Il recente decreto esecutivo dell’amministrazione Trump, volto a “ripristinare l’uguaglianza delle opportunità e la meritocrazia,” ha preso di mira in modo silenzioso uno degli strumenti anti-discriminazione più cruciali della legge americana, specialmente nei settori dell’occupazione, dell’educazione, dei prestiti e persino dell’intelligenza artificiale (IA). Le implicazioni di questa mossa potrebbero richiedere anni per essere completamente comprese, ma le conseguenze saranno profonde, soprattutto per le comunità più vulnerabili della società. Questo cambiamento politico potrebbe alterare significativamente il modo in cui vengono gestiti i casi di discriminazione, rendendo più difficile per avvocati e difensori dei diritti civili provare i pregiudizi sistemici nelle industrie in cui persistono. Sebbene l’ordine venga minimizzato da alcuni, il suo potenziale di impatto su milioni di americani è sostanziale e non dovrebbe essere sottovalutato.
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Intelligenza Artificiale, Politica, Democrazia, Normativa, Regolamenti

L’impero di Elon Musk, che include aziende di spicco come SpaceX, Tesla, Neuralink, The Boring Company e xAI, potrebbe non solo trarre vantaggio da innovazioni tecnologiche e crescita vertiginosa, ma anche evitare sanzioni legali e costi potenziali che altre aziende si troverebbero a pagare. Secondo un rapporto del sottocomitato permanente per le indagini sulla sicurezza interna del Senato, l’impatto dell’influenza di Musk sul governo degli Stati Uniti potrebbe permettergli di evitare responsabilità legali per un valore che supera i 2,37 miliardi di dollari, grazie alla sua straordinaria connessione con l’ex presidente Donald Trump e alla creazione del controverso Dipartimento per l’Efficienza del Governo (DOGE).

Nel suo ritorno alla Casa Bianca, Donald Trump ha rilanciato l’idea di un nuovo “Liberation Day”, una giornata simbolica per affrancare aziende e consumatori americani da quelli che definisce “trattamenti ingiusti” dei partner commerciali. Dietro la retorica nazionalista, però, si cela una strategia politica ed economica che rischia di riscrivere gli equilibri mondiali. Con una politica economica fondata su dazi aggressivi e una politica estera che strizza l’occhio all’espansionismo — dalle pretese sulla Groenlandia al controllo del Canale di Panama — Trump apre la strada a una nuova stagione di autoritarismo. Una stagione che potrebbe ispirare leader come Vladimir Putin in Ucraina, Xi Jinping su Taiwan e Benjamin Netanyahu in Medio Oriente, alimentando una destabilizzazione globale senza precedenti.

Cento giorni fa, Donald Trump è tornato alla Casa Bianca con l’imponenza di un elefante in una cristalleria, pronto a ribaltare l’ordine mondiale che lui stesso aveva contribuito a plasmare. Con la promessa di un “Liberation Day”, ha dichiarato guerra ai suoi “cattivi partner commerciali” e ha sognato di annettersi territori che nemmeno il più sfrenato imperialismo avrebbe mai osato immaginare. Mentre Trump gioca a Risiko, il mondo risponde con una combinazione letale di panico, dazi e – ovviamente – intelligenza artificiale.

La polveriera Kash Patel: dall’arresto della giudice di Milwaukee alla guerra contro la “Deep State”
Nei giorni in cui i media sembrano concentrarsi su altri fronti, la notizia dell’arresto della giudice di Milwaukee, accusata di aver aiutato un immigrato irregolare a sfuggire alla giustizia, passa quasi inosservata. Ma a mettere questa vicenda al centro dell’attenzione è stato il direttore dell’FBI, Kash Patel, una figura che non lascia indifferenti, tanto per le sue posizioni politiche quanto per la sua carriera.

Se pensavate che l’atmosfera di un funerale papale fosse immune dai giochi di potere, vi sbagliavate di grosso. A San Pietro, sabato, nel silenzio imponente della basilica, Donald Trump e Volodymyr Zelensky si sono incontrati brevemente ma intensamente, tra gli sguardi severi dei santi e il peso di un conflitto che non accenna a spegnersi. Non un tête-à-tête qualunque, ma il primo incontro diretto dopo l’accesissimo scontro alla Casa Bianca, quella pièce teatrale che aveva lasciato intendere quanto poco zucchero ci fosse rimasto nei rapporti bilaterali.
Zelensky ha parlato di “un cessate il fuoco incondizionato”, come chi chiede una tregua mentre l’altra parte sta già caricato il fucile. “Speriamo in risultati”, ha detto con quell’ottimismo forzato da leader di un Paese in fiamme. I media ucraini si sono affrettati a diffondere foto di Trump e Zelensky seduti faccia a faccia, entrambi protesi in avanti, in quell’atteggiamento che conosciamo bene: il corpo che dice “ti ascolto” e la mente che urla “quanto manca alla fine di questa farsa?”. Sullo sfondo, come a ricordare l’ineluttabilità di tutto, la bara semplice di legno di Papa Francesco.

