’hardware wearable guidato da intelligenza artificiale si fa spietata. La keyword? Smart glasses, ovviamente. Ma sotto la superficie, le vere partite si giocano su AI embedded e wearable computing.

Avatar economy: la nuova farsa del capitalismo tecnologico

C’era un tempo in cui i CEO delle tech company erano rockstar. Salivano sul palco con il microfono in mano, rollavano slide come se fossero profezie e guidavano aziende con un misto di carisma, follia e visione distopica del futuro. Ora? Ora ci mandano il pupazzo. Letteralmente.

La guerra dei laboratori: perché gli Stati Uniti stanno silenziando la Cina anche nei test di smartphone e router

La censura digitale non passa più dalle bacheche dei social. Passa dai laboratori. Sì, quelli che certificano se il tuo prossimo smartphone non emette più radiazioni del consentito o se il baby monitor Wi-Fi non si trasforma in una porta d’accesso per hacker di Stato.

La Federal Communications Commission (FCC), in una mossa che sa di decoupling tecnologico al napalm, ha votato all’unanimità per squalificare i laboratori cinesi dal processo di autorizzazione dei dispositivi elettronici destinati al mercato statunitense. Tradotto: niente più bollini di conformità firmati da Pechino per cellulari, telecamere di sorveglianza, router e compagnia connessa.

Claude 4, l’agente con la cravatta: Anthropic si mette in riga e sfida OpenAI a colpi di terminale

Claude 4 non è solo un altro modello AI che promette di rivoluzionare il modo in cui lavoriamo. È il tentativo più sofisticato e dichiaratamente “corporate” che Anthropic abbia mai partorito, un Frankenstein ingegneristico con la spina dorsale dritta e il codice Git preconfigurato. La vera notizia, però, non è tanto il modello in sé quanto Claude Code, il nuovo strumento da riga di comando che promette di trasformare qualsiasi sviluppatore in un supervisore pigro ma onnipotente. Sì, perché qui non si parla di prompt da tastierina e arcobaleni generativi: Claude Code si installa nel terminale, esplora repository, modifica file, scrive test, fa il commit su GitHub, e lo fa tutto con una spaventosa disinvoltura. Ma sempre, si badi bene, sotto “la supervisione del developer”, come da manuale delle policy ANSI-compliant.

Claude Opus 4: l’AI che non dorme mai e forse neanche sbaglia più

Anthropic ha appena lanciato Claude Opus 4 e Claude Sonnet 4, due modelli AI che dichiarano guerra aperta a GPT-4.1, Gemini 2.5 e a chiunque osi ancora credere che OpenAI sia l’unico dio dell’intelligenza artificiale. Nella Silicon Valley, dove ogni modello è “il più potente di sempre” finché non lo è più, questa volta la faccenda sembra leggermente più seria.

Claude Opus 4 è la punta di diamante: un modello con “capacità di ragionamento ibrido” espressione già abbastanza nebulosa per accendere il BS-detector, ma che suona bene nei boardroom. In test dichiarati da Anthropic, è rimasto operativo, da solo, per sette ore filate. Senza supervisioni, senza panico. Come un dev notturno con troppa caffeina e zero ferie arretrate.

Abilene, Texas: la nuova Wall Street del silicio neurale

E così, mentre l’americano medio si dibatte tra mutui soffocanti e bollette come cripto-meme, JPMorgan Chase tira fuori altri 7 miliardi di dollari dal cilindro stavolta non per salvare qualche banca zombie o gonfiare bolle immobiliari, ma per erigere una cattedrale nel deserto texano: un campus di data center AI targato OpenAI, parte della criptica ma evocativa iniziativa “Stargate”. Se il nome ti ricorda un film di fantascienza degli anni ’90, non è un caso. Qui non si tratta solo di macchine che pensano, ma di una vera e propria porta dimensionale verso un’economia post-umana.

