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AWS scommette sulla prossima generazione di startup dell’intelligenza artificiale generativa

Generative AI Accelerator, scelte tra oltre 2.800 candidature provenienti da quattro regioni globali e dodici settori industriali. Non si tratta di un semplice programma di incubazione, ma di un ecosistema strategico in cui AWS consolida la propria leadership come infrastruttura di riferimento per l’innovazione basata sull’intelligenza artificiale generativa.

La strategia di investimento di Nvidia: costruire un ecosistema AI da $4.5 Trilioni

Il panorama tecnologico globale è stato ridefinito dall’avvento dell’AI generativa, e nessuna azienda ne ha capitalizzato il potenziale in modo più spettacolare di Nvidia. Da quando ChatGPT ha fatto il suo debutto, i ricavi, la redditività e le riserve di liquidità del produttore di GPU ad alte prestazioni sono saliti alle stelle, portando la sua capitalizzazione di mercato a $4.5 trilioni.

Tuttavia, il successo di Nvidia non è più solo una questione di vendita di hardware. La vera narrazione strategica risiede nell’uso di questa fortuna per finanziare e in sostanza, modellare il futuro della tecnologia attraverso massicci investimenti in startup.

Diagnosi ai tempi dell’AI: cosa succederebbe in italia con Akido Labs ?

La California ha appena alzato il sipario su un’innovazione che rischia di stravolgere il concetto stesso di visita medica. Akido Labs utilizza modelli linguistici di grandi dimensioni per condurre appuntamenti medici, raccogliere sintomi, documentare storie cliniche e persino suggerire diagnosi. Pazienti che un tempo dovevano affrontare ore di attesa ora parlano con assistenti virtuali empatici, ottenendo consulenze più lunghe e dettagliate rispetto a molte cliniche tradizionali. Tutto questo senza la necessità immediata di parlare con un medico umano.

Entra in Fucina: candidati e accendi l’innovazione nella cybersecurity

Il mondo della cybersecurity non aspetta nessuno, e chi resta fermo rischia di essere mangiato vivo dalle minacce digitali che evolvono ogni giorno. La buona notizia? Alan Advantage ha acceso la miccia con Fucina Cyber Lab, un programma di accelerazione pensato per chi non vuole solo sopravvivere, ma dominare il futuro della sicurezza informatica. Fino a 150.000€ di supporto economico non sono una promessa vaga: sono carburante reale per chi ha una startup pronta a trasformare il rischio digitale in opportunità concreta.

Fucina Cyber Lab: la nuova frontiera della cybersecurity italiana

In Italia parlare di cybersecurity non è mai stato così urgente, eppure così poco sexy. Poi arriva il Fucina Cyber Lab e cambia improvvisamente il registro. Un programma che non si limita a fare da vetrina istituzionale, ma che mette in campo denaro vero, mentorship reale e accesso a un network che va oltre le solite passerelle. Alan Advantage, che non è l’ennesima società in cerca di gloria ma un “Operational Venture” con storia e numeri, ha deciso di sporcarsi le mani insieme all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale. Il risultato è un acceleratore per startup innovative early-stage che non si limita a raccontare l’innovazione, ma cerca di costruirla pezzo dopo pezzo.

HUXE e il nuovo capitalismo dell’attenzione sonora

Il paradosso è servito: dopo averci inchiodato agli schermi, la Silicon Valley ha deciso che è il momento di restituirci la vista, ma solo per occupare le nostre orecchie. Huxe nasce da questa intuizione, un’app che non si limita a leggere le notizie ma le trasforma in un talk show perpetuo con conduttori artificiali pronti a intrattenerti, informarti, distrarti e soprattutto a impedirti di pensare in silenzio. Tre ex Googler, con pedigree da NotebookLM, hanno capito che il vero tesoro non è nei documenti che l’AI riassume, ma nel rumore di fondo che accompagna le nostre giornate. Un sottofondo che somiglia molto a una radio personalizzata, ma con la differenza sostanziale che non c’è alcun umano dietro al microfono.

Google perché il tuo 82% di accuratezza ti farà fallire e come salvarsi prima dei demo day

Google Startup technical guide AI agents

82% di accuratezza sembra un traguardo incredibile quando lo leggi in un benchmark. Google però ti ammonisce senza mezzi termini: inseguire demo luccicanti invece della disciplina tecnica porta dritto al fallimento. Nel mondo reale, quei numeri non valgono nulla se non sono supportati da fondamenta solide. Molte startup si lasciano abbagliare da grafici colorati e output spettacolari, dimenticando che la vera sfida è costruire sistemi affidabili, scalabili e controllabili.

La guida tecnica AI Agents per startup affronta proprio questo problema, offrendo una roadmap pratica che separa il grano dalla pula. Dentro c’è tutto quello che serve per risparmiare mesi di lavoro sprecato: capire cosa sia davvero un agente AI, quali modelli e strumenti usare, come orchestrare runtime e memoria senza perdere il controllo. La differenza tra un demo accattivante e un prodotto difendibile sta in concetti apparentemente banali: grounding, gestione dei dati, e disciplina operativa.