Se qualcuno ancora si illudeva che la Cina avesse intenzione di restare a guardare mentre l’Occidente gioca a fare gli apprendisti stregoni dell’intelligenza artificiale, è ora di svegliarsi dal torpore. Xi Jinping, con la solennità tipica di chi ha in mano non solo il telecomando, ma anche la sceneggiatura dell’intero show, ha dichiarato senza giri di parole: la Cina mobiliterà tutte le sue risorse per dominare l’AI, scardinare ogni colletto tecnologico imposto dagli Stati Uniti, e guidare la prossima rivoluzione industriale mondiale.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno appena annunciato un’iniziativa che potrebbe riscrivere non solo le leggi, ma anche il concetto stesso di legislazione: l’introduzione dell’intelligenza artificiale nel processo legislativo. In un mondo in cui la burocrazia spesso rallenta il progresso, gli Emirati puntano a una rivoluzione normativa, affidando all’AI il compito di redigere e aggiornare le leggi.
Il cuore di questa trasformazione è l’istituzione di un “Ufficio di Intelligenza Regolatoria”, un’entità che supervisionerà l’integrazione dell’AI nel processo legislativo. L’obiettivo? Creare un sistema legislativo più agile, capace di adattarsi rapidamente ai cambiamenti sociali ed economici. Attraverso l’analisi di dati in tempo reale, l’AI potrà identificare le necessità di riforma e proporre modifiche legislative con una velocità e precisione senza precedenti.

La narrativa trionfale che ha accompagnato la rielezione di Donald Trump si sta sbriciolando sotto il peso delle aspettative mancate. L’ultimo sondaggio economico nazionale CNBC All-America fotografa un Paese più cupo, deluso e (cosa ancora più letale in politica) impaziente. Il consenso economico nei confronti del presidente ha toccato i livelli più bassi del suo secondo mandato, segnando un’inversione di rotta drammatica rispetto all’impennata di ottimismo che aveva accompagnato la sua riconferma. Con un approvazione economica al 43% e un netto 55% di disapprovazione, Trump entra ufficialmente nella zona rossa della fiducia pubblica, per la prima volta anche sul tema economico, da sempre il suo cavallo di battaglia.
Il dato più preoccupante per la Casa Bianca non è tanto la resistenza della base repubblicana, che regge, quanto la frattura profonda con gli indipendenti e l’ostilità feroce dei democratici. Tra questi ultimi, la disapprovazione netta sulle politiche economiche di Trump ha raggiunto il -90, un abisso politico mai visto nemmeno durante il primo mandato. E anche tra i lavoratori blue collar, una delle colonne portanti del trionfo trumpiano del 2024, il supporto mostra crepe evidenti: sì, ancora positivi nel complesso, ma con una crescita di 14 punti nei tassi di disapprovazione rispetto alla media del primo mandato. Il tempo della gratitudine è finito, ora si pretende il dividendo.

Il Digital Europe Programme, come lo chiama Bruxelles in uno slancio di creatività anglofona, è l’ennesima colata di miliardi che l’Unione Europea decide di investire per scrollarsi di dosso l’etichetta di vecchia zia lenta della trasformazione digitale. È stato pensato per rendere l’Europa meno dipendente dai cugini americani (Big Tech) e meno vulnerabile alle grinfie digitali di chi, come la Russia, ha capito prima e meglio come si combattono le guerre anche nei cavi di rete.
Parliamo di un pacchetto da oltre 8,1 miliardi di euro, già stanziati all’interno del bilancio pluriennale 2021-2027. Roba seria, in teoria. In pratica, stiamo cercando di correre dietro a un treno che è già passato. Il programma si concentra su cinque aree strategiche: supercalcolo, intelligenza artificiale, cybersicurezza, competenze digitali avanzate e diffusione massiva delle tecnologie digitali, anche e soprattutto tra le PMI e le pubbliche amministrazioni. Esattamente quei settori dove l’Europa ha sempre balbettato tra mille progetti pilota e piani strategici con acronimi inquietanti.
Key Figures. / The DIGITAL Dashboard / Programme in a Nutshell

Nel cuore della politica commerciale internazionale, Donald Trump ha rilasciato dichiarazioni che hanno suscitato l’attenzione di analisti e diplomatici. Durante un incontro con la Premier italiana Giorgia Meloni alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti ha affermato che ci sarebbe stato un “accordo commerciale al 100%” con l’Unione Europea. Questa dichiarazione, inaspettata rispetto alla retorica che Trump ha usato in passato contro l’Europa, ha sollevato interrogativi sulla sua strategia e sulle reali intenzioni dietro la minaccia di tariffe su acciaio, alluminio e auto. Un’affermazione che sembra essere il preludio a negoziati che potrebbero segnare una svolta nelle relazioni transatlantiche.
L’incontro tra Trump e Meloni non è solo un semplice scambio di battute politiche. Meloni, che ha costruito un rapporto di fiducia con il presidente americano, si trova nella difficile posizione di mediare tra gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Unione Europea. La sua presenza a Washington aveva l’obiettivo di evitare l’escalation della guerra commerciale con l’Europa, in particolare cercando di evitare l’aumento delle tariffe imposte da Trump. Nonostante la retorica aggressiva, Trump ha parlato con un certo ottimismo: “Ci sarà un accordo commerciale, al 100%”, ha detto, indicando una volontà di raggiungere un’intesa con l’Europa, ma a condizioni che siano favorevoli agli Stati Uniti.