Un salto quantico nell’allenamento AI: la sfida cinese che spaventa la silicon valley

Quando una società cinese di trading quantitativo decide di entrare nel ring dell’intelligenza artificiale, non si limita a fare da spettatrice. Shanghai Goku Technologies, fondata nel 2015, ha appena buttato sul tavolo un paper destinato a scuotere le fondamenta della ricerca AI globale. Non è un progetto qualunque, ma una proposta che mette in discussione i metodi tradizionali di training, quelli che dominano il mercato e che OpenAI, Microsoft e altre megacorporazioni hanno adottato come oro colato: il fine-tuning supervisionato (SFT) e il reinforcement learning (RL). Goku parla di un framework ibrido adattativo step-wise, chiamato SASR, che sarebbe più efficiente e, soprattutto, più umano nel modo in cui sviluppa capacità di ragionamento.

Stargate UAE: il futuro dell’intelligenza artificiale e della sovranità digitale negli Emirati Arabi

Stargate UAE, il progetto che suona come una saga sci-fi ma è invece una realtà concreta, mette a fuoco il nuovo terreno di gioco per l’intelligenza artificiale: Abu Dhabi. Una potenza da 1 gigawatt di calcolo AI che promette di trasformare il deserto in un centro nevralgico globale per l’innovazione. Ma attenzione, non è solo questione di watt o di server a regime. È una partita a scacchi tra Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, colossi della tecnologia e interessi sovrani che ridefiniscono il concetto di “sovranità digitale”.

Dietro al progetto troviamo G42, la società emiratina d’intelligenza artificiale, che non è proprio un piccolo startup nel garage ma un colosso con in panchina Oracle, NVIDIA, SoftBank e Cisco. Questi nomi non sono solo sponsor di lusso: rappresentano un’alleanza strategica che unisce infrastrutture hardware di ultima generazione, piattaforme cloud ottimizzate per l’AI e soluzioni di sicurezza zero-trust. Il tutto distribuito su un Campus AI da 5 gigawatt, letteralmente un megacentro di potenza computazionale, che nei piani dovrebbe partire dal 2026.

Lenovo tra le fiamme del dazio e l’eccitazione AI

Il dramma cinese del capitalismo globale si ripete, questa volta col solito protagonista: Lenovo. Sì, quel colosso nato da un ministero cinese e trasformato in emblema dell’ibridazione tra burocrazia socialista e profitto a stelle e strisce. Lenovo ha chiuso un anno stellare +21% di fatturato, 69,1 miliardi di dollari, +37% di utile netto, a 1,4 miliardi ma la vera notizia non è nei numeri. La vera notizia è il trauma da dazio.

Immaginate la scena. Ti svegli, stai brindando ai server AI raffreddati ad acqua e all’invasione del mercato con i tuoi AI PC patinati, e poi… arriva Trump sì, ancora lui, come uno spettro che attraversa l’Asia e ti scarica in faccia un dazio del 20%. Secco. Dal 4 marzo. Nessun preavviso, nessuna carezza diplomatica. Risultato: trimestre affondato e titoli giù del 5,4% a Hong Kong.

La riscossa di Xiaomi: il chip Xring o1 batte Apple e ridefinisce la guerra dei semiconduttori

Quando il CEO di Xiaomi, Lei Jun, si alza sul palco e proclama che lo XRing O1 è “molto potente”, il mondo tecnologico sa che sta per arrivare uno di quei momenti che rimbombano nei laboratori di Cupertino e nelle camere bianche di Taiwan. Lo dice con quella sicurezza che solo chi ha bruciato miliardi di yuan può permettersi. E lo dice proprio mentre mostra un chip che, a detta dei benchmark presentati, avrebbe superato — sì, proprio superato l’A18 Pro di Apple. Hai capito, Tim?

La keyword qui è “chip Xiaomi”, le secondarie obbligate sono “XRing O1” e “processore 3nm”, il tutto incastonato in un contesto che puzza di geopolitica, siliconi e una certa vendetta orientale ben pianificata.