Incredible e il mito dell’agentic AI perfetto dalla Svezia

Quando leggi “incredible”, pensi a qualcosa di grandioso, e non sei deluso: tre anni di sviluppo dicono tutto. È incredibile e stai per scoprire perché, con quella cifra magica di 1000+ azioni e gigabyte di dati che vengono strumentalizzati senza sforzo, Incredible ha appena piantato una bandierina nel deserto del generico genAI.

Isotopes AI spunta dal buio con 20 milioni di dollari e un agente che ti legge nel cervello dei dati

Il mercato tecnologico ha visto nascere decine di startup negli ultimi due anni che promettono di portare intelligenza artificiale e dati aziendali sotto lo stesso tetto, ma poche hanno un pedigree così pesante come Isotopes AI. L’azienda è uscita dal buio con un seed round da 20 milioni di dollari e un prodotto che non si limita a chattare con i dati, ma li mastica, li digerisce e li risputa sotto forma di analisi pronte a finire in un board pack o in un piano operativo. La promessa è seducente: finalmente un AI agent che risolve il problema cronico del Big Data, ovvero la distanza siderale tra chi gestisce l’infrastruttura e chi i dati li dovrebbe usare per prendere decisioni.

Elysia AI: l’agente intelligente che umilia ChatGPT e rivoluziona Qeaviate

Elysia non è un altro giocattolino di AI generativa travestito da rivoluzione, è un cambio di paradigma dichiarato. Weaviate ha già stupito con il Late-Chunking, una di quelle trovate che sembrano banali dopo ma che prima non aveva avuto il coraggio di formalizzare nessuno. Qui però il passo è più ambizioso, perché Elysia non è solo un modello, è un agente con architettura decisionale che mette a nudo i suoi stessi ragionamenti. La trasparenza, che per anni nel mondo AI è stata un optional di lusso, diventa parte integrante del design.

Startup Banking nel 2025: la partita invisibile che decide la vita o la morte delle scaleup

Nessuno ama parlare di banche fino a quando non si rompe qualcosa. I fondatori di startup scoprono molto presto che la differenza tra una crescita fluida e un inferno burocratico spesso non sta nell’idea brillante o nel team geniale, ma nel conto corrente e in chi lo gestisce. Sembra banale, quasi volgare ridurre l’innovazione a firme, tassi e linee di credito, ma nel 2025 la realtà è spietata: la banca è un partner strategico tanto quanto il primo investitore, con la differenza che non puoi licenziarla se si rivela un freno.

La narrativa ufficiale delle venture capital gira intorno ai multipli e ai round da capogiro, ma basta sedersi a un tavolo con chi ha davvero portato una startup da zero a IPO per sentire una verità meno glamour. La scelta di un istituto bancario non è solo un tema di commissioni basse o app di cash management, è questione di sopravvivenza. Le prime settimane contano più di mille piani industriali: se i flussi di cassa si bloccano per un banale ritardo nella compliance, se il supporto clienti risponde con un ticket automatico invece che con un numero diretto, l’illusione di “move fast and break things” si trasforma in “wait slowly and die quietly”.

La startup da 1 miliardo di dollari costruita da una sola persona è già dietro l’angolo

Il mito del fondatore miliardario sta per subire una rivoluzione radicale. Secondo Sam Altman, CEO di OpenAI, e confermato dai progressi vertiginosi di GPT-5, la prima startup individuale da 1 miliardo di dollari non nascerà dai soliti team tentacolari o dagli investimenti colossali del venture capital, ma da un singolo individuo armato di laptop, connessione Internet e una legione di agenti di intelligenza artificiale. Questo scenario potrebbe concretizzarsi già nel 2028, molto prima di quanto la maggior parte degli osservatori avrebbe previsto.

Il nuovo modello di imprenditorialità rovescia regole consolidate. Team suddivisi in silos per ricerca, marketing, vendite e supporto clienti vengono sostituiti da agenti di intelligenza artificiale che operano 24 ore su 24 nel cloud, orchestrati da una sola mente umana. Il fondatore individuale può gestire operazioni globali senza mai lasciare la cucina di casa, mentre il vecchio mix di pedigree universitario, capitali di rischio e eserciti aziendali diventa un optional secondario. Creatività, agilità e uso intelligente degli strumenti IA diventano le nuove valute del successo.

flag of usa

AI funding 2025: le startup americane raccolgono miliardi senza fermarsi

Il 2024 ha segnato un anno monumentale per l’industria dell’intelligenza artificiale negli Stati Uniti e oltre. Non parliamo di piccoli investimenti da Silicon Valley garage, ma di 49 startup che hanno raccolto round da oltre 100 milioni di dollari, con sette aziende che hanno superato il miliardo di dollari in singoli round. Alcune di queste hanno addirittura completato più di un “mega-round” nello stesso anno.

Il 2025 si sta muovendo con lo stesso slancio. Anche se siamo solo a fine terzo trimestre, i numeri suggeriscono che la corsa ai miliardi non si fermerà. Già diverse aziende hanno raccolto round superiori al miliardo, e alcuni protagonisti del settore hanno già accumulato più di un mega-round.

