Sorpresa. Non da poco, e non da tutti. Xiaomi, la multinazionale cinese delle meraviglie elettroniche, è appena entrata a gamba tesa nel mercato degli occhiali intelligenti. Un settore che molti definiscono ancora di nicchia, ma che in realtà è il nuovo terreno di scontro per chi vuole presidiare il futuro del computing personale. Una guerra silenziosa fatta di microchip, lenti e assistenti vocali, dove chi ha il controllo dell’ecosistema può riscrivere le regole del gioco. Sì, perché qui non si vendono solo gadget: si piantano bandiere nel campo minato dell’intelligenza artificiale indossabile.
Ne avevamo parlato al lancio il 26 Giugno quando sono stati lanciati a un prezzo quasi ridicolmente competitivo (1.999 yuan, ovvero poco meno di 280 dollari, disponibili ovviamente solo in CINA), gli occhiali AI di Xiaomi hanno già attirato l’attenzione di analisti, fotografi, influencer e early adopters con il fiuto per le innovazioni che cambiano le abitudini prima ancora di entrare nel mainstream. E se pensi che si tratti solo dell’ennesimo giocattolo cinese con una fotocamera montata su una montatura, preparati a ricalibrare le aspettative. Perché dietro questi occhiali da cyborg post-millennial si nasconde una strategia industriale spietatamente efficace, e un’architettura tecnologica degna di una superpotenza hardware-software.
Cominciamo da ciò che fa notizia: un assistente vocale integrato (XiaoAI), una camera ultra-wide da 12 megapixel, un chip AR1 by Qualcomm, e una batteria che, a detta dei primi utenti, resiste per ben 8,6 ore. Cosa puoi farci? Molto. Dall’attivazione vocale per registrare video in prima persona mentre sfrecci in bici tra i vicoli dei hutong a Pechino, fino alla trascrizione in tempo reale di riunioni multilingue con traduzione simultanea in dieci idiomi. E tutto questo senza alzare un dito. O meglio, senza toccare uno schermo. Il controllo vocale è la nuova interfaccia.
Ma il vero asso nella manica, come sottolineano anche gli analisti di WellsennXR e Counterpoint, è la profondità dell’ecosistema Xiaomi. Chi vive già in una smart home brandizzata Xiaomi, tra elettrodomestici connessi, TV, robot aspirapolvere e veicoli elettrici, sa che questi occhiali non sono un prodotto stand-alone. Sono l’estensione naturale della tua casa, del tuo ufficio e perfino della tua mobilità. È come se Siri, Alexa e Google Assistant avessero perso il treno: XiaoAI non solo parla, ma comanda il tuo mondo fisico in tempo reale, da una montatura che si collega come un nodo neurale alla ragnatela domotica di Xiaomi. E in un’era dove l’interfaccia utente si sta smaterializzando, questa roba non è un capriccio, è una dichiarazione di intenti.
Ovviamente c’è ancora da lavorare. Nessuno si aspetta che la prima generazione sia perfetta, anche se in Cina la concorrenza interna brucia le tappe a velocità ipersonica. Gli utenti chiedono più discrezione nel design, meno “tech gadget” e più “occhiale vero”. Una richiesta legittima. Al momento, chi li indossa sembra uscito da un episodio di Black Mirror: troppo evidenti, troppo riconoscibili, troppo early adopter. Ma se Xiaomi ha dimostrato qualcosa in questi anni, è la sua ossessione per l’iterazione rapida e l’adattamento aggressivo. Ci metteranno poco a rendere questi occhiali quasi invisibili, e a quel punto sarà troppo tardi per i competitor che ancora si trastullano con form factor da showroom.
E qui arriva il punto che fa più male ai concorrenti. Xiaomi non è Meta. Non ha bisogno di convincerti a entrare nel suo metaverso, perché ha già colonizzato il tuo mondo reale. Non deve reinventare la ruota dell’AR o venderti una filosofia. Ti vende un oggetto funzionante, utile, compatibile con ciò che già possiedi, a un prezzo accessibile, e con una supply chain così integrata che può scalare la produzione mentre gli altri stanno ancora prototipando. La sinergia verticale tra R&D, design, produzione e distribuzione che Xiaomi possiede è semplicemente ineguagliabile da quasi tutti i player occidentali. Quando Ivan Lam di Counterpoint dice che “il vantaggio è nella catena di fornitura”, non è un eufemismo. È un avvertimento.
La killer feature, però, è la funzione che non si vede: la normalizzazione sociale dell’AI indossabile. Quando sarà normale vedere qualcuno parlare con gli occhiali, filmare una partita a carte senza usare il telefono, o dettare promemoria mentali che si sincronizzano automaticamente con lo Xiaomi Pad del salotto, vorrà dire che la guerra non l’ha vinta chi ha inventato per primo, ma chi ha reso la tecnologia inevitabile. E Xiaomi è bravissima a rendere le cose inevitabili. Basta ricordare cosa ha fatto con i telefoni di fascia media: ha alzato l’asticella così in alto che perfino Apple ha dovuto ridisegnare la sua strategia di pricing in Asia.
Ovviamente non tutto è rose e lenti polarizzate. C’è il problema, ancora irrisolto, della privacy. Cosa succede quando qualcuno registra senza che te ne accorga? Come si protegge il dato sensibile in un mondo dove anche il tuo sguardo è un flusso di input? Non è un caso se la regolamentazione della wearable AI è il nuovo terreno di scontro geopolitico. Ma Xiaomi, furba com’è, gioca su un altro piano: non vuole vincere l’etica, vuole vincere il mercato. E una volta che sei il default, l’etica si riscrive sulle tue specifiche tecniche.
In un mercato già affollato da Ray-Ban Meta, Snap Spectacles e mille startup che bruciano capitale senza vendere niente, l’ingresso di Xiaomi ha l’effetto di una cannonata in un acquario. La differenza è che Xiaomi non ha bisogno di hype: ha bisogno di volumi. E quelli li conosce molto bene. Come ha fatto notare Luo Xuan, imprenditore AI di Shenzhen, se hai già una casa piena di gadget Xiaomi, gli occhiali diventano l’estensione logica, quasi inevitabile, del tuo corpo digitale. Un plug-in per la tua esistenza connessa.
Nel 2025 ci sarà, dicono, “una guerra da centinaia di occhiali intelligenti”. Quello che nessuno dice è che questa guerra non sarà vinta da chi ha la visione migliore, ma da chi ha l’infrastruttura per distribuire quella visione prima degli altri. E Xiaomi ce l’ha. Sotto il naso di tutti.