Donald Trump, nell’ombra e senza fanfare, starebbe da mesi vagliando l’idea di far fuori Jerome Powell, l’attuale presidente della Federal Reserve. Nessuna dichiarazione ufficiale, solo il classico gioco di sussurri e voci filtrate da ambienti “vicini ai fatti” la liturgia consolidata del potere quando vuole testare la temperatura dell’acqua senza sporcarsi le mani. Ma la temperatura, stavolta, rischia di bollire tutto.
L’ex presidente, che già in passato ha più volte criticato Powell per la sua gestione dei tassi d’interesse, ora sembra pronto ad affondare il colpo qualora tornasse alla Casa Bianca nel 2025. La sua antipatia nei confronti del numero uno della Fed non è una novità. Trump voleva tassi a zero, o meglio negativi, in pieno stile giapponese-decadente. Powell, invece, ha resistito – almeno quanto ha potuto –alla tentazione di trasformare la politica monetaria americana in un casino di Las Vegas. E questo, a Trump, non è mai andato giù.

A Washington si è celebrata l’ennesima seduta teatrale mascherata da audizione congressuale, dove il sipario si è alzato su un paradosso tutto americano: per dominare il futuro dell’intelligenza artificiale, bisogna consumare il passato dell’energia. Una corsa al primato tecnologico che brucia elettricità come se fosse carbone dell’Ottocento, mentre la questione climatica viene elegantemente ignorata come un cameriere troppo zelante a un gala di miliardari.
Eric Schmidt, ex CEO di Google e oggi nuovo profeta dell’IA sotto le vesti del suo think tank “Special Competitive Studies Project”, ha scodellato la nuova verità: “Abbiamo bisogno di energia in tutte le forme, rinnovabili o meno, subito e ovunque”. Una chiamata alle armi energetica che sa tanto di manifesto industriale più che di politica nazionale.
Durante l’audizione della Commissione Energia e Commercio della Camera, la parola d’ordine è stata una sola: “dominanza”. Dominanza sull’energia. Dominanza sull’IA. Dominanza sulla Cina. E se per raggiungerla bisogna mettere in pausa il pianeta, pazienza. Quattro ore di interventi bipartisan dove repubblicani e democratici si sono annusati e ignorati a turno, uniti da un’ansia esistenziale: perdere la corsa contro Pechino.

La nuova trovata: Tariffe settoriali e paranoia industriale, la crociata di Trump contro l’Asia tech
Benvenuti nel nuovo episodio della soap opera Tariff Wars: Made in America, dove ogni giorno è una roulette russa per le supply chain globali. Howard Lutnick, Segretario al Commercio USA e fedele araldo del trumpismo 2.0, ha rivelato in un’intervista alla ABC che l’amministrazione ha deciso di separare i destini tariffari dei prodotti tech – smartphone, computer, semiconduttori e altra elettronica di prima fascia – da quelli soggetti ai dazi “reciproci” annunciati ad aprile. Ora, questi prodotti rientreranno sotto una nuova categoria: le “tariffe settoriali”.

Nel teatro sempre più grottesco dell’economia globale, dove le regole del gioco sembrano essere scritte con l’inchiostro simpatico dell’interesse nazionale americano, la Cina ha deciso di mostrare i muscoli ma con il guanto bianco della diplomazia. Li Qiang, Premier della Repubblica Popolare, ha alzato la cornetta e parlato con Ursula von der Leyen per recitare un copione che sa di calma glaciale e determinazione sistemica: “abbiamo abbastanza strumenti politici in riserva” e “siamo pienamente in grado di contrastare gli shock esterni”.
Tradotto dal mandarino: Trump può pure giocare a Risiko con i dazi, noi giochiamo a Go con decenni di pianificazione centralizzata. Il messaggio è chiaro, e non è solo per l’Europa: Pechino non ha intenzione di piegarsi alla nuova ondata protezionistica partorita dalla Casa Bianca. Anzi, rilancia con il solito mantra del “difendere l’equità internazionale” un concetto che fa sorridere se pronunciato da un Paese che tiene in piedi il più sofisticato sistema di capitalismo di Stato mai concepito.

