La scena politica americana si anima di fronte a un pericolo che ha il sapore di un thriller geopolitico: la nuova legge Advanced AI Security Readiness Act, presentata da un gruppo bipartisan guidato da John Moolenaar, rappresenta l’ennesimo tentativo di Washington di blindare il proprio primato nell’intelligenza artificiale, puntando il dito contro il “nemico” cinese come se fossimo già in un episodio di House of Cards tecnologico.
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L’intelligence non è più un affare da spie in trench coat e valigette scambiate sotto la pioggia. Oggi, è una leva di influenza pubblica, uno strumento narrativo, una tecnologia semiotica della credibilità. E, soprattutto, è un asset strategico. Quello che un tempo si celava dietro classificazioni “Top Secret” oggi si pubblica su X con tanto di infografica e hashtag, nell’illusione ben calcolata che trasparenza e potere possano coesistere in armonia. Spoiler: non possono. Ma è proprio in questa tensione che si gioca il futuro del deterrente.

C’è una guerra che non si combatte coi droni, né con carri Leopard: si combatte con gli engagement. E la Nato, o meglio il suo Strategic Communications Centre of Excellence (un nome che sembra uscito da un seminario aziendale del 2012), ha appena pubblicato il Virtual Manipulation Brief 2025, un’analisi che assomiglia più a una radiografia dell’invisibile che a un rapporto di intelligence classico. Qui non si cercano carri armati, si cercano pattern. Coordinamenti sospetti. Narrativi convergenti. Troll vestiti da patrioti.
E i numeri fanno male. Il 7,9% delle interazioni analizzate mostrano chiari segnali di coordinamento ostile. Non stiamo parlando di un paio di bot russi nostalgici di Stalin che si retwittano a vicenda, ma di una sinfonia digitale ben orchestrata, che attraversa dieci piattaforme diverse – non solo X (che ormai è diventato l’equivalente social di una vecchia radio a onde corte), ma anche YouTube, Telegram, Facebook, Instagram e altre tane più oscure dove l’informazione diventa disinformazione e viceversa.

C’è un curioso dettaglio nelle democrazie moderne: ogni volta che una tecnologia diventa abbastanza potente da riscrivere le regole del gioco economico, qualcuno in uniforme entra nella stanza e chiede di parlarne a porte chiuse.
Così è stato per internet, per i satelliti GPS, per il cloud, e oggi ça va sans dire per l’intelligenza artificiale. La nuova mossa di Anthropic lo conferma: la startup fondata da transfughi di OpenAI ha appena annunciato Claude Gov, un set di modelli AI personalizzati creati su misura per le agenzie dell’intelligence americana. Il claim? “Rispondono meglio alle esigenze operative del governo.” Traduzione: sanno leggere, sintetizzare e suggerire azioni su documenti classificati, in contesti ad alto rischio geopolitico. Senza tirarsi indietro.

Il CEO di Palantir, Alex Karp, è apparso oggi su CNBC con lo stesso tono del professore universitario che ti guarda come se non capissi nulla, anche se è il tuo esame di dottorato. Karp ha risposto piccato all’articolo del New York Times che la scorsa settimana ha insinuato che Palantir fosse stata “arruolata” dall’Amministrazione Trump per creare una sorta di “registro maestro” dei dati personali degli americani. Un’accusa pesante. E prevedibile. In fondo, quando la tua azienda costruisce software per eserciti, spie e governi opachi, è difficile convincere il pubblico che stai solo “aiutando le agenzie a lavorare meglio”.
La smentita di Karp? “Non stiamo sorvegliando gli americani”. Certo, come no. È un po’ come se Meta dichiarasse: “Non vendiamo dati”, o come se TikTok sostenesse di non avere legami con la Cina. Palantir, per chi non la conoscesse, è l’azienda fondata con soldi della CIA e oggi quotata al Nasdaq (PLTR), che costruisce sistemi avanzati di analisi dei dati. È anche la compagnia preferita da chi vuole controllare senza che sembri controllo.

Certe notizie sembrano uscite da un romanzo distopico, ma poi scopri che sono firmate New York Times e ti rendi conto che la realtà ha superato di nuovo la sceneggiatura di Hollywood. Palantir, la creatura semi-esoterica di Peter Thiel, si è presa il cuore pulsante della macchina federale americana: i dati. La nuova amministrazione Trump — reincarnata, più determinata e algoritmica che mai — ha deciso che sarà Palantir a orchestrare l’intelligenza operativa dello Stato.
Centodiciassette milioni di dollari. È questa la cifra già ufficializzata in contratti software con il Dipartimento della Difesa, Homeland Security e altre agenzie federali. Ma è solo l’inizio. Quando un’azienda diventa il fornitore ufficiale di logica predittiva dell’apparato statale, i soldi sono il dettaglio meno interessante.