Il ministero della difesa britannico si gioca la guerra futura sull’algoritmo

Sei pronto per una guerra combattuta da software e sensori invece che da uomini? No? Peccato, perché il Regno Unito ha deciso che è esattamente lì che stiamo andando. Il segretario alla Difesa britannico John Healey, con una dichiarazione dal sapore vagamente apocalittico e una strategia che sembra uscita da un pitch di venture capital del 2015, ha annunciato che l’intelligenza artificiale sarà il cuore pulsante della nuova Strategic Defence Review.

Per capirci: niente più carri armati che impiegano quindici anni per arrivare (ciao, Ajax), ma algoritmi pronti in settimane, magari scritti da contractor che il giorno prima lavoravano su un’app per ordinare sushi. Il keyword principale? Intelligenza artificiale militare. Le keyword collaterali? Difesa britannica, procurement bellico. Il tono? Quello dell’urgenza tecnologica a velocità di guerra.

L’inferenza in Europa: tra sovranità digitale e rincorsa tecnologica AI

In un continente dove la burocrazia è più veloce della fibra ottica e l’innovazione spesso si arena tra commi e regolamenti, l’Europa tenta di ritagliarsi uno spazio nel panorama dell’intelligenza artificiale. Mentre Stati Uniti e Cina avanzano a passo spedito, il Vecchio Continente si barcamena tra ambizioni di sovranità digitale e una realtà fatta di frammentazione e ritardi.

Eppure, nonostante tutto, qualcosa si muove. Una nuova generazione di provider di inferenza AI sta emergendo, cercando di offrire soluzioni che rispettino le normative europee e, al contempo, competano con i colossi d’oltreoceano.

Università. Bocconi e OpenAI: la nuova élite dell’intelligenza artificiale accademica

L’intelligenza artificiale entra ufficialmente nei corridoi della Bocconi. Non come oggetto di studio, ma come strumento quotidiano per studenti, docenti e staff. Con un accordo strategico firmato con OpenAI, l’università milanese diventa la prima in Italia e una delle prime in Europa a garantire un accesso diffuso e regolato agli strumenti di AI generativa, posizionandosi all’avanguardia nella trasformazione dell’educazione superiore.

Una mossa che non riguarda solo la tecnologia, ma la ridefinizione stessa del ruolo dell’università nel XXI secolo. L’AI, finora percepita come una sfida o una minaccia per l’integrità accademica, viene qui incanalata come motore di innovazione didattica, acceleratore della ricerca e leva strategica per la formazione dei futuri decisori.

Quando l’ESG incontra il Tech: così nasce il nuovo motore della crescita

Nel nuovo scenario competitivo globale, non è più sufficiente essere solo tecnologicamente avanzati o finanziariamente solidi: le aziende sono chiamate a misurarsi con un paradigma che integra responsabilità ambientale, impatto sociale e governance trasparente. I criteri ESG (Environmental, Social, Governance) si stanno rapidamente trasformando da vincolo normativo a leva strategica di crescita, investimento e innovazione.

Satoshi Nakamoto Bitcoin Pizza Day oggi: l’ombra più ricca del mondo

22 maggio 2025. Bitcoin ha appena superato i 111.000 dollari. E Satoshi Nakamoto, l’entità più misteriosa del XXI secolo, è ora ufficialmente più ricca di Bill Gates, Jensen Huang e Mark Zuckerberg. Il suo patrimonio stimato? Oltre 113 miliardi di dollari, grazie a circa 1,1 milioni di BTC mai mossi dal 2010.

A inizio 2010, il prezzo di 1 BTC era di circa 0,003 dollari sì, un terzo di centesimo. Nel maggio dello stesso anno, con l’ormai mitico Bitcoin Pizza Day (22 maggio 2010), Laszlo Hanyecz pagò 10.000 BTC per due pizze.