La nuova schiavitù digitale delle startup AI: dal 9-9-6 al 007

Quando nel mondo tech americano si parlava della cultura lavorativa cinese 9-9-6, lo si faceva con un misto di sconcerto e disprezzo velato. Lavorare dalle 9 alle 21, sei giorni su sette? Una barbarie made in Shenzhen, roba da fabbriche digitali dove il capitale umano è sacrificabile quanto un vecchio server. Ma adesso, nella Silicon Valley dopata dall’intelligenza artificiale, quel modello inizia a sembrare quasi rilassato. Il nuovo mantra? Zero-zero-sette. Non James Bond, ma zero ore, sette giorni: il ciclo completo della nuova mistica del lavoro AI, dove l’unica pausa concessa è il sonno REM tra due sprint di deployment.

La parabola più grottesca viene da Cognition, startup americana specializzata in generazione di codice. Un nome che fa pensare all’intelligenza, alla riflessione, magari all’etica. Nulla di tutto questo. Dopo l’acquisizione del rivale Windsurf, il CEO Scott Wu ha inviato un’email interna che potrebbe essere letta come una dichiarazione di guerra alla vita stessa. Ottanta ore a settimana, sei giorni in ufficio, il settimo a fare call tra colleghi. Nessuna “work-life balance”. Quella, evidentemente, è roba da boomer. “Siamo gli sfavoriti”, scrive Wu, con un tono che pare uscito da una fan fiction distopica in cui Elon Musk guida una setta. I nuovi dipendenti? Dovranno adattarsi o uscire dalla porta sul retro.

Cosa spinge questi moderni monaci digitali a rinunciare a tutto per un cluster di GPU e una valuation ipotetica? Il denaro, certo, ma non solo. La religione dell’hypergrowth ha le sue liturgie, e dormire in ufficio sembra essere diventata una di esse. Una foto su Slack alle 2 del mattino davanti a una dashboard di metrics, una cena consumata su una sedia ergonomica mentre si aggiorna un modello linguistico, sono oggi il corrispettivo delle cicatrici di guerra. Sarah Guo, investitrice in Cognition, lo dice chiaramente: “If this offends you, ngmi” ovvero “se questo ti offende, non ce la farai”. Una frase che suona come un verdetto darwiniano più che un consiglio.

Nel frattempo, startup come Mercor (assunzioni AI) e Anysphere (assistenti di codifica) non si nascondono: anche lì si lavora sette giorni su sette. Nessuna eccezione, nessuna domenica. L’obiettivo è diventare the next big thing e per farlo bisogna spezzarsi, insieme ai propri team. Masha Bucher, fondatrice del fondo Day One Ventures, ci mette il carico da novanta: “Se un founder non è in ufficio almeno un giorno nel weekend, allora sì che mi preoccuperei”. A quanto pare, anche il sabato di ricarica è una debolezza da eliminare.

La trasformazione è tanto inquietante quanto indicativa. Queste non sono startup che rincorrono la produttività. Sono culti tecnologici travestiti da aziende, dove il capitale umano è trattato come un modello di machine learning: più lo alleni, più performa, finché collassa. Il linguaggio è quello del sacrificio eroico, della resistenza estrema, dell’urgenza messianica. In fondo, “lavorare 80 ore a settimana per costruire il futuro” suona meno bene se lo chiami semplicemente sfruttamento.

Ma dietro tutto questo c’è una verità più scomoda. I fondatori e gli investitori stanno orchestrando una narrazione in cui la fatica disumana diventa un badge of honor, un segno distintivo che fa lievitare le valutazioni come una buona metrica di retention. Cognition è vicina a una nuova raccolta fondi che potrebbe raddoppiarne la valutazione a 10 miliardi. Vuoi attrarre i capitali nel 2025? Mostra quanto sei “hardcore”, quanto riesci a spingere il tuo team sull’orlo del burnout. E magari fagli anche sorridere per la foto su Forbes.

Tutto questo si inserisce in un contesto globale dove l’intelligenza artificiale sta diventando il nuovo petrolio, e la corsa all’oro impone ritmi da rivoluzione industriale 4.0. Solo che, questa volta, non ci sono le tute blu. Ci sono PhD del MIT e ex-Googler, tutti consapevoli, tutti volontari. O forse no? Perché dietro ogni CV brillante, c’è un’illusione silenziosa: quella che il prossimo modello generativo possa davvero cambiare il mondo. Che il codice che stai scrivendo a mezzanotte sia quello che farà la differenza tra anonimato e IPO.

Ma mentre l’élite tecnologica americana gioca a fare gli Shaolin della programmazione, la domanda vera è un’altra. Dove si colloca il limite? Non quello legale o medico, ma quello culturale. Quando una società decide che lavorare sette giorni su sette è il prezzo giusto da pagare per essere competitivi, non è più una questione di work ethic. È un collasso valoriale. Una discesa lenta e scintillante verso una distopia patinata in cui l’uomo è solo un bottleneck biologico da spremere finché l’AGI non sarà pronta a rimpiazzarlo.