C’è qualcosa di profondamente simbolico nel nome scelto per il nuovo giocattolo militare made in Taiwan: “Kuai Chi”, ovvero la traslitterazione di 快漆, che ricorda il dio della guerra nella mitologia cinese. E no, non è un caso. Quando le onde del Pacifico diventano il nuovo fronte della deterrenza, non si lascia nulla al caso. Nemmeno il nome.
Taipei, pressata dall’incessante martellamento retorico e operativo del Dragone cinese, ha deciso di rispondere non con portaerei da sogno o sommergibili nucleari da fantascienza, ma con un’arma semplice, economica, dannatamente efficace: un drone marino kamikaze. Il tipo di arma che, se usata bene, può costare 250.000 dollari… ma affondare una fregata da 500 milioni. Asimmetria pura. Poker psicologico. Esercizio di guerra post-moderna, in cui un piccolo robot può mettere in crisi la strategia navale di un gigante.

Sotto la superficie diplomatica levigata dei colloqui di Ginevra, si consuma l’ennesimo atto del disaccoppiamento tecnologico tra Stati Uniti e Cina. Niente più sorrisi da foto opportunity, solo freddi fax del Dipartimento del Commercio americano. La Silicon Valley ha ricevuto l’ordine: smettere di esportare strumenti di Electronic Design Automation (EDA) a Pechino. Cadence, Synopsys, Siemens EDA: messi in riga, come scacchi sacrificabili sulla scacchiera geopolitica dei semiconduttori.
I colpi di scena non finiscono qui. La Casa Bianca ha anche messo in pausa alcune licenze concesse a fornitori americani per collaborare con COMAC, il Boeing cinese che sogna il decollo del C919, l’aereo destinato a spezzare il duopolio Airbus-Boeing. L’alibi? Le recenti restrizioni cinesi sulle esportazioni di terre rare. Il messaggio tra le righe: se ci provate con i minerali, noi chiudiamo i rubinetti dell’ingegneria.

Sei pronto per una guerra combattuta da software e sensori invece che da uomini? No? Peccato, perché il Regno Unito ha deciso che è esattamente lì che stiamo andando. Il segretario alla Difesa britannico John Healey, con una dichiarazione dal sapore vagamente apocalittico e una strategia che sembra uscita da un pitch di venture capital del 2015, ha annunciato che l’intelligenza artificiale sarà il cuore pulsante della nuova Strategic Defence Review.
Per capirci: niente più carri armati che impiegano quindici anni per arrivare (ciao, Ajax), ma algoritmi pronti in settimane, magari scritti da contractor che il giorno prima lavoravano su un’app per ordinare sushi. Il keyword principale? Intelligenza artificiale militare. Le keyword collaterali? Difesa britannica, procurement bellico. Il tono? Quello dell’urgenza tecnologica a velocità di guerra.

Nel mondo dell’intelligenza artificiale applicata alla guerra, i cinesi non stanno giocando alla pari. Stanno giocando sporco. E se la notizia che la PLA (People’s Liberation Army) ha finalmente messo nero su bianco le proprie ambizioni anti-AI in un articolo ufficiale sul PLA Daily ti sembra un evento tecnico, sappi che non lo è. È dottrina militare, strategia geopolitica, ma soprattutto un avvertimento digitale con sfumature da Guerra Fredda 2.0. Solo che ora i missili sono algoritmi e i soldati parlano in Python.
Il bersaglio? I tre pilastri che reggono qualsiasi sistema di intelligenza artificiale degno di questo nome: dati, algoritmi, potenza di calcolo. Ed è proprio qui che la Cina vuole colpire. Non frontalmente, ovviamente: sarebbe da ingenui. La nuova guerra si vince sabotando il cervello dell’avversario, non sfondandogli la porta d’ingresso.
Eric Schmidt, ex CEO di Google e attuale oracolo tecnologico con l’aria di chi ha già visto il futuro (e ci ha investito), non crede all’hype sull’intelligenza artificiale. No, pensa che l’hype sia troppo poco. Una provocazione? Sì, ma anche una dichiarazione di guerra. Perché quello che Schmidt sta dicendo con la calma glaciale di chi ha già giocato questa partita nel silenzio dei boardroom è che mentre il mondo gioca con i prompt di ChatGPT, dietro le quinte si stanno scrivendo gli algoritmi della dominazione globale.
Tutti concentrati sul linguaggio, sulle email che si scrivono da sole, sulle poesie che sembrano uscite da una scuola di scrittura di Brooklyn. Ma intanto, l’AI sta imparando a pianificare. A strategizzare. A ragionare in avanti e all’indietro come un generale che ha letto troppo von Clausewitz e ha una connessione neurale con l’intero Atlante geopolitico.