Il creatore di Bitcoin, o meglio, il suo fantasma, è salito all’11° posto nella lista dei più ricchi al mondo, superando il CEO di NVIDIA. E tutto questo senza mai mostrare il volto, né pronunciare una parola pubblica dal 2011.

Oggi è anche il Bitcoin Pizza Day, l’anniversario dell’acquisto di due pizze per 10.000 BTC nel 2010 (oggi valgono 330.000 Euro). Una transazione che oggi varrebbe oltre un miliardo di dollari.

Nel frattempo, la comunità cripto continua a celebrare il mito di Satoshi. Recentemente, a Bengaluru, un uomo mascherato ha camminato per le strade impersonando Nakamoto, in occasione del suo presunto 50° compleanno. Un gesto simbolico che sottolinea quanto l’anonimato di Satoshi sia diventato parte integrante del suo fascino.

Nonostante le speculazioni e le indagini, l’identità di Satoshi rimane sconosciuta. E forse è proprio questo mistero a rendere la sua figura così potente. In un mondo ossessionato dalla trasparenza e dall’esposizione, Satoshi ha scelto l’anonimato. E, paradossalmente, è diventato una delle figure più influenti e ricche del nostro tempo.

Mentre Bitcoin continua a crescere e a influenzare l’economia globale, la presenza silenziosa di Satoshi rimane una costante. Un promemoria che, a volte, il potere più grande risiede nell’assenza.

MIT Study: la parola più difficile per l’AI è “no”

Il paradosso è servito: l’intelligenza artificiale, che oggi scrive poesie, diagnostica tumori e guida auto in autostrada, inciampa su una sillaba. “No”. due lettere che, a quanto pare, rappresentano un ostacolo insormontabile per modelli da miliardi di parametri. Ma non si tratta di una gaffe semantica da bar. È un problema sistemico, profondo, che mina la credibilità dell’AI in settori dove gli errori non sono ammessi. Tipo la sanità. Tipo la giustizia. Tipo la vita vera.

Uno studio appena pubblicato dal MIT, in collaborazione con OpenAI e l’Università di Oxford, mette il dito nella piaga: i modelli linguistici – compresi i grandi protagonisti del mercato come ChatGPT, Gemini di Google e LLaMA di Meta – hanno una comprensione estremamente debole della negazione. Non riescono a processare correttamente frasi come “nessuna frattura” o “non ingrossato”. Tradotto: potrebbero leggere un referto medico negativo e trasformarlo in un allarme. O viceversa. “Non c’è infezione” diventerebbe “c’è infezione”. Un salto logico che potrebbe costare caro.

Google dice che è dominante (ma solo quando gli conviene)

La schizofrenia narrativa di Google ha raggiunto vette degne di un thriller legale. In aula, davanti al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il colosso di Mountain View piange miseria, sostenendo di essere assediato da concorrenti agguerriti come OpenAI e da una nuova generazione di motori di ricerca spinti dall’intelligenza artificiale. Ma, quando si tratta di vendere pubblicità – cioè fare veri soldi – la melodia cambia: improvvisamente Google diventa una potenza inarrestabile, un canale obbligato per chiunque voglia raggiungere un consumatore connesso.

Il problema è che entrambi i racconti non possono essere veri contemporaneamente, a meno che non si accetti l’idea che Big Tech viva in una realtà quantistica, dove può essere monopolista e vittima nello stesso istante, a seconda dell’osservatore.

L’intelligenza artificiale va in guerra: Pechino riscrive le regole del caos digitale 解放军报

Nel mondo dell’intelligenza artificiale applicata alla guerra, i cinesi non stanno giocando alla pari. Stanno giocando sporco. E se la notizia che la PLA (People’s Liberation Army) ha finalmente messo nero su bianco le proprie ambizioni anti-AI in un articolo ufficiale sul PLA Daily ti sembra un evento tecnico, sappi che non lo è. È dottrina militare, strategia geopolitica, ma soprattutto un avvertimento digitale con sfumature da Guerra Fredda 2.0. Solo che ora i missili sono algoritmi e i soldati parlano in Python.

