Quando la nuova National Security Strategy di Donald Trump è arrivata sulle scrivanie delle redazioni, molti commentatori hanno reagito come se fosse stata diffusa una dichiarazione di guerra all’Europa. Le prime pagine hanno parlato di una Washington decisa a “strangolare Bruxelles”, a “umiliare la NATO”, a “chiudere il secolo atlantico”. In realtà, basta leggere il documento con calma e con un minimo di ironica diffidenza giornalistica per accorgersi che l’Europa non è affatto il nodo centrale di questa strategia. È citata, sì, ma quasi di passaggio (2 pagine verso la fine del documento). Il vero obiettivo del testo, scritto con tono muscolare e con una certa teatralità tipica del trumpismo, si trova altrove.
E infatti il punto focale non è nel Vecchio Continente, bensì nel tentativo di ridisegnare completamente la postura americana verso due grandi fronti: l’Indo Pacifico e l’emisfero occidentale. Ed è qui che molti commentatori hanno commesso l’equivoco di fondo, confondendo il ritorno alla dottrina Monroe. Trump, invece, nel suo “corollario” la interpreta come una ridefinizione aggressiva degli spazi strategici americani, una sorta di avviso alla Cina più che un rimprovero all’Europa.
Il messaggio è chiaro: l’emisfero occidentale citato nel documento fa riferimento all’America e, soprattutto, a quell’America Latina che torna a essere considerata terreno vitale per gli Stati Uniti, non perché Washington sogni un ritorno al passato, ma perché Pechino negli ultimi anni vi ha posizionato porti, infrastrutture e investimenti capaci di alterare catene di approvvigionamento, filiere produttive e, in prospettiva, equilibri militari. Chi vede in questo un attacco all’Unione Europea probabilmente non ha superato la seconda pagina del documento.
L’intera strategia parte da un presupposto quasi brutale nella sua freddezza geopolitica: lo scopo della politica estera è la protezione degli interessi vitali americani. Punto. Tutto il resto è accessorio. Il documento accusa le élite della politica estera statunitense di aver coltivato per trent’anni l’illusione del proprio dominio permanente sul mondo, sacrificando nel frattempo la classe media, la base industriale e persino il vantaggio tecnologico nazionale sull’altare del globalismo e del libero scambio indiscriminato.
Da questo nasce un’agenda che rappresenta un ritorno alla tradizione strategica americana: difendere l’America senza preoccuparsi di riplasmare gli altri Paesi a propria immagine. Trump si dice pronto a evitare guerre infinite, a non esportare democrazia, ma anche a non tollerare pratiche commerciali predatorie, traffico illecito, immigrazione incontrollata e operazioni di influenza che, secondo il documento, avrebbero corroso l’ordine interno.
È significativo che nella nuova National Security Strategy non vi sia traccia di una rottura strutturale con l’Europa. Il passaggio dedicato al continente è quasi cortese nella forma, sebbene punzecchiato da una sottile preoccupazione per la sua perdita di vitalità economica, per il calo demografico, per le tensioni migratorie e per il peso crescente delle organizzazioni sovranazionali che, secondo la visione trumpiana, rischiano di erodere la responsabilità politica degli Stati nazionali. È una critica? Certo. Una minaccia? Decisamente no. Semmai è un invito, paternalistico, per carità, a tornare a essere un alleato solido e sicuro di sé, più che un cliente della protezione americana.
Del resto Trump non rinnega l’importanza dell’Europa. La considera fondamentale, culturalmente e strategicamente. Vuole Paesi europei più forti, non più deboli, capaci di contribuire alla stabilità regionale e alla competizione globale con la Cina. Dove entra in gioco la NATO? Non come alleanza da demolire, ma come organismo da riportare a standard più realistici, smettendo di espandersi in eterno e recuperando logiche di equilibrio con la Russia piuttosto che di trazione ideologica. La rapida cessazione delle ostilità in Ucraina è letta, da questo punto di vista, come necessità per prevenire un’escalation o un’espansione involontaria della guerra e come disimpegno da quello che viene visto come una trappola politica. Peraltro anche il Medio Oriente, per anni al centro della politica estera americana, viene ridimensionato (a parte l’attenzione all’Iran considerato lo sponsor del terrorismo internazionale).
Il centro della strategia, invece, è da un’altra arte. È l’Indo Pacifico, descritto come il futuro campo di battaglia economico e tecnologico del pianeta. Lì si gioca la vera partita con la Cina, accusata di manipolare catene di approvvigionamento, condurre operazioni industriali opache e tentare di dominare aree marittime cruciali per il commercio mondiale. Taiwan occupa un’attenzione particolare, non solo come simbolo politico ma come snodo fondamentale per la produzione globale di semiconduttori. La deterrenza, in questo contesto, diventa quasi una religione civile. Non a caso vengono chiamati in causa tutti quei Paesi come Corea del Sud, Giappone, Australia e India che possono costituire una catena di contenimento all’espansionismo cinese.
Il documento immagina un’America impegnata a ricostruire un esercito più potente, una base industriale più robusta, un settore energetico che torni ad essere dominante. Rifiuta apertamente le politiche Net Zero, viste come un vantaggio competitivo offerto ai rivali strategici (ancora una volta la Cina che ritorna). E rimette al centro la competenza e il merito, evocando un’altra linea politica che ha sicuramente un impatto sui dibattiti interni americani: contrasto alle ideologie considerate “radicali” o “woke”, viste come minacce al funzionamento delle istituzioni e dei sistemi tecnologici del Paese.
E allora dove sarebbe, in tutto questo, la guerra all’Europa annunciata da titoli e commenti indignati? Non c’è. O meglio: l’Europa è un capitolo, non il bersaglio. Il documento è un manifesto geopolitico che guarda altrove, verso l’Oceano Pacifico e verso l’America Latina. È una strategia disegnata per invertire la globalizzazione ideologica del passato e ricentrare l’interesse nazionale americano come principio guida. E se critiche vengono rivolte a Bruxelles, queste non sono di natura bellica, bensì politiche e culturali, inserite in un contesto più ampio che riguarda la sovranità e l’efficienza delle democrazie occidentali sopratutto a fronte di un’immigrazione che Washington legge come incontrollata e potenzialmente in grado in futuro di sovvertire gli squilibri demografici del Vecchio Continente.
Si può essere d’accordo o meno con tutto l’impianto del documento, come pure non condividerne alcuni dei passaggi (nei quali pure si legge chiaramente l’infuenza del pensiero di J.D. Vance), ma la nuova National Security Strategy non è una dichiarazione di ostilità verso l’Unione Europea. È un messaggio molto più diretto alla Cina e una ridefinizione dell’ordine delle priorità americane. L’Europa è invitata, con tono talvolta brusco e talvolta nostalgico, a rimettersi in carreggiata e a contribuire al nuovo equilibrio globale. Se qualcuno cercava una tempesta transatlantica, dovrà probabilmente aspettare ancora un po’. Per ora, il fulmine non è caduto qui. E chi racconta il contrario rischia di inseguire ombre invece di leggere le righe e, soprattutto, tra le righe.