Mentre Stati Uniti, Cina e qualche altro paese da “risk-on geopolitico” giocano a Risiko con l’intelligenza artificiale militare, l’Unione Europea arriva al tavolo con un White Paper dal titolo più sobrio di un manuale del buon senso: “Trustworthy AI in Defence”. Il che, tradotto per chi mastica più cinismo che regolamenti comunitari, significa: “sì, anche noi vogliamo l’IA in guerra, ma con la cravatta e senza fare troppo casino”.
L’elemento centrale? Fiducia. Ma non la fiducia cieca che si dà a un algoritmo che decide chi bombardare. No, quella fiducia piena di garanzie, processi, accountability e un’abbondante spruzzata di legalese che ti fa venire voglia di tornare alla buona vecchia baionetta.

Nel mondo opaco dell’aviazione militare cinese, dove ogni notizia è calibrata al millimetro e ogni dichiarazione è filtrata da strati di censura e strategia geopolitica, è emersa una rivelazione che merita più di una lettura distratta. Wang Yongqing, una delle menti ingegneristiche più longeve della Shenyang Aircraft Design Institute, ha ammesso pubblicamente tramite una “dichiarazione controllata” su Chinanews.com che il suo team sta già integrando l’intelligenza artificiale DeepSeek nello sviluppo dei nuovi caccia stealth. Tradotto dal linguaggio diplomatico cinese: l’AI non è più un giocattolo futuristico, ma uno strumento operativo nel design bellico.

Nel marzo 2025, l’esercito statunitense ha ricevuto i primi sistemi TITAN (Tactical Intelligence Targeting Access Node) da Palantir Technologies, segnando un punto di svolta nella simbiosi tra software e hardware militare. Questa consegna rappresenta la prima volta che una software house guida un progetto hardware di tale portata per il Pentagono.
TITAN è una piattaforma mobile progettata per raccogliere, elaborare e distribuire dati da sensori spaziali, aerei e terrestri, utilizzando l’intelligenza artificiale per fornire informazioni in tempo reale ai comandanti sul campo. Il sistema è disponibile in due varianti: una avanzata, montata su veicoli FMTV, e una base, su veicoli JLTV.

C’era una volta, in quella fiaba aziendalista chiamata Silicon Valley, una generazione di tecnologi illuminati che giuravano fedeltà al “lungotermismo”, quella nobile idea secondo cui l’umanità dovrebbe pensare in grande, guardare ai secoli futuri e proteggersi dai famigerati “rischi esistenziali” dell’intelligenza artificiale.
Sembrava quasi che ogni startupper con un conto miliardario si considerasse un custode della civiltà, intento a garantire che i robot non sterminassero i loro stessi creatori mentre sorseggiavano un matcha latte.

La notizia della scorsa settimana sembrava la classica trovata da film di fantascienza di serie B: due Marines americani, in missione tra Corea del Sud e Filippine, usano un chatbot generativo simile a ChatGPT per analizzare dati di sorveglianza e segnalare minacce. Non si tratta di un esercizio di marketing tecnologico, ma di un vero e proprio test operativo di come il Pentagono stia accelerando la sua corsa nell’integrazione dell’intelligenza artificiale generativa nei processi militari più sensibili. Altro che “assistente virtuale”, qui parliamo di sistemi che leggono informazioni di intelligence e propongono scenari operativi, inserendosi direttamente nel ciclo decisionale di guerra. Se vuoi farti un’idea più precisa di questa follia organizzata puoi dare un’occhiata alla notizia originale.

Se ti dicessi che il mastodontico apparato militare americano, quello da trilioni di dollari di budget annuo, dipende dalle miniere cinesi come un tossico dal suo spacciatore di fiducia? No, non è una provocazione da bar sport geopolitico, è il cuore nero di uno studio appena rilasciato da Govini, società specializzata nell’analisi delle catene di approvvigionamento della Difesa. Un’analisi che fotografa senza pietà una verità tanto scomoda quanto letale per la narrativa a stelle e strisce: il 78% dei sistemi d’arma del Pentagono è potenzialmente ostaggio della politica mineraria di Pechino.
La radiografia effettuata da Govini non lascia margine a ottimismo: parliamo di circa 80.000 componenti bellici che incorporano metalli come antimonio, gallio, germanio, tungsteno e tellurio. Cinque piccoli elementi chimici, sconosciuti ai più, che nella mani giuste (o sbagliate) diventano l’ossatura invisibile di radar, missili, droni, blindati, sistemi di difesa nucleare. E guarda caso, la produzione globale di questi metalli è dominata quasi integralmente dalla Cina.