Il bersaglio? I tre pilastri che reggono qualsiasi sistema di intelligenza artificiale degno di questo nome: dati, algoritmi, potenza di calcolo. Ed è proprio qui che la Cina vuole colpire. Non frontalmente, ovviamente: sarebbe da ingenui. La nuova guerra si vince sabotando il cervello dell’avversario, non sfondandogli la porta d’ingresso.

Devstral, l’AI che programma meglio del tuo junior developer (e non si lamenta mai)

Nel sottobosco sempre più affollato dei modelli open-source per la programmazione, ogni settimana nasce un nuovo “game-changer”. Ma stavolta, con Devstral, ci troviamo davanti a qualcosa che non puzza di marketing da incubatore gonfiato. Sviluppato con la complicità o dovremmo dire la complicità tecnologica di All Hands AI, Devstral non è un’altra macchina da completamento codice. È un coding agent model, e sì, c’è una differenza sostanziale.

Se semini schifezze, raccogli allucinazioni: perché i dati strutturati sono l’unico vero allineamento AI

Paper: You Are What You Eat – AI Alignment Requires Understanding How Data Shapes Structure and Generalisation

L’Intelligenza Artificiale non è magica. È stupida. Stupidamente coerente con quello che le dai in pasto. Per questo chi ancora si ostina a credere che basti un po’ di “fine tuning” o una bella iniezione di RLHF per far diventare un LLM etico, sicuro e conforme alle normative… be’, forse ha confuso un transformer con un prete. O con uno psicologo da salotto.

I modelli non pensano. Non capiscono. Non hanno né coscienza né senno. Ma una cosa la fanno bene: assorbono tutto. E quel “tutto”, se non ha una struttura, se è un blob semi-digerito di dati presi da chissà dove, non produrrà mai qualcosa di allineato, spiegabile o, peggio, conforme. Perché sì, signori: “You are what you eat” non vale solo per le diete keto o per il vostro feed di LinkedIn. Vale per l’AI, e oggi più che mai.

Huaweigate Bruxelles sotto attacco: Huawei, eurodeputati e partite truccate

In un’Europa che si vanta della propria trasparenza istituzionale come un vegano al primo appuntamento, la realtà continua a sgretolare la facciata con la costanza di una goccia d’acido su marmo. Lo scandalo che sta investendo il Parlamento Europeo con al centro Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni, e cinque eurodeputati sospettati di corruzione è la nuova puntata della tragicommedia continentale che mescola diplomazia, tecnologia e lobby al sapore di spring roll.

La parola chiave qui è corruzione, ma quella vera, non quella da manuale scolastico: parliamo di biglietti per partite di calcio, regali ben impacchettati, viaggi, cene e favori che, per quanto “eccessivi” secondo la procura belga, sono ormai routine mascherata da networking strategico. D’altronde, che male c’è a guardarsi Anderlecht–Ludogorets dalla tribuna VIP mentre qualcuno ti sussurra all’orecchio i vantaggi dell’infrastruttura 5G made in Shenzhen?

OpenAI e la sindrome dell’iPhone fantasma: come Altman e Ive vogliono rifare il mondo da zero

Siamo arrivati all’inevitabile punto di fusione: intelligenza artificiale e hardware iconico. OpenAI ha appena acquistato io, la startup hardware fondata da Jony Ive, il guru del design Apple che ha disegnato tutto ciò che avete mai desiderato toccare con un dito. Ma non aspettatevi un clone dell’iPhone. Altman e Ive non stanno solo progettando un gadget. Stanno cercando di impacchettare il futuro e infilarlo in tasca, senza che vi sembri un’altra app da aggiornare.