Quando l’ex presidente Donald Trump firma un ordine esecutivo, non lo fa mai a cuor leggero. Mercoledì ha messo nero su bianco un attacco frontale a Christopher Krebs, ex direttore dell’Agenzia per la sicurezza informatica e delle infrastrutture (CISA), oggi dirigente di SentinelOne, società privata di cybersecurity. Sì, proprio lui, lo stesso che dopo le elezioni del 2020 ebbe l’ardire di smentire pubblicamente le teorie trumpiane sul presunto “furto” elettorale. Il prezzo? Ora si ritrova al centro di un’indagine ordinata dallo stesso uomo che l’aveva già licenziato con una mossa spettacolare e mediatica.
Trump, in questo nuovo ordine esecutivo, ha revocato il nulla osta di sicurezza a Krebs, etichettandolo di fatto come una minaccia all’apparato statale. Ma attenzione: non si tratta di un’azione isolata. Il tycoon è nel pieno di una campagna di rivincita sistematica contro individui, studi legali e università che a suo dire lo avrebbero danneggiato o screditato. Questo comportamento paranoico, o forse solo estremamente strategico, ci racconta più del modus operandi trumpiano che dell’effettiva pericolosità di Krebs.
La scelta di prendere di mira un esperto riconosciuto a livello internazionale, che aveva semplicemente affermato che le elezioni del 2020 furono “le più sicure nella storia americana”, non è solo un atto vendicativo, ma un segnale politico ben preciso. Siamo nel pieno del 2024 e Trump ha bisogno di polarizzare l’attenzione, consolidare la base e riscrivere la narrativa in vista delle prossime elezioni. Quale modo migliore se non riesumare i fantasmi del 2020 e attaccare chi, con freddezza e competenza tecnica, ha osato contraddirlo?

Non è una guerra commerciale, è una partita a Risiko giocata da boomer vestiti da statisti, con le aziende tech americane al centro del bersaglio. Apple si è già beccata il primo colpo, ma ora anche Meta e Google rischiano di vedere i loro margini evaporare tra i fumi di ritorsioni e nuove fantasiose imposte pensate a Bruxelles, con la stessa lucidità con cui si sceglie il karaoke di fine anno in un ente pubblico.
Ursula von der Leyen, che evidentemente ha deciso di iniziare la campagna elettorale con l’eleganza di un colpo di mazza sul tavolo delle relazioni transatlantiche, ha proposto una tassa sui ricavi pubblicitari delle aziende statunitensi. Non sui profitti, attenzione, ma sui ricavi. Il che, per chi mastica un po’ di business, è come tassare l’aria condizionata di un ristorante e non il conto. È una misura punitiva, non una riforma. È una provocazione fiscale mascherata da giustizia economica, e come ogni provocazione, rischia di ottenere l’effetto opposto.