Con un investimento record da 10,4 miliardi di euro, il nuovo piano di sicurezza e difesa spagnolo accelera su intelligenza artificiale, cybersicurezza e tecnologie dual use, segnando una svolta strategica per l’Europa della Difesa.

Quando la NATO smette di finanziare droni, missili e tecnologia a base di metallo e punta milioni su un materiale ultrasottile come il grafene, forse vale la pena alzare le antenne. Non quelle classiche, magari proprio quelle nuove, basate su ricetrasmettitori privi di silicio, sviluppati da una piccola ma ambiziosissima startup italiana: CamGraPhIC .

Nel teatro sotterraneo della nuova corsa globale agli armamenti, la protagonista silenziosa è l’intelligenza artificiale. Ma non parliamo di Terminator o Skynet: parliamo di righe di codice, modelli linguistici, e una guerra ideologica tra ciò che è chiuso, proprietario, controllato… e ciò che invece è libero, aperto, trasparente. Nella cornice poco neutrale del Singapore Defence Technology Summit, si è scoperchiato un vaso di Pandora che molti nei corridoi del potere preferivano restasse chiuso.
Rodrigo Liang, CEO di SambaNova Systems, ha lanciato una verità che è quasi un’eresia per i sostenitori del closed-source militare: pensare che rendere un modello chiuso lo renda anche sicuro è un’illusione di controllo. Perché chi davvero vuole accedere a un modello, lo farà comunque. È una questione di risorse, non di etica. E questo mette in crisi l’intero teorema su cui si basano le restrizioni all’open source in ambito difensivo.
Nella silenziosa ma serrata corsa globale per la supremazia nell’aeronautica militare del futuro, la Cina ha deciso di rompere il silenzio con una manovra coreografata degna del miglior teatro geopolitico. Il 26 dicembre, giorno del compleanno di Mao Zedong un dettaglio che nessun regista avrebbe potuto ignorare le immagini di un nuovo caccia cinese hanno cominciato a circolare online. Un’uscita pubblica non casuale, che punta a mandare un messaggio preciso: la Cina è qui, pronta, e sta accelerando.
Le foto e i video mostrano un velivolo sperimentale, battezzato J-36, in volo sopra Chengdu, affiancato da un J-20, il cavallo di battaglia di quinta generazione del Dragone. Ma è la configurazione a tre motori ad aver scatenato i dibattiti più accesi. Tre motori in un caccia non si vedono dai tempi in cui il termine “stealth” era ancora un neologismo e non una buzzword usata da ogni startup di droni agricoli.
Se guardiamo con l’occhio da Technologist smaliziato e non da entusiasta da salone dell’aeronautica, il cuore della sesta generazione non è tanto la velocità o la furtività che ormai sono commodity – quanto l’integrazione massiva con sistemi autonomi, sensor fusion e, soprattutto, crew-uncrewed teaming.

Quando un’azienda storica della difesa italiana affida a un manager con background da innovatore una linea strategica chiamata Hypercomputing Continuum, la sensazione è chiara: il tempo dei bulloni è finito, ora servono bit che volano più veloce dei jet.
Simone Ungaro, neo-condirettore generale Strategy & Innovation di Leonardo, lo dice senza girarci attorno: «Puntiamo a guidare la transizione verso la realizzazione di tecnologie multidominio interoperabili per la sicurezza globale».
Tradotto per chi mastica più Wall Street Journal che white paper ministeriali: Leonardo non vuole più solo partecipare alla trasformazione tecnologica della difesa, vuole esserne il regista.
Il progetto LHyC (Leonardo Hypercomputing Continuum) è la nuova linea di business creata ad hoc per intercettare il crocevia tra AI, cloud distribuito, edge computing e high performance computing. Non è una velleità da piano industriale: è una necessità esistenziale per restare rilevanti in un mercato in cui la guerra si combatte (e si vince) prima nei datacenter che nei deserti.
Palantir Technologies ha appena ottenuto un contratto significativo con la NATO, con l’adozione del suo sistema Maven Smart System (MSS NATO), un sistema di comando e controllo alimentato dall’intelligenza artificiale. Questo accordo, finalizzato il 25 marzo, è stato descritto come uno dei più rapidi nella storia della NATO, con un tempo di acquisizione di soli sei mesi.
Il sistema Maven è già ampiamente utilizzato dalle forze armate statunitensi e ora verrà implementato nel quartier generale delle operazioni alleate della NATO, con l’obiettivo di migliorare la consapevolezza situazionale sul campo di battaglia aggregando dati provenienti da numerose fonti per generare un quadro operativo unificato.
L’adozione del sistema Maven da parte della NATO segna un passo significativo verso l’integrazione dell’intelligenza artificiale nelle operazioni militari alleate. Analisti come Louie DiPalma di Barrington Research hanno interpretato l’accordo come geopoliticamente significativo, suggerendo una continua dipendenza europea dai sistemi di difesa statunitensi. Questo sviluppo potrebbe rafforzare la posizione di Palantir nel settore della difesa, con implicazioni potenzialmente positive per le sue prospettive future.