L’accordo, valutato circa 6,5 miliardi di dollari, non è solo una transazione. È un’implosione creativa tra chi ha definito l’estetica digitale degli ultimi vent’anni e chi oggi tiene per la gola la narrativa sull’AI. Perché quando Altman dice “è una nuova cosa”, non è solo marketing è una dichiarazione di guerra all’inerzia tecnologica. E il fatto che Ive abbia pubblicamente definito “scadenti” i recenti esperimenti di AI wearable come Humane Pin e Rabbit R1 è più che una stoccata: è un monito. Basta mezze soluzioni, basta gadgetini sfigati con UI da PowerPoint. Si riparte da zero.

Google trasforma l’intelligenza artificiale in un cartellone pubblicitario interattivo

È successo di nuovo. Google, il semidio dell’algoritmo e padrone indiscusso dell’attenzione umana, ha trovato un altro modo per trasformare la nostra sete di risposte in un’occasione pubblicitaria. Con una mossa che sa di geniale cinismo, la Big G ha annunciato che inizierà a testare gli annunci pubblicitari all’interno della modalità AI – quella stessa che prometteva “risposte pure”, sintetiche, oggettive. Spoiler: saranno monetizzate.

No, non si tratta di un abbellimento grafico o di un badge sponsorizzato mimetico in stile “contenuto consigliato”. Qui si parla di Search Generative Experience, o meglio, dell’ennesima mutazione del motore di ricerca in vetrina programmabile. La parola chiave è AI Mode, con un’estensione semantica ben definita: pubblicità in AI Overviews, Performance Max, Search campaigns. E sì, se stai già pagando, la tua pubblicità potrebbe essere infilata direttamente dentro la risposta generata dall’IA. E se non lo stai facendo, beh, accomodati o scompari.

IBM Agentic AI in Financial Services

Facciamo un po’ di pubblicità gratuita (purtroppo) alla grande IBM. Agenti AI la nuova frontiera o il cavallo di troia per le banche?

Se pensavate che l’intelligenza artificiale si limitasse a rispondere educatamente alle vostre domande o a suggerirvi prodotti in modo più o meno convincente, vi siete persi l’ultima rivoluzione silenziosa. IBM, che non è certo l’ultimo arrivato nel mondo tech, ha appena lanciato un allarme e una sfida alle banche: siete veramente pronte per l’Agentic AI? Quella roba lì che non sta a farvi il caffè virtuale, ma che si prende carico di pianificare, agire, imparare da sola e migliorarsi senza che un essere umano le stia costantemente addosso.

Apple apre le porte agli sviluppatori esterni per sfruttare la sua AI, ma la strada è tutta in salita

Chi pensava che Apple fosse arrivata prima o poi anche nell’arena dell’intelligenza artificiale generativa si è illuso. No, non perché Cupertino non abbia voglia o mezzi, ma perché l’azienda ha costruito negli anni un ecosistema troppo “chiuso” per lasciare spazio a chi non sia già in casa. Ora però, finalmente, la mela morsicata sembra pronta a dare ai terzi la possibilità di sfruttare i suoi modelli AI, seppur con tante limitazioni, in uno sforzo che assomiglia più a una corsa in ritardo che a una mossa da leader.

Elon Musk e il sogno tossico del tuo personale C-3PO

L’idea che ognuno di noi avrà un proprio robot umanoide personale, come un R2-D2 o un C-3PO, suona esattamente come uno di quei sogni febbricitanti da conferenza TED a tarda notte, con pubblico in visibilio e slide animate in stile Pixar. Ma Elon Musk, come sempre, non sta giocando: “La domanda per i robot umanoidi sarà insaziabile”, ha detto nell’ultima metà dell’intervista a CNBC. Roba da prendere o lasciare. Per lui, entro il 2030, Tesla sarà una robot factory più che un produttore di auto elettriche. E, ovviamente, non si parla di giocattoli intelligenti da salotto, ma di masse meccaniche autonome addestrate su cluster da un gigawatt e istruite con modelli linguistici più intelligenti del tuo commercialista.

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