Il sipario si è alzato sul secondo atto della guerra commerciale USA-Cina e stavolta non si tratta solo di dazi. È un confronto strategico, una partita a scacchi geopolitica, con Washington e Pechino incastrati in una dinamica di escalation reciproca che trascende il semplice commercio. Trump, tornato alla Casa Bianca con la sottile eleganza di un bulldozer in cristalleria, ha innalzato i dazi al +125% (quindi in totale dovrebbero essere 145%) contro la Cina. Una mossa che sa più di vendetta che di strategia economica, mentre a tutti gli altri partner commerciali ha concesso una graziosa tregua di 90 giorni. Per Pechino, invece, nessun salvacondotto.
Non siamo più nel 2018. Oggi, con le supply chain globali già fratturate e l’economia mondiale in modalità “survival”, la mossa di Trump appare come un tentativo di rianimare il suo brand politico attraverso il nazionalismo economico più tossico (Monroe). Ma la Cina non è quella che era. Non c’è più l’ombra di un compromesso tattico: Pechino ha messo in chiaro che è pronta a pagare qualsiasi prezzo pur di non piegarsi. Lo ha detto Zhao Minghao, esperto del Centre for American Studies di Shanghai, e lo ha ribadito ogni funzionario cinese coinvolto: questa è una guerra di risolutezza, non di numeri.
Partiamo dall’autoincensamento iniziale: “abbiamo il 30% in più di ricercatori AI rispetto agli Stati Uniti”. Sembra un numero promettente, ma come ogni buon CTO sa, il numero di teste non è garanzia di innovazione se queste menti brillanti si perdono nei meandri delle gare pubbliche, dei fondi strutturali a rilascio triennale, o peggio, emigrano per trovare un ambiente dove il codice si scrive davvero, non solo nei documenti strategici.
Il piano prevede la creazione di AI Gigafactories, una terminologia che strizza l’occhio al linguaggio muscolare di Elon Musk, ma che nella pratica sarà alimentata da partnership pubblico-private e un fondo chiamato InvestAI, con l’obiettivo (futuribile) di mobilitare 20 miliardi di euro. Mobilitare, non investire. Il linguaggio conta. E il fatto che si stia solo lanciando una Call for Interest significa che, ad oggi, di concreto c’è poco più di un foglio Excel.
Ci sarà anche il lancio di 13 AI Factories sparse per l’Europa, che dovrebbero fungere da catalizzatori regionali per lo sviluppo e l’adozione dell’AI. Ma senza una strategia chiara di interconnessione tra queste entità, rischiamo di creare cattedrali nel deserto digitale, isolate e autoreferenziali, piuttosto che un network sinergico capace di scalare.
Interessante, almeno sulla carta, l’idea delle Data Labs integrati alle AI Factories per facilitare la condivisione sicura dei dati. Ma serve ricordare che il GDPR, con le sue mille ambiguità interpretative, resta un fardello imponente per qualsiasi progetto che voglia usare dati reali. Finché non si armonizza la regolamentazione con la necessità operativa, i Data Labs rischiano di essere poco più che laboratori di teoria.
Il fatto che solo il 13% delle aziende europee usi l’AI oggi è un campanello d’allarme che non si può ignorare. Il piano lo cita, ma senza un’azione shock che porti l’adozione tecnologica dentro la PMI manifatturiera e nei servizi pubblici locali, anche qui si resta nella retorica. La produttività europea è stagnante da anni, e l’AI potrebbe essere il volano giusto, ma va portata nelle fabbriche, non lasciata nei PDF.
Altro punto fondamentale, lo sviluppo delle competenze. Si parla di un’AI Academy collegata alle AI Factories, e di facilitazioni per attrarre talenti extra-UE. Buona idea, ma sempre che i visti arrivino in tempo, che gli stipendi siano competitivi con quelli USA, e che non si finisca nella solita paralisi burocratica fatta di bandi e procedure di selezione infinite.
L’unico vero punto cinicamente pragmatico dell’intero piano è l’impegno a minimizzare il peso regolatorio, attraverso un AI Service Desk e documenti guida per interpretare l’AI Act, una normativa che già prevede che l’85% dei sistemi AI non rientri nei vincoli regolatori. Ottimo. Ma dire che l’85% non è soggetto a regolazione è una non-notizia: il problema sono i casi limite, i dubbi interpretativi, e la lentezza con cui si definiscono gli standard.
Mentre gli Stati Uniti e la Cina corrono a briglia sciolta nel selvaggio West dell’intelligenza artificiale, tra venture capital, algoritmi spregiudicati e startup che crescono come funghi radioattivi, l’Unione Europea si guarda allo specchio e, per la prima volta, ammette: “forse ci siamo un tantino complicati la vita da soli”. E così, con una mossa che sa di autocritica tardiva travestita da lungimiranza, Bruxelles annuncia una semplificazione delle sue regole sull’IA. No, la famigerata AI Act non viene abolita, né riscritta. Semplicemente, si cerca di renderla meno simile a un labirinto burocratico e più a qualcosa che un’azienda, magari una PMI italiana che ancora manda fatture in PDF, possa davvero usare.
Il potere liquido del digitale: la nuova autarchia tecnologica tra Silicon Valley, Cina e crisi delle democrazie.
L’epoca che stiamo attraversando non ha eguali nella storia. Non è tanto una questione di tecnologia in sé, quanto della sua velocità, della sua capillarità, e soprattutto della sua imprevedibile capacità di ridefinire strutture di potere, categorie politiche e fondamenta sociali. Se fino a ieri le guerre si combattevano con carri armati, oggi si conducono con algoritmi, piattaforme, intelligenza artificiale e manipolazione cognitiva di massa. E chi le combatte, sempre più spesso, non indossa una divisa. È un ingegnere di Stanford, un imprenditore visionario in t-shirt nera, un fondo sovrano saudita o un partito comunista che ha capito come si programma un sistema operativo.
La tecnologia digitale non è più una componente del sistema: è il sistema. E in questa mutazione genetica della realtà sociale, economica e politica globale, si intravede un disegno emergente – non sempre intenzionale, ma comunque dirompente – che sta ridefinendo gli assi della geopolitica. Gli attori centrali di questa trasformazione non sono più gli Stati, ma gli attori extra-statuali, potentati digitali, corporate apolidi che accumulano capitale, dati e influenza in una misura senza precedenti. È la “balcanizzazione del potere”, ma con server sparsi nei deserti del Nevada e nei data center sottomarini di Google, non più tra le montagne dei Balcani.

Il mercato azionario mondiale sta attraversando una fase di turbolenza che ha attirato l’attenzione di molti osservatori, in particolare a causa della continua discesa dei principali indici. Tuttavia, mentre la narrativa prevalente suggerisce che le politiche economiche di Donald Trump siano la causa principale di questo calo, Scott Bessent, segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha lanciato una visione contrastante, suggerendo che il vero fattore scatenante del crollo possa essere l’emergere di DeepSeek, un avanzato strumento di intelligenza artificiale sviluppato in Cina.
Bessent, intervistato da Tucker Carlson su Fox News, ha fatto un’affermazione provocatoria, chiarendo che la discesa dei mercati è iniziata ben prima dell’intensificarsi delle politiche tariffarie di Trump. Secondo lui, il vero catalizzatore del calo sarebbe stato l’annuncio del lancio di DeepSeek, l’innovativo modello di intelligenza artificiale cinese, che ha scosso i mercati globali con una potenza dirompente.

Donald Trump ha annunciato la sua nuova strategia commerciale brandendo un cartellone di cartone con la scritta “Reciprocal Tariffs”, scatenando immediatamente stupore e confusione. Il piano? Un dazio del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti, comprese quelle provenienti da isole disabitate, e tariffe astronomiche su alcuni paesi, basate su una logica che non sembra aderire a nessuna analisi economica tradizionale. Il risultato immediato: il crollo dei mercati azionari e l’ombra di un’impennata dei prezzi su quasi tutti i beni di consumo.
Ma da dove saltano fuori questi numeri? Pare che la Casa Bianca abbia preso una scorciatoia matematica che assomiglia sospettosamente a quella suggerita da chatbot di intelligenza artificiale come ChatGPT, Gemini, Claude e Grok.