Per ora ci restano le ironie. Tipo quella che i fondatori più hardcore predicano il 007, ma poi usano modelli AI addestrati per rendere il lavoro… più efficiente. L’ipocrisia si taglia con un prompt. “Automatizziamo tutto, ma voi continuate a lavorare il doppio”, sembra essere la sintesi perfetta. E sì, forse le teste rasate o le tende da campeggio sotto le scrivanie saranno davvero i nuovi simboli di status nella Silicon Valley AI. O magari lo sono già. Ma se lavorare 16 ore al giorno per mesi diventa l’unico modo per “farcela”, allora chi ce la fa davvero? E a quale prezzo?

Nel frattempo, i venture capitalist osservano compiaciuti, alzano le offerte e stringono le mani sudate di chi ha dormito due ore su un beanbag. L’era post-umana non è iniziata con un’intelligenza artificiale cosciente. È iniziata con una generazione di umani che ha deciso di comportarsi come macchine.

Il lato oscuro della silicon valley: Z.AI, entità proibita e trionfo open source

Nel momento in cui Washington scrive liste nere, Pechino firma assegni. Z.ai, già nota come Zhipu AI, sforna modelli open source che mettono in imbarazzo l’Occidente, proprio mentre la Casa Bianca la inserisce tra i cattivi ufficiali sulla famigerata “Entity List”. Il motivo? Supporto al complesso militare cinese. Il risultato? Una delle migliori AI open source del pianeta, GLM-4.5, battezza con il botto l’era del “dissenso computazionale”.

Il gioco si fa sottile, quasi perfido. Gli americani impongono restrizioni commerciali, ma nel frattempo Z.ai riceve 1.5 miliardi di dollari da entità statali cinesi, fondi regionali e colossi tech come Tencent e Alibaba. Tutti allineati in una danza geopolitica dove il codice diventa soft power e l’open source la nuova arma strategica. Per ogni embargo, Pechino risponde con parametri. E ne attiva 32 miliardi su un’architettura da 355. Il risultato? Efficienza da Mixture of Experts, prestazioni da primato e una licenza MIT che rende tutto liberamente scaricabile su Hugging Face. San Francisco osserva, mentre il suo primato comincia a scricchiolare.

AI M&A luglio 2025

I mercati amano i numeri, ma i numeri amano ancora di più le storie. E la storia che Luglio 2025 sta scrivendo nel settore delle acquisizioni di startup AI è una di quelle che, tra qualche anno, i consulenti da 1.000 euro l’ora useranno nelle loro slide con la faccia compunta di chi “aveva previsto tutto”. Peccato che pochi l’avessero realmente capito. Il mercato delle acquisizioni di startup di intelligenza artificiale non è più un esperimento, è diventato l’equivalente finanziario di un rally ad alta velocità: chi frena, scompare. Chi investe, lo fa con cifre che solo dodici mesi fa sarebbero sembrate deliranti. E non è un caso che Luglio, tradizionalmente mese di letargia estiva per i mercati, sia stato il palcoscenico perfetto per la nuova corsa all’oro digitale.

Matilde Giglio: Even Healthcare

La rivoluzione silenziosa che sta umiliando le assicurazioni sanitarie indiane

Even Healthcare è una di quelle storie che fanno impallidire gli analisti troppo abituati a valutare startup sanitarie con i soliti parametri di “unit economics” e tabelle Excel prive di visione. Fondata dall’imprenditrice italiana Matilde Giglio, il progetto nasce come un atto di ribellione contro l’inerzia cronica del sistema sanitario indiano, un colosso da 372 miliardi di dollari che ogni anno spinge 60 milioni di persone nell’indebitamento sanitario, spesso per interventi chirurgici che nel mondo occidentale considereremmo ordinari. La sua missione è quasi provocatoria nella sua semplicità: democratizzare l’accesso a cure mediche di qualità a un costo che non costringa la popolazione a scegliere tra salute e sopravvivenza economica. Ed è proprio questa tensione tra un mercato iniquo e un modello radicalmente inclusivo che rende Even un caso di studio più interessante delle ennesime healthtech “a metà” che si limitano a qualche app di telemedicina.

IUVO la robotica indossabile che riscrive la frontiera italiana

Nel panorama tecnologico italiano, spesso più incline al folklore che all’innovazione tangibile, IUVO srl si staglia nel 2025 come un protagonista che non si limita a inseguire sogni digitali ma li traduce in realtà concrete. La robotica indossabile, quella che fino a pochi anni fa sembrava confinata alle pagine di riviste specializzate o ai laboratori universitari, diventa un asset strategico per una piccola realtà pisana capace di conquistare mercati e cervelli con una miscela di pragmatismo e audacia.