Nel panorama sempre più complesso della tecnologia militare, la Cina sta dando una chiara direzione alle sue forze armate, con un focus particolare sulle capacità avanzate come la guerra navale basata sull’intelligenza artificiale (AI) e le operazioni spaziali. Queste aree emergenti sono al centro di una serie di articoli pubblicati dal Study Times, il giornale che fa capo alla Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese, dove i ricercatori dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) delineano le priorità strategiche del paese per i prossimi decenni. In particolare, la tecnologia AI è vista come il “fattore decisivo” per cambiare le regole della guerra futura, diventando la chiave per dominare i campi di battaglia di domani.
La mossa di Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, di enfatizzare l’importanza di “innovazioni audaci” e di una “nuova potenza di combattimento di qualità” risponde alla sua visione di una Cina sempre più potente e tecnologicamente avanzata sul piano militare. Durante una riunione del mese scorso, Xi ha sottolineato la necessità per la PLA di esplorare e sviluppare nuovi tipi di forze di combattimento, liberando il potenziale delle tecnologie emergenti per fronteggiare la “lotta militare” che la Cina prevede di dover affrontare.

Nel 2025, l’intelligenza artificiale (IA) sta trasformando radicalmente il settore marittimo, influenzando profondamente la logistica, la difesa e la sostenibilità ambientale. Questa evoluzione è guidata da una serie di innovazioni e collaborazioni strategiche che stanno ridefinendo le operazioni e le strategie nel settore.
Un esempio significativo è la partnership annunciata il 6 aprile 2025 tra il gigante dello shipping CMA CGM e la startup francese Mistral AI.
Questo accordo quinquennale, del valore di 100 milioni di euro, mira a migliorare il servizio clienti nel settore dello shipping e della logistica, oltre a implementare sistemi di fact-checking nei media francesi di proprietà di CMA CGM, come BFM TV. Questa iniziativa fa parte di una strategia più ampia di CMA CGM, che ha investito complessivamente 500 milioni di euro nell’IA, con l’obiettivo di aumentare l’efficienza nella gestione di oltre un milione di email settimanali dei clienti entro 6-12 mesi. Questa collaborazione non solo evidenzia l’impegno di CMA CGM nell’adozione dell’IA, ma sottolinea anche l’importanza crescente dell’IA nel migliorare l’interazione con i clienti e l’efficienza operativa nel settore marittimo.