L’intelligenza artificiale rappresenta una delle più grandi opportunità – e sfide – per l’Europa nei prossimi decenni. A sottolinearlo è Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea (BCE), in un discorso pronunciato durante una conferenza sull’AI organizzata dalla BCE. Con un tono pragmatico ma determinato, Lagarde ha delineato un futuro in cui l’Europa non può permettersi di restare indietro, come accaduto con la rivoluzione digitale di Internet, evidenziando i profondi cambiamenti che l’intelligenza artificiale porterà in termini di produttività, lavoro e disuguaglianze sociali.

Jacob Helberg è il tipo di personaggio che riassume in sé tutte le contraddizioni e le peculiarità della politica americana contemporanea: giovane, ebreo, apertamente LGBT, ex finanziatore democratico ora convertito al trumpismo e, soprattutto, un feroce falco anti-Cina.
Nominato sottosegretario di Stato per la crescita economica, l’energia e l’ambiente da Donald Trump, Helberg non è solo un tecnocrate con un passato accademico solido, ma anche un insider della Silicon Valley con connessioni profonde nel mondo delle big tech e della sicurezza informatica. E, come si conviene a una figura del genere, ha finanziato il ritorno di Trump..

Washington e Bruxelles, nel loro tentativo miope di contenere la crescita di Cina e Russia, hanno finito per ottenere esattamente il contrario: un’alleanza strategica tra Pechino e Mosca che sta ridefinendo l’ordine mondiale. La cosiddetta “asse della sovversione” – che include anche Iran e Corea del Nord – è in realtà un aggregato eterogeneo in cui solo la partnership sino-russa conta davvero. E, ironia della sorte, se non fosse stato per la politica aggressiva e sanzionatoria dell’Occidente, probabilmente Pechino e Mosca sarebbero rimaste più distanti.
Dopotutto, la Cina è un colosso industriale che ha sempre preferito l’Occidente come mercato e fonte di tecnologia. La Russia, invece, è una superpotenza energetica che si sarebbe accontentata di vendere petrolio e gas all’Europa. Ma le guerre economiche e le sanzioni imposte dagli USA e dall’UE hanno chiuso qualsiasi altra opzione. Mosca è stata costretta a dirottare il suo commercio verso Oriente, e Pechino ha trovato in Putin un partner strategico che, seppur ingombrante, è essenziale per la stabilità delle sue forniture energetiche e per la sicurezza geopolitica.

Nel 1823, James Monroe dichiarò il dominio degli Stati Uniti sull’emisfero occidentale, una sorta di avviso ai naviganti europei: niente più colonizzazioni nelle Americhe, a meno che non fossero già presenti. Un pretesto perfetto per giustificare l’espansione a stelle e strisce, dalla California al Texas, fino alle isole del Pacifico. Poi venne Theodore Roosevelt con la sua aggiunta: non solo l’America si sarebbe difesa, ma avrebbe anche interferito ovunque per evitare minacce ai suoi interessi. Era la legittimazione dell’imperialismo con la scusa della sicurezza nazionale.
Oggi, a distanza di due secoli, Donald Trump sembra pronto a rispolverare il concetto, aggiornandolo in un’ambiziosa Monroe Doctrine 2.1. Il nuovo obiettivo non è più soltanto il controllo delle Americhe, ma l’espansione globale in una logica da superpotenza assoluta. Canada come 51° stato, l’acquisto della Groenlandia, il “recupero” del Canale di Panama: non sono idee estemporanee, ma pezzi di un mosaico strategico molto più ampio.

La Commissione europea stanzierà 1,3 miliardi di euro per la diffusione di tecnologie critiche di importanza strategica per il futuro dell’Europa e per la sovranità tecnologica del continente attraverso il programma di lavoro per l’Europa digitale (Digital) per il periodo 2025-2027 adottato oggi.

Oggi vediamo un po’ come AI e Propaganda Politica sono legate a doppio nodo. Vi guiderò in un mondo fatto di realtà, ma anche di miti, di storie inventate, di persone senza scrupoli, di roba copiata o rubata e di una “montagna di m…a“.
Frequentate i social media? Avete contato quanti video, short e reel di quanto è bella la tecnologia cinese, di persone che fanno gesti eroici in paesi che ricordano Russia o Cina, delle auto e moto americane, di androidi Cinesi che vanno in bicicletta, di fallimenti di tecnologie europee o italiane, di violenza, canetti perduti e salvati?
E quanti commenti da haters vi arrivano oggi?
Questo è quello che accade quando ordini alle big tech di allentare i filtri.