La scommessa di Unitree Robotics sull’IPO è il segnale che la robotica cinese ha finito di giocare in laboratorio

Non è un annuncio qualsiasi. Quando una società come Unitree Robotics decide di depositare i documenti per una IPO in Cina, con tanto di Citic Securities al fianco e un’agenda serrata per dicembre, il messaggio al mercato è chiaro. La robotica commerciale cinese ha deciso di uscire dall’infanzia. Ed è interessante che il primo vero humanoid robot cinese pronto a sbarcare in borsa non venga da Shenzhen, ma da Hangzhou, città più famosa per l’e-commerce di Alibaba che per l’ingegneria meccanica. Ironico, vero? Ma del resto, come scriveva un analista di Pechino qualche giorno fa, “quando un leader tecnologico si lancia su una IPO significa che i laboratori non bastano più. Serve la scala industriale, servono soldi veri”. E i soldi veri, oggi, arrivano solo dai mercati pubblici.

Lovable la startup che scrive codice con l’aria da rockstar e spaventa i vecchi giganti del software

C’è qualcosa di irresistibile quando una piccola banda di 45 persone riesce a mettere in crisi l’intero ecosistema dei colossi del software. Lovable, sì, proprio quel nome che sembra uscito da una campagna di marketing per adolescenti, ha fatto quello che nessuno aveva il coraggio di ammettere pubblicamente: ha trasformato la creazione di app e siti web in un esercizio di conversazione naturale, annientando il mito del programmatore-sacerdote che scrive righe di codice come se fossero formule arcane. Lo ha fatto con uno stile da “fast-growing Swedish AI vibe coding startup”, perché in fondo anche la geografia conta nel marketing delle illusioni tecnologiche.

Quando David batte Golia con un tokenizer: l’ascesa dei modelli linguistici italiani (che nessuno voleva vedere)

Ci siamo abituati a un mondo in cui l’intelligenza artificiale parla inglese, pensa inglese e viene valutata secondo criteri stabiliti, indovina un po’, da aziende americane. Fa curriculum: openAI, Google, Anthropic, Meta. Chi osa mettersi di traverso rischia di essere etichettato come “romantico”, “idealista” o, peggio ancora, “locale”. Ma ogni tanto succede che una scheggia impazzita scardini l’equilibrio dei giganti e costringa il sistema a sbattere le palpebre. È successo con Maestrale, un modello linguistico italiano open source, sviluppato da una piccola comunità di ricercatori guidati da passione, competenza e una sfacciata ostinazione.

Cubish la rivoluzione invisibile dello spatial web comincia a Napoli e no, non è l’ennesima App Social

Da qualche parte tra i vicoli di Napoli, mentre la gente sorseggia caffè ristretto e bestemmia per il traffico, si è acceso un interruttore silenzioso che promette di cambiare la relazione tra fisico e digitale. Non stiamo parlando dell’ennesimo visore in stile “metaverso da salotto”, né di un social network clone pieno di filtri e pubblicità programmatica. Cubish, startup italiana fondata da 26 co-fondatori (sì, ventisei, non è un errore di battitura) dopo quattro anni di R&D ossessivo, ha rilasciato un’app gratuita che non aggiunge un nuovo mondo, ma ripara quello esistente: porta il web nel mondo reale. Letteralmente.

Lo Spatial Web non è uno slogan o una buzzword da conferenza, è un’infrastruttura digitale che Cubish ha cominciato a costruire a colpi di geometria: la superficie della Terra viene divisa in Cubi da 10 metri per lato. Ogni Cubo è un’unità geospaziale, un contenitore unico identificato da coordinate precise. In altre parole, ogni punto del pianeta diventa un nodo digitale. È come assegnare a ogni metro quadro un dominio, ma con le regole dell’urbanistica e la logica del Web 3.0. È l’architettura dell’informazione che si fa cartografia.

L’illusione della creator economy, la realtà delle startup AI e il gioco truccato del marketing sociale

C’era una volta, in un tempo non così lontano, una sfilza di startup che si definivano parte della “creator economy”. L’idea sembrava seducente: democratizzare il talento, monetizzare la passione, scalare i follower in equity. Eppure, come spesso accade nella Silicon Valley delle illusioni distribuite in pitch deck colorati, il secondo trimestre del 2025 ha portato un brusco risveglio. I finanziamenti per queste startup da creator sono crollati, tanto rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quanto rispetto ai primi tre mesi del 2025. Un raffreddamento secco, senza troppe cerimonie.

Ma la festa non è finita per tutti. Anzi, qualcuno ha appena ordinato champagne. Le startup focalizzate sull’intelligenza artificiale e sul marketing sociale stanno vedendo i rubinetti degli investimenti aprirsi con la stessa generosità con cui un algoritmo di TikTok spalma visibilità su un video virale di un cucciolo con gli occhiali. Più di 500 milioni di dollari sono stati versati in questa nicchia, solo nell’ultimo trimestre. E al centro di questo nuovo flusso c’è un nome dal sapore vagamente zuccherino ma dalla visione brutalmente pragmatica: Nectar Social.

Italia capitale dell’algoritmo: chi comanda davvero il venture capital tricolore

Non chiamateli influencer. Anzi sì, ma fatelo con un certo rispetto. Perché dietro ogni post su LinkedIn, ogni thread apparentemente casuale su quanto sia figo il nuovo fondo pre-seed “climate & quantum aware”, si nasconde un’aristocrazia silenziosa del capitale di rischio italiano che ha finalmente capito che visibilità è potere. Non nel senso hollywoodiano del termine, ma in quello brutalmente operativo: deal flow, selezione, attrazione di LP. Nel 2025 il venture capital in Italia non si muove più solo dietro le quinte. Si espone. E la classifica di Favikon lo conferma: 20 nomi che contano più di una policy di Invitalia e di cinque pitch a SMAU messi insieme.