Società Digitale esplora temi legati alla governance, alle trasformazioni, agli ecosistemi e agli sviluppi della tecnologia digitale, analizzando le loro ripercussioni sulla società. La rivista incoraggia indagini approfondite, valutazioni critiche e raccomandazioni basate sui principi di una solida ricerca accademica, indipendentemente dall’approccio disciplinare adottato. Particolare attenzione è riservata ai contributi che si inseriscono nelle quattro Aree Tematiche principali.
A Risk-Based Regulatory Approach To Autonomous Weapon Systems
Open access Pubblicato: 03 Aprile 2025 di Alexander Blanchard, Claudio Novelli, Luciano Floridi & Mariarosaria Taddeo
La regolamentazione internazionale dei sistemi d’arma autonomi (AWS) sta emergendo sempre più come un esercizio di gestione del rischio. Tuttavia, un elemento cruciale per far avanzare il dibattito globale è la mancanza di un quadro di riferimento condiviso per valutare i rischi intrinseci a queste tecnologie militari.
Un recente studio propone una struttura innovativa per l’analisi e la regolamentazione dei rischi degli AWS, adattando un modello qualitativo ispirato al Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC). Questa metodologia esamina le complesse interazioni tra fattori chiave di rischio – determinanti, fattori trainanti e tipologie – per stimare l’entità del rischio associato agli AWS e stabilire soglie di tolleranza attraverso una matrice di rischio. Tale matrice integra la probabilità e la gravità degli eventi, arricchita dalla conoscenza di base disponibile.
La ricerca sottolinea che le valutazioni del rischio e i conseguenti livelli di tolleranza non dovrebbero essere determinati unilateralmente, ma attraverso la deliberazione in un forum multistakeholder che coinvolga la comunità internazionale. Tuttavia, gli autori evidenziano la complessità di definire una “comunità globale” ai fini della valutazione del rischio e della legittimazione normativa, un compito particolarmente arduo a livello internazionale.
Il potere liquido del digitale: la nuova autarchia tecnologica tra Silicon Valley, Cina e crisi delle democrazie.
L’epoca che stiamo attraversando non ha eguali nella storia. Non è tanto una questione di tecnologia in sé, quanto della sua velocità, della sua capillarità, e soprattutto della sua imprevedibile capacità di ridefinire strutture di potere, categorie politiche e fondamenta sociali. Se fino a ieri le guerre si combattevano con carri armati, oggi si conducono con algoritmi, piattaforme, intelligenza artificiale e manipolazione cognitiva di massa. E chi le combatte, sempre più spesso, non indossa una divisa. È un ingegnere di Stanford, un imprenditore visionario in t-shirt nera, un fondo sovrano saudita o un partito comunista che ha capito come si programma un sistema operativo.
La tecnologia digitale non è più una componente del sistema: è il sistema. E in questa mutazione genetica della realtà sociale, economica e politica globale, si intravede un disegno emergente – non sempre intenzionale, ma comunque dirompente – che sta ridefinendo gli assi della geopolitica. Gli attori centrali di questa trasformazione non sono più gli Stati, ma gli attori extra-statuali, potentati digitali, corporate apolidi che accumulano capitale, dati e influenza in una misura senza precedenti. È la “balcanizzazione del potere”, ma con server sparsi nei deserti del Nevada e nei data center sottomarini di Google, non più tra le montagne dei Balcani.

Nel cuore della sfida tecnologica globale, Roberto Cingolani, una delle voci più influenti nel panorama della difesa e della transizione tecnologica europea, ha espresso più volte l’urgenza di un’azione concreta per rafforzare la posizione dell’Europa nel settore spaziale. Con l’incredibile ascesa di SpaceX di Elon Musk, il mondo assiste a una rivoluzione nell’esplorazione spaziale, con Musk che ha portato la corsa spaziale privata a un livello mai visto prima. Tuttavia, la posizione dominante della sua azienda potrebbe non essere facilmente sfidabile, e Cingolani sa che l’Europa deve rispondere con forza e coesione. Ma come? La risposta potrebbe risiedere nella creazione di un consorzio spaziale europeo che unisca forze, risorse e competenze in un fronte unito.

La Cina ha alzato il sipario sulla sua ultima meraviglia tecnologica: il Caihong-9 (Rainbow-9), un drone ad alta autonomia e intelligenza artificiale avanzata, pronto a ridefinire il concetto di guerra senza piloti. Questo UAV (Unmanned Aerial Vehicle) non è solo un velivolo da ricognizione, ma una vera e propria piattaforma bellica autonoma capace di cambiare le regole del gioco nei conflitti moderni.
L’ultima dimostrazione pubblica, trasmessa dalla CCTV, ha mostrato il Rainbow-9 in volo per oltre 20 ore consecutive, equipaggiato con moduli di carico di ultima generazione. Ma il dato più impressionante è la sua autonomia teorica di 40 ore e oltre 10.000 km di raggio operativo, posizionandolo tra i droni più resistenti e versatili al mondo. Questo significa che, con un solo volo, potrebbe monitorare intere regioni strategiche: dalla penisola coreana a Taiwan, dalle Filippine al Vietnam, per poi tornare in Cina senza problemi.