Il 25 marzo 2025, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha compiuto un passo significativo nella sua politica di contenimento nei confronti della Cina, aggiungendo ben 80 entità alla sua “entity list”. Si tratta di una mossa senza precedenti che segna un nuovo capitolo nella guerra tecnologica tra le due superpotenze, specialmente nel settore dell’intelligenza artificiale e dei supercomputer avanzati.
Questo intervento, il primo di una lunga serie iniziata con l’amministrazione Trump, ha avuto ripercussioni immediate, con Pechino che ha condannato fermamente l’azione e accusato Washington di voler manipolare la sicurezza nazionale per i propri scopi geopolitici.
L’inserimento di 80 organizzazioni nella lista nera ha coinvolto oltre 50 realtà cinesi, accusate di danneggiare gli interessi di sicurezza nazionale e politica estera degli Stati Uniti. Tra le aziende vietate vi sono alcune delle più potenti del settore tecnologico cinese, comprese quelle coinvolte nello sviluppo di intelligenza artificiale avanzata, supercomputer e chip ad alte prestazioni utilizzati in ambito militare.

L’Europa si trova davanti a una sfida esistenziale, un bivio che definirà il suo ruolo nel panorama globale dei prossimi anni. Energia, intelligenza artificiale e innovazione industriale sono i tre pilastri su cui si gioca il futuro del continente. A sottolinearlo con chiarezza è Mario Draghi, intervenuto al Parlamento per discutere il suo Rapporto sulla competitività europea.

Eric Xu Zhijun, vicepresidente di Huawei, aveva affermato a marzo, davanti a centinaia di giornalisti e analisti, che il ritorno della compagnia nel mercato degli smartphone 5G era impossibile senza l’approvazione del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Ma alla fine di agosto, Huawei ha smentito sé stessa e il mondo intero con il lancio a sorpresa del Mate 60 Pro, dotato di un processore avanzato sviluppato in Cina, sotto embargo tecnologico statunitense.
L’evento non è stato solo un trionfo commerciale, ma anche un atto politico. Il lancio del Mate 60 Pro è avvenuto in coincidenza con la visita in Cina della Segretaria al Commercio USA, Gina Raimondo, un tempismo che non può essere casuale. La domanda chiave per Washington è: come ha fatto Huawei a superare le restrizioni imposte dall’amministrazione americana, che miravano a soffocare la sua capacità di produrre chip avanzati?
La risposta sembra essere il Kirin 9000s, il processore sviluppato da HiSilicon, la divisione di Huawei dedicata ai semiconduttori. Un’analisi indipendente ha rivelato che il chip è stato probabilmente prodotto da SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corp), il principale produttore cinese di semiconduttori, anch’esso sotto sanzioni statunitensi. Questo ha scatenato un’ondata di speculazioni, mettendo in dubbio l’efficacia del blocco tecnologico imposto dagli USA.

Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno recentemente annunciato un piano decennale per investire 1,4 trilioni di dollari nell’economia statunitense, a seguito di incontri tra alti funzionari emiratini e il presidente Donald Trump. Questo impegno mira a potenziare significativamente gli investimenti esistenti degli EAU in settori chiave come l’infrastruttura dell’intelligenza artificiale, i semiconduttori, l’energia e la manifattura americana.
Nell’ambito di questo accordo, il fondo di investimento emiratino ADQ, in collaborazione con il partner statunitense Energy Capital Partners, ha annunciato un’iniziativa da 25 miliardi di dollari focalizzata su infrastrutture energetiche e data center. Inoltre, XRG, il braccio internazionale della compagnia petrolifera statale degli EAU, ADNOC, ha manifestato l’intenzione di supportare la produzione e l’esportazione di gas naturale negli Stati Uniti attraverso un investimento nell’impianto di esportazione di gas naturale liquefatto NextDecade in Texas.

L’Europa è a un bivio decisivo: rimanere frammentata e vulnerabile agli interessi esterni oppure accelerare l’integrazione economica per diventare un attore globale. È questo il monito lanciato da Enrico Letta, intervistato da Il Sole 24 Ore, a proposito del suo rapporto sul futuro del mercato unico europeo. L’ex premier italiano avverte che, senza una svolta strutturale, l’UE rischia di restare una colonia economica degli Stati Uniti e di non essere in grado di competere con Cina e altre potenze emergenti.

Trump e Putin si sentono al telefono e, come due vecchi amici che decidono di dividere il conto al ristorante, stabiliscono una tregua “parziale” in Ucraina, focalizzata su energia e infrastrutture. Non sulla vita umana, non sulle città ridotte in macerie, ma su gasdotti e centrali elettriche. Perché, si sa, la guerra può anche continuare, ma il flusso di denaro e risorse deve rimanere intatto.
La Casa Bianca annuncia che ulteriori dettagli verranno discussi a Jeddah, città saudita famosa non per la diplomazia, ma per il petrolio. Un caso? Ovviamente no. Nel frattempo, Kiev risponde con scetticismo, accusando Mosca di aver lanciato una nuova ondata di droni e dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, che Putin non ha mai veramente considerato l’opzione della pace. Zelensky, escluso dalle conversazioni tra i due potenti, si trova in Finlandia a cercare alleati, mentre il Cremlino esulta per una tregua che permette alla Russia di riorganizzarsi senza dover rinunciare ai suoi obiettivi strategici.