Quando l’unicorno si tinge di catrame: il lato oscuro delle startup AI valutate a miliardi senza codice né etica

Era tutto scritto, bastava leggere. Anzi, bastava leggere bene. Perché già nel 2021 il Financial Times scriveva che molte startup di intelligenza artificiale stavano “confondendo l’automazione con l’illusionismo”. Invece si è preferito applaudire, finanziare, gonfiare valutazioni. Fino all’inevitabile: Builder.ai, celebrata come il “WordPress per app”, si è dissolta nel nulla come un prompt mal scritto su ChatGPT. E non è sola. È solo la più recente.

Elf Labs sta sfidando Disney con cenerentola e biancaneve nell’era dell’intelligenza artificiale

Disney incassa 46,4 miliardi di dollari solo dalle sue principesse. Non dai film, non dai parchi. Solo da quelle iconiche figure femminili che abitano l’immaginario collettivo da oltre un secolo. Una macchina perfetta, levigata da avvocati, sceneggiatori e algoritmi predittivi che ottimizzano ogni ciocca di capelli animata in 4K. E poi, nel silenzio mediatico più assoluto, arriva una startup con un nome da laboratorio di alchimisti: Elf Labs, Inc.

Cosa hanno fatto? Nulla di meno che aggiudicarsi oltre 100 marchi storici legati a personaggi leggendari come Cenerentola, Biancaneve e compagnia cantante. Ma non finisce lì. Hanno anche la tecnologia per farli vivere nel tuo salotto. Letteralmente. Realtà aumentata, intelligenza artificiale generativa, spatial computing. E soprattutto una nuova strategia di proprietà intellettuale che potrebbe riscrivere le regole del gioco, e non solo quello della fantasia.

Profuma come un algoritmo: l’industria del profumo è la nuova vittima dell’IA e nessuno se ne sta accorgendo

Nel tempo che impieghi a ricevere un paio di calzini da Amazon Prime, un laboratorio scintillante sulla banchina di Manhattan può sintetizzare per te un profumo su misura. Non una suggestione olfattiva, non un’ispirazione: un codice molecolare aromatico, generato da una AI che ha “assaggiato” una prugna d’estate e l’ha trasformata in bit. Benvenuti nell’era del “profumo computazionale”, dove l’emozione diventa dataset e il naso è, sempre più spesso, un nodo neurale.

Osmo, startup fondata da Alex Wiltschko e protetta da una coltre di NDA e buzzwords, promette il sogno lucido di ogni brand manager disperato: un turnaround da 48 ore per campioni personalizzati, senza compromessi apparenti su qualità, persistenza o originalità. Almeno sulla carta. Nella realtà olfattiva, il plum di Osmo profuma “troppo pulito”, “troppo sintetico”, “troppo grande”, secondo chi lo ha annusato. Non un frutto maturo, ma una sua parodia iperrealista, degna di un remake Pixar.

Quando l’etichetta fa la differenza nel miliardo: la guerra sporca dei dati tra Surge e Scale AI

C’è un paradosso crudele che serpeggia nelle viscere dell’AI moderna: gli algoritmi imparano da dati umani, ma gli umani che li etichettano sono diventati invisibili. Non per Edwin Chen, però. Il fondatore di Surge AI ha capito qualcosa che altri nel culto dell’hypergrowth avevano dimenticato: se vuoi un’intelligenza artificiale con un’anima, servono artigiani, non solo crowdworkers.

Nel pantheon delle startup AI, Scale AI era la star che brillava più forte. Fino a ieri. Poi sono arrivati i numeri: Surge ha superato Scale in fatturato (1 miliardo contro 870 milioni di dollari) e lo ha fatto senza bruciare capitali venture come incenso su un altare di promesse. Zero finanziamenti, zero unicorni tossici, solo margine operativo e qualità. Una bestemmia nella Silicon Valley.

Gradient sfida gli dèi dell’AI: intelligenza artificiale distribuita, blockchain e una vendetta contro i data center

C’è qualcosa di profondamente post-moderno nell’idea di un’AI che non vive nei templi sacri dei data center, ma si disperde, selvaggia, nei meandri silenziosi degli smartphone e degli elettrodomestici smart. Gradient Network, startup con base a Singapore e fresco di un finanziamento seed da 10 milioni di dollari guidato da Pantera Capital, Multicoin e HSG, ha deciso che è ora di decentralizzare l’intelligenza. Letteralmente.

Un solo VC con 10 miliardi e un’AI a fianco: il sogno febbrile della Silicon Valley

C’è un’ossessione che serpeggia da anni tra i venture capitalist della Bay Area: quella della lean machine, la macchina snella, efficiente, perfetta. Non in senso fordista, ma quasi spirituale. Un fondo da miliardi gestito con tre esseri umani, un dashboard e un po’ di intelligenza artificiale. Ora che gli agenti AI si fanno più sofisticati, non è più un’utopia. È un’ipotesi di lavoro. Ed è anche un pericoloso miraggio.