Washington e Bruxelles, nel loro tentativo miope di contenere la crescita di Cina e Russia, hanno finito per ottenere esattamente il contrario: un’alleanza strategica tra Pechino e Mosca che sta ridefinendo l’ordine mondiale. La cosiddetta “asse della sovversione” – che include anche Iran e Corea del Nord – è in realtà un aggregato eterogeneo in cui solo la partnership sino-russa conta davvero. E, ironia della sorte, se non fosse stato per la politica aggressiva e sanzionatoria dell’Occidente, probabilmente Pechino e Mosca sarebbero rimaste più distanti.
Dopotutto, la Cina è un colosso industriale che ha sempre preferito l’Occidente come mercato e fonte di tecnologia. La Russia, invece, è una superpotenza energetica che si sarebbe accontentata di vendere petrolio e gas all’Europa. Ma le guerre economiche e le sanzioni imposte dagli USA e dall’UE hanno chiuso qualsiasi altra opzione. Mosca è stata costretta a dirottare il suo commercio verso Oriente, e Pechino ha trovato in Putin un partner strategico che, seppur ingombrante, è essenziale per la stabilità delle sue forniture energetiche e per la sicurezza geopolitica.

L’Intelligenza Artificiale (AI) sta ridefinendo il concetto stesso di guerra e, con esso, il pericolo di un conflitto nucleare fuori controllo. L’idea che una macchina possa prendere decisioni in ambito militare, in particolare nel contesto nucleare, fa tremare i polsi persino agli esperti di strategia. Eppure, la corsa all’AI militare è già una realtà consolidata, con Stati Uniti, Cina e Russia in prima linea, mentre il resto del mondo osserva con una combinazione di paura e impotenza.
Secondo John Tasioulas, direttore dell’Institute for Ethics in AI dell’Università di Oxford, la priorità dovrebbe essere una sola: garantire che le decisioni sull’uso di armi nucleari restino sotto il controllo umano. Il rischio non è tanto l’apocalisse robotica da fantascienza, ma una guerra atomica innescata da un malinteso, da un errore di calcolo o, peggio, da un algoritmo difettoso. L’AI, lungi dall’essere solo uno strumento difensivo, potrebbe rivelarsi il più grande fattore destabilizzante mai introdotto nella geopolitica moderna.

Se la guerra in Ucraina ha dimostrato qualcosa, è che Starlink non è solo una costellazione di satelliti per fornire Internet nelle aree rurali. È diventato un asset strategico che garantisce comunicazioni militari resilienti, sfuggendo ai metodi tradizionali di guerra elettronica. Questo lo ha reso un obiettivo primario per la Cina, che vede la rete di Elon Musk come una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale e, potenzialmente, alla sua capacità di condurre operazioni belliche senza interferenze americane.
Secondo un rapporto pubblicato dalla Rand Corporation, il Pentagono dovrebbe prepararsi a possibili attacchi della Cina contro Starlink. Il documento rivela che l’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) tende a “esagerare e catastrofizzare” la minaccia di questa rete satellitare e potrebbe essere disposto a compiere operazioni provocatorie nello spazio senza temere un’escalation immediata con gli Stati Uniti. In altre parole, Pechino potrebbe scommettere sul fatto che Washington non voglia trasformare un conflitto nello spazio in una guerra su larga scala.

Il 21 marzo 2025, Elon Musk, il miliardario e potente CEO di Tesla e SpaceX, ha fatto il suo ingresso al Pentagono per discutere di un tema che ha un peso ben diverso dalla produzione di automobili elettriche o dalle missioni spaziali. Non si trattava di un incontro su come ridurre i costi o ottimizzare la logistica, ma di un approfondimento sulla geopolitica globale, in particolare sul conflitto potenziale con la Cina. O almeno, questo era l’intento iniziale.
Secondo fonti interne, Musk avrebbe dovuto partecipare a una sessione top-secret sui piani di guerra degli Stati Uniti contro la Cina, ma, come un abile regista, il Pentagono ha cambiato il copione all’ultimo minuto. Musk si è trovato a partecipare a una riunione non classificata, in cui la Cina, insieme alla tecnologia, è stata discussa in maniera generale. Non un briefing militare segreto, ma comunque un incontro che solleva più di un interrogativo, a partire dai conflitti di interesse che Musk potrebbe affrontare.

Palantir Technologies, il colosso americano specializzato in big data e intelligenza artificiale, sta vivendo un momento d’oro. I risultati finanziari del 2024, pubblicati di recente, mostrano una crescita impressionante che non solo consolida la sua posizione nel settore tecnologico, ma la rende anche una delle aziende più ambite in Borsa. Con un titolo che ha registrato un aumento del 144% nel 2024, Palantir si conferma un player di riferimento per chi cerca innovazione e solidità finanziaria.