Sir Keir Starmer ha promesso di rivoluzionare il settore pubblico britannico con l’intelligenza artificiale. Una narrazione affascinante, perfetta per i titoli dei giornali e per placare un elettorato sempre più insofferente verso una macchina burocratica inefficiente e costosa.
Ma la realtà è un’altra: il governo fatica persino a comprendere il funzionamento di queste tecnologie, figuriamoci ad applicarle in modo efficace.

Immaginate se i ladri vi mandassero una lettera formale per chiedervi il permesso di entrare in casa vostra, prendere ciò che vogliono e poi rivendere il tutto con un bel margine di profitto. No, non è una distopia, è semplicemente il nuovo modello di business delle big tech. OpenAI e Google hanno ufficialmente chiesto al governo degli Stati Uniti di legalizzare il furto di contenuti protetti da copyright per addestrare le loro intelligenze artificiali, sostenendo che negarglielo sarebbe una minaccia alla sicurezza nazionale.
Sì, avete capito bene. Non solo queste aziende hanno costruito i loro modelli estraendo massicciamente dati senza chiedere permesso, ma ora vogliono anche il timbro di approvazione ufficiale. Nel loro commento, OpenAI avverte che se gli Stati Uniti non permetteranno alle aziende americane di attingere liberamente ai contenuti altrui, allora la Cina, che di certo non si fa troppi problemi con il copyright, prenderà il sopravvento. Un discorso che suona come un ultimatum mascherato da preoccupazione patriottica: o ci lasciate saccheggiare tutto senza ostacoli, o perderemo la supremazia nell’AI.
L’iniziativa arriva dopo che Donald Trump ha revocato l’ordine esecutivo sull’IA dell’amministrazione precedente, segnando un cambio di rotta nella regolamentazione dell’intelligenza artificiale negli Stati Uniti. OpenAI e Google sostengono che un approccio più flessibile al copyright sia essenziale per mantenere la leadership americana nell’innovazione tecnologica e nella ricerca scientifica.

Il Take It Down Act, recentemente approvato dal Senato, rappresenta l’ennesimo tentativo di regolamentare la diffusione di immagini intime non consensuali, comprese quelle generate dall’intelligenza artificiale. La legge, sponsorizzata dai senatori Amy Klobuchar e Ted Cruz, introduce sanzioni penali per chiunque condivida questo tipo di contenuti e impone alle piattaforme di rimuoverli entro 48 ore dalla segnalazione, pena multe salate.
Non c’è dubbio che la diffusione di immagini intime senza consenso sia un problema serio e distruttivo, amplificato dall’uso crescente dell’IA. Tuttavia, dare alla nuova amministrazione Trump un ulteriore strumento di controllo sulla libertà di espressione potrebbe rivelarsi un errore pericoloso. Il rischio, è che questa legge diventi una “arma” nelle mani di Trump per colpire i suoi avversari politici e proteggere i suoi alleati, come Elon Musk, che attualmente collabora con il governo mentre gestisce X, una piattaforma già infestata da contenuti NCII, speriamo di sbagliare.

La Spagna compie un passo decisivo verso la regolamentazione dell’intelligenza artificiale con l’approvazione di un disegno di legge volto a garantire un utilizzo etico, inclusivo e vantaggioso di questa tecnologia. La normativa, definita “pionieristica a livello nazionale e internazionale”, completa il quadro normativo europeo sui diritti digitali, affiancandosi alla DSA e alla regolamentazione dei media. L’annuncio è stato dato dal ministro per la Trasformazione Digitale e la Funzione Pubblica, Óscar López, al termine del Consiglio dei Ministri.

I membri del Congresso degli Stati Uniti vengono eletti per un periodo di 4 anni, solitamente 2 anni dopo l’elezione del Presidente. Quest’anno, 435 membri della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti e 35 membri del
Senato degli Stati Uniti . Inoltre, 39 stati eleggeranno i governatori, mentre le cariche politiche minori saranno rinnovate anche nelle elezioni locali.
Ma a Washington il tempo è un concetto elastico, modellato ad arte dai burattinai della politica. Un giorno tutto sembra bloccato in un’eterna attesa, il giorno dopo la realtà cambia con la velocità di un tweet presidenziale. E, voilà, ecco le elezioni di medio termine! La scacchiera politica, pazientemente preparata da ogni stratega d’America, viene ribaltata come un tavolo da poker dopo una mano sfortunata.

Il CHIPS and Science Act, promulgato nel 2022, è stato concepito per stimolare la produzione domestica di semiconduttori negli Stati Uniti, stanziando 52,7 miliardi di dollari in sussidi per la produzione e la ricerca nel settore. L’obiettivo principale era ridurre la dipendenza dalle catene di approvvigionamento estere e rafforzare la sicurezza nazionale attraverso una maggiore autosufficienza tecnologica.
Tuttavia, il presidente Donald Trump ha recentemente espresso forti critiche nei confronti di questa legge, definendola una “cosa orribile” e suggerendo che i fondi stanziati dovrebbero essere reindirizzati per ridurre il debito nazionale. Secondo Trump, l’imposizione di nuovi dazi sarebbe una misura più efficace per incentivare le aziende a costruire fabbriche negli Stati Uniti, eliminando la necessità di ingenti sussidi governativi.