Quando l’AI risponde meglio del tuo help desk: il caso Voyxa

C’è un momento preciso in cui ogni CTO, ogni responsabile IT o customer service manager, si ritrova a fissare il centralino come se fosse un nemico. Il telefono squilla. Nessuno risponde. Oppure risponde qualcuno, ma è il solito inferno ciclico di FAQ trite, smarrimenti di ticket, e frustrazione sia interna che esterna.

Ed è lì che capisci che non serve un’altra dashboard. Non ti serve un altro IVR anni Novanta con accento texano che recita “Premi uno per parlare con un operatore”.

Cudis sfida la morte con un anello smart: salute, AI e token su Solana

L’ossessione per la longevità si è trasformata da sogno californiano a core business globale, e qualcuno sta cercando di monetizzare ogni respiro. Cudis, startup losangelina nata nel 2023, si lancia con disinvoltura in una delle scommesse più audaci del nostro tempo: trasformare le buone abitudini salutari in una moneta digitale scambiabile. No, non è Black Mirror. È un anello. Uno smart ring con intelligenza artificiale e incentivi cripto, abbinato a un’app che promette di allungarti la vita—o almeno il ROI.

Mentre i dati biometrici diventano la nuova valuta del secolo, Cudis si è infilata al dito il futuro del wellness, con un anello di design sobrio che monitora sonno, stress, attività e calorie bruciate. La versione 2.0 della sua wearable tech si collega a un’applicazione che sembra aver capito una cosa fondamentale: la maggior parte delle persone non vuole diventare un medico, vuole solo sapere se dorme male perché ha scrollato TikTok fino alle 2 o se è tempo di chiamare il fisioterapista.

Windsurf: quando gli dei dell’intelligenza artificiale giocano a risiko con le startup

Windsurf Statement on Anthropic Model Availability

È stato l’equivalente digitale di un’esecuzione in pieno giorno. Nessuna lettera di sfratto, nessuna trattativa da corridoio. Solo un’interruzione secca, chirurgica, quasi burocratica. Windsurf, la celebre app per “vibe coding”, si è ritrovata fuori dalla porta del tempio di Claude. Anthropic, il laboratorio fondato dai fuoriusciti di OpenAI, ha deciso di tagliare la capacità concessa ai modelli Claude 3.x. Non per ragioni tecniche. Non per mancanza di fondi. Ma per geopolitica dell’AI.

Varun Mohan, CEO di Windsurf, l’ha scritto su X con la disperazione elegante di chi sa di essere pedina in un gioco molto più grande: “Volevamo pagare per tutta la capacità. Ce l’hanno tolta lo stesso.” Dietro questa frase anodina, si cela l’odore stantio di una guerra fredda tra laboratori che – da fornitori di infrastrutture – stanno sempre più diventando cannibali delle app che un tempo nutrivano.

Chime, la banca pop del nulla che premia i fondatori anche se affonda

Benvenuti nella Silicon Valley dell’illusione, dove si vendono IPO come se fossero gelati artigianali, e il gusto del giorno è “compensazione inversa”. Chime, la famigerata “banca senza banca”, ha deciso che il modo migliore per motivare i suoi cofondatori al successo… è premiarli anche in caso di fallimento. Sì, hai letto bene. Una startup fintech da 11 miliardi di dollari di valutazione che si prepara all’IPO premiando i suoi boss se il titolo risale… anche dopo essere crollato.

Intelligenza artificiale senza frontiere: il matrimonio tra G42 e Mistral AI è molto più di un accordo tecnologico

Abu Dhabi incontra Versailles, e no, non è l’inizio di una barzelletta. È lo scenario barocco politicamente perfetto in cui G42, il conglomerato tech degli Emirati già benedetto dai fondi e dai sorrisi di Microsoft, ha ufficializzato la sua liaison con Mistral AI, la startup francese che si spaccia per paladina dell’open source europeo nel mondo dell’intelligenza artificiale. Una partnership annunciata durante il summit Choose France, dentro al Palazzo di Versailles, tra specchi dorati e retorica sulla “sovranità digitale”. Eppure dietro gli abbracci diplomatici si nasconde una manovra geopolitica raffinata e molto concreta: costruire una piattaforma AI sovranazionale, interoperabile e scalabile, che abbia basi non solo tecniche ma anche ideologiche. O così almeno vogliono farcela bere.

Cos’è un Inference Provider e perché è fondamentale nella AI?

Nel panorama sempre più complesso dell’intelligenza artificiale (IA), gli Inference Provider svolgono un ruolo fondamentale, fornendo l’infrastruttura necessaria per eseguire modelli di machine learning (ML) e deep learning (DL) in tempo reale, per le applicazioni che richiedono inferenze veloci e precise. Questi provider offrono un ambiente scalabile, sicuro e ottimizzato per il calcolo e la gestione dei modelli IA, permettendo alle aziende di integrare facilmente la potenza dei modelli addestrati senza doversi preoccupare della gestione delle risorse hardware o software sottostanti.