Il settore della Difesa, Sicurezza e Resilienza (DSR) ha raggiunto livelli record nel 2024, con un investimento totale di 5,2 miliardi di dollari, segnando un nuovo massimo storico. Questo dato emerge dal primo rapporto pubblicato da Dealroom.co e dal NATO Innovation Fund, il fondo di venture capital da 1 miliardo di euro sostenuto da 24 paesi membri della NATO. In un contesto in cui il mercato globale del venture capital ha registrato una contrazione del 45% negli ultimi due anni, il segmento DSR ha invece segnato una crescita del 30%, dimostrando di essere uno dei settori più resilienti e in rapida espansione in Europa.
Le startup che sviluppano tecnologie per la consapevolezza situazionale, il supporto alle decisioni e il monitoraggio delle minacce hanno attratto finanziamenti per un miliardo di dollari nel solo 2024, con un incremento di quattro volte rispetto al 2020. Questo slancio si traduce in un ecosistema di startup in piena espansione, capace di influenzare non solo il panorama della difesa, ma anche il settore della sicurezza aziendale e governativa.

La crescente potenza manifatturiera della Cina rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti nel settore della robotica, secondo un rapporto pubblicato da SemiAnalysis, un’azienda indipendente di ricerca statunitense. L’automazione guidata dai robot intelligenti sta ridisegnando il panorama industriale globale, permettendo un’espansione senza precedenti della capacità produttiva in vari settori. La Cina, con il suo avanzato ecosistema di produzione e innovazione, si trova oggi in una posizione unica per raggiungere un livello di automazione che nessun’altra nazione può eguagliare.
Il rapporto evidenzia come la Cina stia rapidamente consolidando la propria leadership nella robotica industriale. Nel più grande mercato mondiale della robotica, la quota dei produttori cinesi si avvicina ormai al 50%, un aumento significativo rispetto al 30% registrato nel 2020. Questa crescita non è casuale, ma il risultato di una strategia ben definita che combina investimenti in ricerca e sviluppo, politiche governative favorevoli e un’industria manifatturiera fortemente integrata.

Osservatorio: CINA – Capitale Umano – Formazione
Il contesto economico cinese sta vivendo una trasformazione significativa, alimentata dal boom dell’intelligenza artificiale e da un crescente impegno da parte del governo centrale nel promuovere l’imprenditorialità tra i giovani.
Tuttavia, nonostante gli sforzi in corso, una parte consistente della gioventù cinese continua a preferire l’idea di ottenere un impiego stabile nel settore pubblico, piuttosto che rischiare con iniziative imprenditoriali.

Alexandr Wang, il miliardario 28enne fondatore e CEO di Scale AI, sta ridefinendo il posizionamento della sua azienda, spostando il focus dal settore privato a quello pubblico, con un’attenzione particolare alla difesa e all’intelligence statunitense. Se in passato Scale AI si era affermata come fornitore di dati per l’addestramento dei modelli di AI delle big tech, oggi Wang sta consolidando le sue relazioni con le agenzie governative, tra cui CIA, FBI e il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e molti Governi stranieri…
Scale AI ha iniziato a lavorare con il governo federale già da alcuni anni, ma con il ritorno di Donald Trump alla presidenza, Wang sta accelerando la transizione verso il settore pubblico, consapevole delle opportunità offerte dalla crescente domanda di intelligenza artificiale in ambito militare e di sicurezza nazionale. La sua azienda fornisce tecnologie avanzate per l’analisi dati, la sorveglianza e il riconoscimento automatizzato, strumenti essenziali per le agenzie di intelligence e le forze armate statunitensi.
Le connessioni di Wang con Washington si sono rafforzate attraverso contratti diretti con il Pentagono e il DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), oltre a collaborazioni con l’US Air Force e il National Geospatial-Intelligence Agency (NGA), che utilizza le soluzioni di Scale AI per migliorare la raccolta e l’interpretazione dei dati satellitari e geospaziali. Questi rapporti strategici posizionano Scale AI come uno dei principali fornitori di tecnologie AI per il governo degli Stati Uniti, in diretta competizione con colossi del settore come Palantir.

Un team di ricercatori cinesi ha sviluppato un’intelligenza artificiale capace di superare i piloti umani in combattimenti aerei simulati, riuscendo persino a contrastare manovre acrobatiche imprevedibili e ad alta intensità. Lo studio, pubblicato nel Journal of Gun Launch & Control, rappresenta un significativo passo avanti rispetto ai sistemi AI precedenti, grazie all’uso di tecnologie avanzate di imaging a infrarossi e modellazione predittiva basata sulla meccanica del volo.
Gli scienziati del Northwest Institute of Mechanical & Electrical Engineering hanno evidenziato che la loro ricerca ha superato un limite critico delle precedenti AI per il combattimento aereo, le quali si basavano esclusivamente su modelli predittivi legati alla traiettoria dell’aereo nemico.