In pratica, un Inference Provider è un servizio che permette di inviare i dati a un modello pre-addestrato per generare previsioni o inferenze. Si distingue dall’addestramento vero e proprio dei modelli, che richiede una quantità significativa di risorse computazionali, ma è altrettanto critico per applicazioni che necessitano di decisioni rapide basate su dati nuovi, come nel caso di veicoli autonomi, assistenti virtuali, sistemi di raccomandazione, e molto altro.

AD Detection Scrittura, cervello e IA: come un tratto di penna può svelare l’Alzheimer prima dei sintomi

Scrivere sembra l’atto più banale del mondo. Prendi una penna, appoggi la punta su un foglio e lasci che la mano faccia il resto. Eppure, dietro quel gesto così quotidiano, si cela un balletto neuronale di impressionante complessità. La scrittura attiva simultaneamente lobi frontali, aree motorie, centri del linguaggio e processi cognitivi ad alta intensità. Se qualcosa si inceppa in quel sistema, la scrittura si deforma. E da lì, ecco che il cervello inizia a raccontare una storia che nemmeno sa di star scrivendo.

È proprio questa intuizione che ha dato vita a AD Detection, un progetto con l’ambizione (seria) di intercettare l’Alzheimer prima che si manifesti. A muovere i fili sono l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale e Seeweb, provider infrastrutturale che con GPU serverless e Kubernetes ha deciso di prestare muscoli digitali al cervello umano.

Un po’ Black Mirror, un po’ medicina del futuro.

Grafene, la rivoluzione invisibile che potrebbe asfaltare il silicio: CamGraPhIC

Quando la NATO smette di finanziare droni, missili e tecnologia a base di metallo e punta milioni su un materiale ultrasottile come il grafene, forse vale la pena alzare le antenne. Non quelle classiche, magari proprio quelle nuove, basate su ricetrasmettitori privi di silicio, sviluppati da una piccola ma ambiziosissima startup italiana: CamGraPhIC .

Thinking Machines Lab: l’anti-OpenAI da $10 miliardi che sta riscrivendo le regole dell’IA

Nel mondo iper-accelerato dell’intelligenza artificiale, i soldi sembrano crescere sugli alberi. Ma quando un’ex CTO di OpenAI lancia una startup, abbandona il carrozzone di Microsoft e in due mesi raddoppia il target di raccolta fondi a 2 miliardi di dollari, la faccenda prende una piega diversa. È quello che sta succedendo a Thinking Machines Lab, il nuovo mostro sacro in gestazione partorito da Mira Murati, ex mente tecnica dietro ChatGPT, ora pronta a giocare una partita tutta sua – con regole diverse, e ambizioni ancora più grandi.

Secondo quanto riportato da Business Insider, la società ha già messo sul piatto una valutazione da almeno 10 miliardi di dollari. In soldoni: una startup fondata tre mesi fa da ex ribelli di OpenAI sta per essere valutata più di molte aziende quotate con anni di attività alle spalle. Ma qui non si tratta solo di soldi. Si tratta di vendetta, visione e – soprattutto – controllo.

Mira Murati, donna silenziosamente centrale nell’ascesa dell’IA generativa, ha lasciato OpenAI proprio mentre il colosso iniziava a ballare sulle note composte da Microsoft. Il motivo? Non ufficiale, ma il timing e le mosse successive parlano da soli. Thinking Machines Lab nasce a febbraio, e nasce con un manifesto in tre punti che sembra il negativo fotografico della strategia OpenAI: aiutare le persone ad adattare l’IA ai propri bisogni (e non il contrario), creare fondamenta solide per sistemi più capaci, e – udite udite – promuovere una “cultura della scienza aperta”. Detta altrimenti, tutto ciò che OpenAI non è più da quando ha stretto il patto faustiano con Redmond.

Builder.ai, la grande illusione dell’intelligenza artificiale e il fallimento della promessa no-code

Quando si parla di startup AI, Builder.ai era quella luce brillante che tutti sognavano di inseguire: valutata oltre 1,3 miliardi di dollari, con investitori come Microsoft e il Qatar Investment Authority pronti a versare milioni per cavalcare la rivoluzione no-code. La sua missione? Semplice, ambiziosa, quasi utopica: democratizzare lo sviluppo di app, trasformare chiunque in uno sviluppatore, grazie a una piattaforma no-code alimentata dall’intelligenza artificiale. Suona bene, quasi troppo bene.

Ma qui, dietro la facciata patinata, emerge la solita storia del grande bluff tecnologico. Non è raro vedere startup trionfare sul marketing e sulle buzzword, ma Builder.ai ci mostra quanto sia fragile questa illusione. Perché la realtà, amara e implacabile, racconta un’altra storia: gran parte del lavoro “AI” era in realtà svolto da sviluppatori umani dietro le quinte. Una scena che sembra uscita da un episodio di “MIB” — la tecnologia promessa come autonoma e rivoluzionaria si rivela dipendere da un esercito di programmatori che, come marionette invisibili, muovono i fili.

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